Recensioni.

“La borsa del medico”

di Stefano Cagliano




Può sembrar banale, le malattie sono sempre state e sempre saranno uguali, fatte salve la capricciosità dei geni, mentre i medici e la loro professionalità cambiano. Nel sospetto di una qualsiasi malattia, oggi i professionisti della salute hanno strumenti (oltreché ipotesi diagnostiche) molto diversi da decenni o secoli fa. Parlando del Corpus Hippocraticum, nel V sec. a.C., lo storico Mirko Grmek «nell’esempio più notevole […] delle tre tisi del trattato Sulle affezioni interne»1 attribuisce al medico per la diagnosi solo un esame obiettivo, empirico, a essere misericordiosi. Oggi, il sanitario, oltre alle informazioni di base, potrebbe ricorrere, almeno, a stetoscopio, Rx e Tac del torace.

Ma non è tutto, perché lo studioso Giorgio Cosmacini aggiunge che «il computer aiuta il medico a sapere, aprendo il suo sguardo a cose nuove e agevolando i suoi contatti col mondo». In La medicina non è una scienza aggiunge che «lo aiuta anche a fare il medico, facilitando le sue informazioni e procedure; non lo aiuta a essere medico, in senso antropologico ed etico»2.

Oggi come allora non c’è nulla di sorprendente se il medico utilizza lo stetoscopio, il termometro o trova più opportuno ricorrere all’emogas o all’ecografo. La visita medica non termina con il primo colloquio con il malato.

Per questo ho trovato intrigante la lettura di La borsa del medico di Francesco Adami3. Una storia degli strumenti che hanno cambiato per sempre la storia della medicina, come recita il sottotitolo. È solo doveroso elencare i “reclusi” in borsa, ovvero stetoscopio, misuratore di pressione, termometro, saturimetro, siringa, laccio emostatico, elettrocardiografo, ecografo, apparecchio radiografico, macchina dell’emogas. Ma il libro è ricco di informazioni, pieno di flash storici, piacevole da leggere, e zeppo di scienza, leggibile con facilità considerato che l’autore è un divulgatore, studioso di storia della medicina e di storia della scienza.

Le pagine riescono a essere anche curiosamente sorprendenti. Sì perché – per esempio – dove si legge di com’è nata la siringa, si scopre che questa altro non è che una versione moderna, meno dolorosa, del clistere. Entrambi (siringa e clistere) servono per infilare liquidi nel corpo, ma scelgono vie e modalità divere. Il clistere ha una cavità più espansa, la siringa solo un piccolo tubo di plastica. Per infilare il primo, si ricorre a formazioni fatte per strutture allungate, per le seconde occorre un ago. Questo per ribadire solo che le siringhe non sono altro che un’evoluzione dei clisteri. La pratica comunque ha goduto di una popolarità straordinaria. «Lo stesso sovrano di Francia Luigi XIV – racconta Adami – era abituato alla pratica dell’enteroclisma» e le cronache del tempo narrano che «arrivò a praticare su se stesso oltre cinquemila clisteri»3,p.74. Il primo prototipo di siringa comparve però nel 1852 e solo nel 1852 «si praticò una delle prima iniezioni su di un essere umano»3,p.75, gli aghi ipodermici comparvero nel 1921 e nel 1954 le siringhe monouso.

