Ritratto di Giorgio Tamburlini:
coltivatore di un giardino che cresce




Lavoro e formazione professionale

Nella formazione di un medico
– ma più in generale di una persona – contano i “maestri”?

Certo che contano: più che trasferire conoscenze che si possono acquisire in altro modo, possono ispirare a una visione, motivare all’azione, insegnare un metodo, dare opportunità per crescere, farti sentire parte di un gruppo. La definizione di maestro, il buon maestro, sta in questo. Il cattivo maestro è tale perché porta su “cattive strade” (definizione comune) o perché “chiude”, impedisce, controlla…

Com’è cambiata la medicina da quando lei aveva scelto di diventare medico? E il concetto di cura?

La “medicina” forse non è cambiata tanto se la vediamo da lontano: finalità, metodi e problemi sono gli stessi. Da vicino… be’, c’è stato un progresso scientifico e tecnologico enorme, con un’accelerazione negli ultimi anni che ha cambiato molte prospettive di prevenzione e soprattutto di terapia: si pensi ai farmaci cosiddetti “biologici” per la cura di patologie croniche e tumorali. Nemmeno il concetto di “cura” è cambiato molto, se risaliamo a Ippocrate. Forse Ippocrate si era perso sotto i colpi dell’industria della cura, anche se qualcuno ha cercato di mantenerlo in vita e svilupparne l’insegnamento, magari sotto diverso nome: medicina olistica, narrativa, alleanza terapeutica, counselling.

Trent’anni fa, la medicina delle prove ha formalizzato un approccio alla cura basato sui dati della ricerca clinico-epidemiologica: le basi dell’ebm sono ancora attuali?

Sì, ma occorre vederne i limiti. Rispetto al “ben curare” l’ebm rappresenta una parte della soluzione, tanto più parziale quanto più i quesiti sono complessi. Se i quesiti, ad esempio, riguardano l’uso di specifici farmaci per specifiche patologie l’ebm fornisce buona parte delle risposte. Se i quesiti riguardano interventi complessi e fortemente influenzati dal contesto sia nella loro realizzabilità sia nella loro efficacia – come tipicamente quelli che riguardano interventi di salute pubblica – allora sono necessari ben altri approcci, direi di “context-based medicine” dove nel contesto ovviamente ci stanno le persone, nella loro interezza anche sociale e culturale, e i sistemi sociali e sanitari. Per chi opera nel campo dell’alta specialità clinica – ma questo può essere vero, anche se in misura minore, per alcuni aspetti delle cure primarie – l’ebm dà una risposta conservativa, “vecchia”: intanto, che si è potuta accumulare su un campo molto specialistico una mole di studi sufficiente per una meta-analisi, c’è stato il tempo per nuovi studi e per approcci ancora sperimentali di cui però si deve tenere conto, se l’imperativo è quello di cercare di fare qualcosa “hic et nunc” per un paziente.

La popolarità di cui gode la medicina narrativa in alcuni ambienti è giustificata? ebm e narrazione sono modelli contrapposti o aspetti complementari della cura e della assistenza?

Certamente sono approcci complementari, in nessuno dei due casi da prendere come “la” soluzione.

Di recente si parla (e si scrive) molto di real world evidence: quanto sono affidabili i dati del mondo reale nel fornire indicazioni alla pratica clinica rispetto ai dati derivanti da studi controllati randomizzati di ampie dimensioni?

Ho una idea abbastanza definita sul punto, che deriva dalla grande varietà di “mondi reali” che ho attraversato, nell’attività clinica in Italia e soprattutto in quella svolta per definire linee guida e applicarle in molti altri Paesi. Quando cambia il contesto culturale, sociale, operativo, cambia quasi tutto in termini di priorità, accessibilità, fattibilità e efficacia sul campo di farmaci e interventi. In questi casi viene molto in aiuto la ricerca operativa (o implementation research), che deve farsi carico dei contesti e delle condizioni di applicazione, e aprire la “scatola nera” della differenza tra efficacia dimostrata in setting controllati e efficacia sul campo. Occorre allenarsi e allenare i giovani in formazione a tenere conto del mondo reale, a studiare questa differenza, a fare ogni volta che ci si trova di fronte a un problema l’esercizio di costruire una teoria del cambiamento, non solo per progetti e interventi complessi di popolazione, ma anche per singoli pazienti con problematiche complesse: “cosa deve succedere affinché questo paziente faccia quello che dovrebbe, assuma il farmaco come dovrebbe, ecc. ecc.”?