Un altro interessante è il capitolo sull’apparecchio radiografico, la strana macchina con la quale ognuno ha avuto a che fare entrando in radiologia. Reparto curioso questo, da dove non escono solo fogli bianchi di carta, ma strani fogli di plastica, che fanno pensare – dice Adami – a «una particolarissima fotografia»3,p.139. Foto possibili «grazie al potere di alcuni raggi che furono definiti “sconosciuti” e che per questo motivo passarono alla storia con il nome di raggi X»3,p.139. Il libro racconta tutta la vicenda “radiologica”, dall’inizio del 1895 di William Roentgen, con il successo presso Lord William Thompson, più noto come Lord Kelvin, la nascita della radioprotezione, la vicenda della radioattività e la scoperta dell’uranio, con la comparsa di Henry Becquerel prima e di Pierre Curie dopo. Racconta sempre Adami che così emergevano dal nulla, ovvero dalla nostra ignoranza, altri elementi radioattivi che avrebbero condizionato la storia, ovvero polonio e radio. Negli anni Venti, però, vennero anche altre dolorose novità e si dimostrò che i neo-venuti non erano tanto da benedire. I raggi X causavano mutazioni nel genoma animale nella Dhosophila melanogaster, organismo che abbiamo sentito tanto vicino a noi che nel 1946 fece meritare a Hermann Joseph Muller il premio Nobel per la medicina. Si era già iniziato a usare i raggi X «per curare verruche, tumori della pelle e carcinomi metastatici»3,p.147, grande rivoluzione curativa. Ma dovevano venire altre sorprese.

Come ha scritto nel 2021 il fisico medico Giampiero Tosi, «le tecniche tomografiche erano utilizzate fin dagli anni Trenta del Novecento ma [Godfrey] Hounsfield fu il primo a combinare una macchina a raggi X con un computer e solo quattro più tardi, nel 1975, fu costruito il primo tomografo applicabile a tutto il corpo umano»4. È quasi irrilevante che Hounsfield, un ingegnere elettronico, lavorasse per l’etichetta discografica Emi, quella che lanciava i dischi dei Beatles.

Forse manca solo una cosa nel libro, a fronte di una pregevole bibliografia che troppo spesso si cerca inutilmente in testi di divulgazione scientifica. Sì, perché proprio in una pubblicazione di Kay-Tee Khaw e Michael Marmot compare la considerazione che «una delle preoccupazione di Geoffrey Rose [un inglese pioniere dell’epidemiologia, che all’inizio degli anni ’60 era alla London School of Hygiene] […] era che le deduzioni sono valide tanto quanto i dati su cui si basano»5. Quando iniziò le sue indagini, non c’erano gli strumenti e gli apparecchi in attività oggi, a partire dai più semplici. E Rose «si dedicò […] allo sviluppo di metodi di misurazione, tra cui il prototipo dello sfigmomanometro»5,p.XIII. Appunto un altro strumento di cui si parla nel libro. Ma dello strumento, non di Rose.

Bibliografia

1. Grmek M. Una grande assassina: la tubercolosi. Le malattie all’alba della civiltà occidentale. Bologna: il Mulino, 1985; p. 31.

2. Cosmacini G. La medicina non è una scienza. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2008; p. 102.

3. Adami F. La borsa del medico. Milano: Ulrico Hoepli Editore, 2022.

4. Tosi G. L’invenzione che ha cambiato la Medicina. 50 anni fa nasceva la Tac. Quotidianosanità.it 2021; 30 settembre.

5. Khaw Kay-Tee, Marmot M. Prefazione. Geoffrey Rose e la strategia della medicina preventiva. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2012, p. XII [Prefazione adattata da un articolo per la morte di Geoffrey Rose pubblicata sul Times il 12 novembre 1993].