In sostanza, di fronte a un quesito clinico e, soprattutto, un quesito riguardante la salute pubblica – questioni complesse che si articolano tipicamente su più dimensioni (antropologica/culturale, economica, operativa e logistica, ecc.) – si dovrebbero aprire diverse strade di conoscenza, da percorrere contemporaneamente. Quella classica ebm alla ricerca di quanto si può ricavare dagli studi già fatti, e quella della real world medicine, da cui si può trarre tutta una serie di indicazioni soprattutto sui contesti e le condizioni di applicabilità. Ad esempio, in passato mi sono occupato di come e quando utilizzare personale “di prossimità” comunemente definito come Community health workers (Chw). Le revisioni sistematiche esistenti sul tema sono state molto utili, ma queste stesse invitavano a una buona ricognizione dei contesti locali di applicazione di queste figure professionali. Questi risentono molto della formazione dei Chw, che può andare da una scolarità minima al diploma, del loro inquadramento nel sistema (volontari, volontari retribuiti, personale dipendente dal sistema, ecc.) e ovviamente del riconoscimento di queste figure da parte delle comunità.

In che direzione dovrebbe cambiare il modo di guardare alla salute considerando i grandi cambiamenti del nostro tempo?

Tra le grandi sfide da affrontare nello “sguardo alla salute” c’è sicuramente quella di comprendere – nella pratica e non solo nelle enunciazioni – come lo stato di salute dipenda da molte componenti non sanitarie: istruzione, reddito, ambiente e clima, coesione sociale, ecc. È il concetto dell’Organizzazione mondiale della sanità della “salute in tutte le politiche”. Una seconda sfida certamente è quella di garantire l’universalità dell’accesso agli interventi di prevenzione diagnosi e cura, sfida che il progresso tecnologico unito alla proprietà privata di molti processi produttivi rende ancora più ardua; si pensi ai nuovi farmaci sempre più efficaci ma sempre più costosi, a interventi sempre più sofisticati ma agibili da pochi, anche all’interno di sistemi sanitari universalistici per disegno, come il nostro. Una terza direzione è quella del prendersi cura delle persone e non solo delle loro malattie, il che richiede un’attenzione alla formazione, che su questi aspetti è molto ma molto carente, sia degli operatori sia dei manager, la cui professionalità presenta spesso lacune importanti sia nella gestione delle risorse umane sia nell’attenzione agli esiti complessivi di salute.

Nella sua vita di medico e di ricercatore, qual è la parte più noiosa e quella invece più gratificante?

Cominciamo dalla gratificazione: il lavoro clinico dà gratificazioni per lo più nel breve periodo, e dirette, hanno cioè un nome, un viso. Il lavoro di progettazione, di salute pubblica o di governo ha tempi molto più lunghi, con risultati che si vedono a distanza di anni. Ho fatto, tempo fa, l’esercizio di stimare il lasso di tempo che passa tra un impegno specifico su un tema e la sua realizzazione su larga scala, applicandolo ad alcune questioni a cui mi sono dedicato, di solito come parte di un gruppo: ad esempio la priorità da dare alle cure neonatali nell’ambito dei programmi per la salute infantile, o alle dimensioni relative allo sviluppo e non solo alla sopravvivenza dei bambini, l’enfasi da porre sulla qualità delle cure e non solo sulla “copertura” degli interventi. Il tempo medio richiesto affinché questi temi trovassero posto prioritario nelle agende internazionali è sempre stato ben superiore alla decade! Quindi, succede abitualmente che vi siano periodi lunghi di sofferenza, direi frustrazione, prima che si vedano i risultati, quando si vedono. Quanto alla noia, questa non l’ho mai percepita, è un sentimento da coda allo sportello. Ma posso comprendere che certi meccanismi e atti molto ripetitivi, quali più frequentemente si incontrano nell’ambulatorio del medico o del pediatra di famiglia, siano generatori di noia oltre che di frustrazione. Qui c’è, tuttavia, un antidoto: la curiosità verso le persone (bambini, genitori, ecc.) rende anche i moccoli al naso uno diverso dall’altro.

Quale considera il risultato più importante del suo lavoro?

Probabilmente, in termini di impatto misurabile, il contributo dato nell’ambito di un gruppo nato in seno all’Oms all’ ideazione, alla produzione e alla diffusione di un tascabile di cure pediatriche, il ben noto (non qui in Italia) “pocket book” o “blue book” di cure pediatriche. È stato tradotto in decine di lingue e stampato in molti milioni di copie, molte delle quali tenute in tasca, sgualcite quanto basta, in buona parte del mondo non solo da medici ma anche da medical assistants e altre figure intermedie che in molti paesi svolgono l’attività clinica dove i medici sono pochi o stanno dove possono svolgere anche attività libero-professionale, vale a dire nelle città. Oltre a contribuire a produrlo, l’ho introdotto in molti paesi, dai più piccoli (ad esempio il Kyrgyzstan) ai più grandi (l’Etiopia ma anche la Cina).

Collegato a questo, vi è stata l’impresa, in parte nata dallo stesso gruppo, di andare a vedere come funzionavano (o non funzionavano) le cure pediatriche in un campione di sette paesi, nei cinque continenti, da cui è scaturito uno studio pubblicato sul Lancet e l’iniziativa, a questo collegata e sempre in ambito Oms, di creare uno strumento per la valutazione e il contestuale miglioramento attraverso una valutazione peer-to-peer, partecipata, della qualità delle cure pediatriche, in un primo momento, e ostetriche e neonatali in un secondo tempo. Questo approccio è stato largamente utilizzato in molti paesi e ha contribuito a creare sensibilità e iniziative sulla questione della qualità delle cure, sia in sede Oms sia in seno alle associazioni professionali, ad esempio della International pediatric association, di cui sono stato membro dello Standing committee per nove anni.

Sfide e scommesse

Se fosse ministro della salute, a quale punto critico del servizio sanitario cercherebbe di trovare soluzione? Avrebbe già in mente una – o più – soluzione/i per i punti deboli del nostro sistema?

Ho una lente di osservazione ancora fondamentalmente pediatrica, ma probabilmente il discorso vale anche per la salute dell’adulto: sono le cure primarie il maggiore punto critico, e in questo ambito la formazione e le competenze dei medici “di base”, la loro modalità di lavoro – ancora fondamentalmente “da single” – e il ruolo ancora troppo limitato delle figure professionali infermieristiche. Quindi le soluzioni sono: medicina di base e pediatria di famiglia organizzata in ambulatori di gruppo, in grado di coniugare capacità di risposta e circolazione di competenze, e coniugata a un rapporto medici-infermieri da cambiare radicalmente (non solo in termini di rapporto numerico) e con una formazione da rivedere, soprattutto per i primi.

Sempre a proposito del Ssn, pensa che realmente siano in pericolo i principi fondanti del Sistema?

Si, equità e universalità sono in pericolo, credo di averne spiegato i motivi in precedenza: a partire dalla gestione politico-amministrativa a quella aziendale, questi principi non sono più, con qualche valida eccezione, quelli fondanti dell’operare quotidiano. È con evidenza una questione di visione etico-politica della salute e della sanità, ma vi sono anche carenze infrastrutturali: una di queste, di cui dai tempi del Ministero Bindi non si parla più, è quella di una scuola italiana di salute pubblica, che dovrebbe produrre la cultura che oggi in buona parte manca.

Da persona che vive in una terra di confine ma di una Regione a statuto speciale, che giudizio dà dell’autonomia regionale differenziata?

Non sono certo di conoscere a fondo la questione, posso dire che grazie all’autonomia di cui ha goduto e gode il Friuli-Venezia Giulia abbiamo avuto in un passato ormai abbastanza lontano uno dei migliori sistemi sanitari d’Italia, e ora stiamo procedendo – in particolare per alcuni aspetti che riguardano proprio le cure primarie – verso modelli inefficaci. Quindi l’autonomia produce quello che i dirigenti regionali, politici e tecnici, sanno trarne. Alla fine è una questione di cultura, che può esserci o può mancare, sia al centro che in periferia. È certo che, se tutto il potere passa alla periferia, aumenta la probabilità di differenze tra chi nasce in una regione (o ambito territoriale) e chi in un’altra.

C’è una persona della Politica con la quale avrebbe piacere di andare a cena? Di cosa le piacerebbe parlarle?

Probabilmente una persona con queste caratteristiche: con un qualche potere decisionale, con idee diverse dalle mie, sufficientemente intelligente. Non faccio nomi.

Lettura, scrittura, aggiornamento

Un aspetto importante del vivere da medico riguarda la comunicazione della ricerca: nella sua esperienza, come si può riuscire a trovare il tempo per organizzarla, per condurla e per rendicontarla?