Quando eravamo felici: la dialettica tra spensieratezza e responsabilità




di Luca De Fiore

È uno spazio molto ampio, un ambiente enorme dove camminano velocemente tante persone. Illuminato in modo eccessivo, fa l’effetto della gigantesca stampa di una fotografia di Massimo Vitali, dove non sai se mettere a fuoco le singole persone o provare a leggere e interpretare la situazione e il contesto. Che sono – situazione e contesto – quelli del livello meno uno al di sotto della tribuna e del terreno di gioco di uno stadio. Se fosse la memoria ad aver funzionato, potrebbe essere quello del Velodromo olimpico di Roma, anche se là erano stanze e corridoi stretti. Ai margini del quartiere dell’Eur, quello stadio è stato minato e fatto esplodere nel 2008. Nessun riguardo neanche verso il legno scuro del Camerun che restituiva il pallone appena spazzato verso la tribuna anticipando un’aletta che correva al doppio della tua velocità. Ci si cambiava, appunto, negli spogliatoi sotto al terreno di gioco e si entrava in campo da una scala che saliva dietro la porta ad est, verso la Colombo: uscivi disorientato da tanta luce improvvisa, emozione e bellezza. Ora a livello meno uno siamo centinaia, forse di più. «Il mistero del calcio sta nell’inesauribile varietà degli uomini, ed è per la diversità che ne deriva che lo stupore si rinnoverà sempre» scriveva Vladimir Dimitrijevic´1. Tutti i compagni di squadra e gli avversari affrontati: siamo noi, le solite pippe insomma, ma ciascuno ha la maglia di un grande calciatore. Indosso quella di Toninho Cerezo, non della Roma ma del Brasile dell’82.




Sono immagini di un sogno. Non credo lo avrei fatto se non stessi leggendo Quando eravamo felici, un libro di Corrado De Rosa, psichiatra che – avverte la bandella – si è occupato di camorra, infiltrazioni mafiose ed eversione. Questo libro riesce a essere racconto e saggio, memoria personale e ricostruzione collettiva di un’epoca in cui chi c’era sperava di veder realizzate aspirazioni sociali e desideri individuali: «I dieci anni che accompagnano la nazionale italiana al mondiale di casa mostrano i muscoli – scrive De Rosa –, completano il passaggio dalla società contadina a quella industriale, consegnano proprio all’industria la formazione di traino dello sviluppo. Ma sono un gigante che poggia sui piedi d’argilla». Il punto non è solo nella pessima amministrazione che ha accompagnato la preparazione dell’evento, sebbene i numeri degli incidenti sul lavoro nei cantieri (678 feriti e 24 morti) o della lievitazione delle spese (più del 90 per cento di quanto previsto) siano terribili. Il punto è che in quegli anni sono state gettate «le basi di una generazione di figli che stanno peggio dei padri», scrive Corrado.

Ma cosa c’entra il calcio con la crisi economica e sociale? C’entra perché il calcio può essere una causa sociale, il termometro delle passioni, metafora della vita, gloria degli imbroglioni e arte dell’imprevisto, rappresentazione sacra del nostro tempo, religione secolare, un rituale. Definizioni tratte dai riferimenti dell’autore che sono molti e diversi, dettagliati in una bibliografia ricca che testimonia che «il calcio è il circo dei nostri giorni, ma anche il teatro» (lo scriveva nel 1994 Javier Marías su El Pais)2 perché «è refrattario a confinarsi negli aspetti ludici dell’esistenza» spiega De Rosa, e «sgomita, spinge, preme, esonda». Il calcio ha a che fare con gli affetti: «è il padre che ti porta allo stadio quando hai cinque anni, lo zio che tifa per la squadra che hai imparato a odiare» e leggendo ti vengono in mente i tuoi mille vissuti personali e quel punto in cui il poeta Valerio Magrelli scriveva che giocare da soli col padre è un momento emotivamente insostenibile fatto di pomeriggi domenicali col sottofondo di radioline gracchianti3. O di sere d’agosto di padri obbligati a “tirare due calci” appena scesi dalla Fiat 124 bollente che dal lavoro lo aveva portato dalla famiglia in vacanza: è così che il calcio, per Marías, finisce con «l’essere emozione, paura e tremito, desolazione o euforia».