Tema complesso, che dipende da chi è il target: il personale addetto, il pubblico? Mi sono occupato di entrambi: si possono tentare approcci combinati, ma abitualmente si usano linguaggi e veicoli diversi. Quanto a come trovare il tempo, dipende da che lavoro si fa: se questa importante missione è la propria principale, o se ne è un necessario componente, o solo un desiderio per il quale occorre trovare uno spazio.

Cosa suggerisce a un* giovane collega per riuscire a trovare il tempo per scrivere? Come autore, qual è la sua rivista preferita? E come lettore? Tra le riviste più conosciute di medicina generale, qual è che sfoglia con maggiore interesse?

Leggo da sempre, con priorità rispetto alle altre riviste mediche, il Lancet, che da anni però si è diversificato in una miriade di sotto o sovra temi: Lancet global health, Lancet Neurology, Lancet Child Health, ecc. Sul Lancet stesso credo di avere il numero più alto di miei lavori pubblicati, a parte naturalmente la rivista italiana che seguo dalla sua nascita, cioè Medico e bambino. Per trovare il tempo per scrivere bisogna innanzitutto avere voglia di scrivere, quindi il punto è: come mi faccio venire voglia di scrivere? Come per tante altre cose, occorre non essere soli, almeno di solito, e concepirla come impresa condivisa con altri, e “dovuta” ai lettori potenziali.

Se una collega le chiedesse quale rivista seguire per mantenersi informata sulla salute globale, quale le suggerirebbe?

Lancet Global health. Ma anche lo stesso Lancet, nella versione “base”.

la peer review è ancora una garanzia di tutela della qualità dei contenuti scientifici? Potrebbe essere più efficiente un sistema aperto, garantendo la trasparenza dei commenti ai lavori pubblicati?

È una garanzia parziale, necessaria però. Ci vuole comunque un sistema a monte di selezione, altrimenti esce di tutto. Esce già di tutto, a dire la verità, perché si sono moltiplicate le riviste dove, se si paga, si pubblica quasi ogni cosa. La revisione a monte è comunque utile, ma soprattutto per i lettori, come guida. Certo, se uno sapesse che ogni suo lavoro verrebbe pubblicato anche con un commento autorevole, starebbe più attento a quello che scrive.

Se le chiedessimo qual è oggi l’impact factor delle riviste per lei di riferimento, saprebbe risponderci? È un indicatore credibile della qualità dei contenuti? C’è un’alternativa all’impact factor per definire i meriti accademici o – in generale – di un ricercatore?

Conosco l’IF di alcune riviste, le più note. L’IF è un indicatore e non può essere l’unico. Nemmeno può esserlo l’h index, che calcola in sostanza quanto i lavori di quell’autore sono stati citati. Ormai esistono metodi per, entro certi limiti, “oliare” sia il primo sia il secondo indicatore. I meriti veri sono quelli definiti: a) dalla comunità accademica, per valutare l’innovazione portata su un argomento; b) dalla comunità dei practitioners, per valutare l’impatto di quel particolare sapere nella realtà clinica e operativa. L’alternativa vera sarebbe un giudizio combinato dei due aspetti, non facile da organizzare.

Tra il sistema tradizionale – il lettore sostiene il costo di un abbonamento per leggere i contenuti – e l’open access – l’autore paga il costo della pubblicazione – quale ritiene più funzionale? In altre parole, un’istituzione sanitaria (Regione, Asl, Ospedale) è preferibile paghi per leggere o paghi per far scrivere i propri dipendenti?

L’open access è nato bene come principio ma poi si è deteriorato in un sistema dove, appunto, si “compra” o quasi la pubblicazione. I professionisti della salute devono avere un accesso buono alla letteratura, possibilmente combinato con momenti di lettura critica e scambio tra professionisti, quindi il sistema pubblico deve garantire sia la prima che la seconda cosa.

Usa lo smartphone per leggere contenuti scientifici? È abbonato a servizi di e-alert di riviste scientifiche? Usa Twitter, Instagram o Facebook per ricevere segnalazioni di nuovi contenuti scientifici?

Non uso quasi mai lo smartphone se non per leggere qualcosa inviatomi da altri. Ricevo gli alert di alcune riviste, quelle per le quali ho scritto o svolgo attività di revisore. Non uso, o uso poco, i social. Sono ancora fondamentalmente un e-mailer, versione informatica dei vituperati boomers.

A proposito di letture: ha un libro – o più libri – sul comodino? quale?

Quasi sempre sono due i libri in lettura e spesso sono un romanzo e un saggio, che leggo a intermittenza. Gli ultimi due: Tomás Nevinson, di Javier Marías e Diventare umani di Michael Tomasello.

Qual è l’ultimo libro che ha regalato? C’è un libro che secondo lei un giovane pediatra dovrebbe leggere?

Ho regalato qualche giorno fa Un albero cresce a Brooklyn alla figlia adolescente di un’amica. No, non c’è un libro specifico che un giovane pediatra dovrebbe leggere. Un/a giovane pediatra dovrebbe, in generale leggere dei libri, non solo le riviste scientifiche.

Molti pensano che i film – o alcuni film – possano essere utili alla formazione e alla crescita professionale di un medico: qual è il suo parere?

Non ho una risposta, si va al cinema anche, forse soprattutto per star bene, pensare, vedere. Mi sembrano passati i tempi, se mai vi sono stati, di una visione strumentale. Poi, l’arte è per sua natura molto soggettiva.

Nell’aggiornamento di un medico, che ruolo possono avere i congressi? Quali congressi o eventi – a suo parere – sarebbero da privilegiare?

Risposta complessa. I congressi servono nella misura in cui sono di qualità e coinvolgono i partecipanti, possono servire per motivarsi ascoltando delle buone esperienze o delle presentazioni illuminanti o per apprendere qualcosa di nuovo, e questo può essere semplicemente piacevole da sentire o anche utile. Dipende da chi li organizza e in qualche misura da chi li frequenta. Non sono certo la modalità principale per aggiornarsi, tanto meno per formarsi.

Passioni e tempo libero

Quale città italiana ama di più? E – nel mondo – una città che più la affascina? C’è una città – anche non italiana, ovviamente – in cui le sarebbe piaciuto vivere?

Venezia, ma non ci ho abitato; Roma, dove ho abitato per un anno. La lista delle città affascinanti è lunga, dipende anche dal tipo di fascino. Rio, ad esempio, ne ha diversi: paesaggio naturale e urbano, vita e vitina. Ma non da viverci. Lisbona, a Lisbona abiterei (ancora per un po’ si sta gentrificando, come si dice oggi, anche nelle parti più popolari che poi sono quelle del centro storico).

In cucina, preferisce stare ai fornelli o al tavolo? Ha un piatto preferito?

Entrambe le posizioni danno soddisfazione. Preferisco le tavole con tante cose – come si può trovare al Sud, o nella cucina araba – senza “il” piatto. Comunque, una buona pasta e fagioli…

Negli ultimi dieci anni, ha progressivamente abbandonato il campo della pediatria e della salute pubblica per dedicarsi all’imprenditoria sociale nel campo della prima infanzia. Quali sono le ragioni di questa scelta e…
ne è contento?

È stato in realtà un passaggio graduale. Il Centro per la salute del bambino (Csb), la onlus a cui dedico ora buona parte del mio tempo professionale, è nato ancora nel lontano 1999 per iniziativa di un gruppo di amici, molti dei quali pediatri “di confine”, come me. E l’interesse per quel campo vasto di saperi che va sotto il nome di Early child development (Ecd) risale proprio alla nascita del Csb e al suo progetto ancor oggi più rilevante e presente nei territori, vale a dire Nati per leggere. Questo progetto riassume in sé tutti i concetti base dell’Ecd, l’importanza di quello che avviene nei primissimi anni, il ruolo dei genitori, la capacità di alcune buone pratiche di colmare o almeno ridurre il gap che altrimenti si crea nello sviluppo di alcune competenze tra bambini che nascono e crescono in contesti familiari e sociali diversi. Questa scelta, che si è via via consolidata nel tempo, ha una sua radice nella mia antica preoccupazione di cercare di dare un contributo dove ce n’era maggiore bisogno, o per lo meno a me così pareva. Ci sono poi altre motivazioni della scelta: una è quella della libertà di intraprendere, al di fuori dei recinti e dei percorsi imposti dalla politica; un’altra ancora è la bellezza di poter dare a un gruppo di persone l’opportunità di trovare una propria strada, formarsi e diventare un motore importante di cambiamento. Dall’unico part-time con cui abbiamo iniziato nel 1999 oggi il gruppo è arrivato a contare due dozzine di persone, a cui si aggiungono molti giovani che lavorano nei progetti a cui collaboriamo. Un giardino che ormai si coltiva da sé.