Quando eravamo felici doveva ancora iniziare la semifinale del mondiale di calcio organizzato in Italia trentadue anni fa. Quando eravamo felici è un insieme di storie concatenate tra loro: racconto di protagonisti e di comprimari, «di ombre che nascondono e luci che seducono», di portatori d’acqua e fuoriclasse nello sport e nella cultura, nel calcio e nella politica. Ricostruzioni dettagliate attraverso un impegno di recupero di materiale «un lavoro lungo ma molto divertente, perché – ammette Corrado – per una volta ho potuto fare una ricerca bibliografica su temi che mi appassionano. Del resto il calcio non è la prima cosa seria fra le cose non serie, ma l’ultima cosa seria fra le cose serie». Se quest’ultima frase è di Arrigo Sacchi, le trecento pagine del libro sono piene di citazioni e retroscena: c’è da credere che le fonti utili a confezionare un lavoro del genere non siano mancate, perché soprattutto di recente si sono moltiplicati i libri scritti o firmati da protagonisti del calcio italiano e internazionale.

La parte conclusiva del libro è un virtuosismo narrativo che riesce a descrivere in tempo reale l’ultimo atto della partita che spegne le ambizioni italiane. Quelli che in una sequenza di calci di rigore sono sbrigativamente considerati tempi morti (il percorso del tiratore verso il centrocampo e dell’avversario verso il dischetto, l’avvicendarsi dei portieri, l’attesa dei calciatori nel cerchio di centrocampo, la tensione dei panchinari) sono riempiti da riflessioni sulla psicologia degli atleti, sulle tante teorie sui modi per calciare il rigore perfetto, sulle manifestazioni dell’affanno, del dolore, della paura. Che erano anche le nostre di spettatori incollati alla televisione: «Avevo 15 anni e quella è l’età in cui illusioni e speranze si mischiano in modo entusiasmante» confessa Corrado, affascinato «da tutto quello che riguarda le radici del presente. Penso che quel tempo sia un tempo da cui il nostro ha preso moltissimo: l’avere che supera l’essere, la verità emotiva che conta più di quella reale, il populismo politico, il narcisismo sociale, l’individualismo». L’ultimo rigore calciato da Aldo Serena e facile preda del portiere argentino Goychochea interrompe la nostra rincorsa verso la gioia sperimentata per l’ennesima volta in quelle settimane di «tempo sospeso fra memoria e speranza».




Il mio sogno dei mondiali, però, non si era interrotto. All’improvviso, avvicinandosi ai primi gradini della scala che porta al campo, venivano distribuite maglie diverse ed evidentemente più definitive: la mia, adesso, aveva il mio di cognome: dopo tutto è il Novanta, hai 32 anni e non sei più un ragazzino. Ci si muoveva, dunque, «verso un domani possibile» scrive De Rosa, un tempo che avrebbe dovuto riportare il paese con i piedi per terra. Iniziavano gli anni di Mani pulite, la crisi della rappresentanza dei partiti storici e le tentazioni delle proposte politiche populiste. Iniziava anche, però, l’età della Rete, la speranza di una migliore tutela dei diritti di cittadinanza, nella scienza – De Rosa è pur sempre uno psichiatra –, un diverso rispetto dei risultati della ricerca e una critica severa del principio di autorità. Nell’esito della tensione tra queste tendenze opposte stava – e ancora resta – la possibilità di tornare ancora a essere felici. «Il rischio di lavori come questo – ammette Corrado – è il restare imbrigliati nella nostalgia. Ma la nostalgia è un sentimento nobile, se non ti fa perdere di vista il presente e se non ne svilisce l’importanza».

A distanza di tanti anni e forti dell’esperienza di altre finali calcistiche e di altro genere, abbiamo ormai imparato, però, che l’equilibrio difficile tra le stagioni della spensieratezza e quelle della responsabilità si risolve immancabilmente ai calci di rigore e la porta sembra sempre troppo stretta a guardarla da quel dannatissimo cerchio in gesso.

Bibliografia

1. Dimitrijevic´ V. La vita è un pallone rotondo. Milano: Adelphi, 2000.

2. Marías J. Cuori così bianchi. In: Selvaggi e sentimentali. Parole di calcio. Torino: Einaudi, 2002.

3. Magrelli V. Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto. Torino: Einaudi, 2010.