Dalla letteratura

Efficacia e sicurezza dell’aspirina con rivestimento enterico

Un trattamento a base di aspirina con rivestimento enterico non si associa a un aumento significativo del rischio di infarto miocardico, ictus o morte, né a un rischio inferiore di sanguinamento rispetto all’aspirina non rivestita. È questa la conclusione di un’analisi post hoc del trial ADAPTABLE, i cui risultati sono stati pubblicati su JAMA Cardiology, che ha messo a confronto le due forme di aspirina1.

Gli specialisti spesso raccomandano l’utilizzo di aspirina con rivestimento enterico per ridurre il rischio di sanguinamenti gastrointestinali nelle persone con una storia di problemi cardiaci, nonostante alcuni studi suggeriscano che l’aspirina non rivestita sia più efficace in termini di attività antipiastrinica.

Lo studio ha coinvolto 15.076 pazienti affetti da patologie cardiovascolari aterosclerotiche nel periodo tra aprile 2016 e giugno 2020. I partecipanti sono stati assegnati casualmente a un trattamento quotidiano con dosi alte (325 mg) o basse (81 mg) di aspirina. L’analisi ha valutato l’efficacia e la sicurezza dell’aspirina gastroresistente rispetto all’aspirina non rivestita tra coloro che avevano indicato la formulazione usata all’inizio dello studio. L’endpoint primario di efficacia era costituito dall’incidenza cumulativa di infarto miocardico, ictus o morte per qualsiasi causa, mentre quello di sicurezza era rappresentato dagli eventi di sanguinamento maggiore.

Dai dati raccolti da 10.678 partecipanti, non è emersa – un follow-up medio di 26,2 mesi – alcuna differenza significativa tra l’aspirina con rivestimento enterico e quella non rivestita in termini di efficacia (p=0,40) e sicurezza (p=0,46). Inoltre, per entrambe le tipologie di aspirina non sono emerse associazioni significative tra la dose e l’efficacia o la sicurezza.




Bibliografia

Fabio Ambrosino

In collaborazione con la redazione di Cardioinfo.it

Ha senso anticipare lo screening mammografico ai 40 anni?

La United States preventive services task force (Uspstf) ha pubblicato di recente un documento in cui raccomanda di anticipare l’età di inizio dello screening mammografico dai 50 ai 40 anni1. In un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine, alcuni noti ricercatori propongono una revisione critica delle prove alla base della nuova raccomandazione2. Steven Woloshin (Darmouth University, Usa), Karsten Jørgensen (Nordic Cochran Centre, Copenhagen), Gilbert Welch e Shelley Hwang (entrambi anch’essi della Darmouth University) sottolineano come non vi siano nuove evidenze che giustifichino un cambiamento della precedente raccomandazione. Le nuove indicazioni sono solo frutto di un modello predittivo da cui la Uspstf ha tratto stime di efficacia dello screening mammografico sovrastimate rispetto a quelle che risultano dalle principali metanalisi sull’argomento, a fronte di una sottostima delle conseguenze dello screening in termini di false diagnosi o sovradiagnosi.

Gli autori puntualizzano anche come questa raccomandazione rischi di dirottare verso procedure di dubbio beneficio netto una quota importante delle risorse sanitarie destinate a ciò che invece funziona, come per esempio il trattamento di tumori mammari difficilmente rilevabili mediante screening perché più veloci e aggressivi. Questi tumori sembrano essere più frequenti proprio in quelle fasce di popolazione con una più elevata mortalità per tumore mammario (per esempio le donne afroamericane o afro-discendenti), che la Uspstf ha ipotizzato potessero trarre vantaggio dall’anticipare l’inizio dello screening.




Bibliografia

1. US Preventive service task force. Breast cancer: Screening. Disponibile su: https://lc.cx/rM4Jhj [ultimo accesso 17 ottobre 2023].

2. Woloshin S, Jørgensen KJ, Hwang S, Welch HG. The new USPSTF mammography recommendations. A dissenting view. New Engl J Med 2023; 389: 1061-4.

Insonnia e aumento del rischio di ictus

Rispetto ad altri fattori di rischio, il contributo portato dai disturbi del sonno e, nello specifico, dall’insonnia, al rischio di incorrere in un ictus è meno definito. Età, sesso, provenienza etnica, storia familiare, comorbilità e particolari abitudini di vita giocano un ruolo rilevante nel calcolo del rischio di questa patologia, come documentano le numerose evidenze scientifiche. Riguardo ai disturbi del sonno, mentre è ampiamente dimostrato che i pazienti con apnee ostruttive hanno maggiori probabilità di avere un ictus, è ancora poco chiaro in che modo i disturbi non ostruttivi, tra cui l’insonnia, influenzino il rischio di andare incontro a un evento di questo tipo.

Proprio sull’esistenza di una possibile relazione fra disturbo da insonnia e rischio di ictus si è focalizzato un recente studio della Virginia Commonwealth University School of Medicine da cui è emerso un incremento del rischio di ictus nei pazienti con sintomi riconducibili a questo disturbo.

La ricerca è partita dai dati raccolti nell’ambito dell’Health and Retirement Study, un’indagine longitudinale condotta fra il 2002 e il 2020 su un campione di 20.000 statunitensi over 50, ma includendo solo i partecipanti che all’inizio dell’analisi non avevano una storia individuale di ictus.

Al termine del periodo di follow-up, i soggetti che avevano totalizzato un punteggio compreso fra 1 e 4 e fra 5 e 8 (dove 8 equivale a “sintomatologia grave”) a un questionario “self report” di valutazione dell’insonnia sono risultati associati a un incremento del rischio di ictus pari rispettivamente al 16% e al 51% rispetto a coloro che non riportavano sintomi.

«In letteratura non ci sono evidenze convincenti sulla relazione fra insonnia e rischio di ictus», precisa Wendemi Sawadogo, primo firmatario dell’articolo pubblicato su Neurology1. Nello specifico, una meta-analisi inglese del 2018 negava l’esistenza di una relazione fra insonnia e ictus2. Un’altra meta-analisi, pubblicata solo un anno prima, riferiva invece un incremento del rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari di entità simile a quella già riportata in letteratura per altri disturbi del sonno. Ma, nel caso specifico dell’ictus, i dati individuati si sono rivelati insufficienti a stabilire l’esistenza di un’associazione positiva3.

Nemmeno le evidenze raccolte dagli studi epidemiologici permetterebbero di fare chiarezza sul tema in maniera definitiva: due studi caso-controllo, realizzati a Taiwan, sull’impatto che il disturbo da insonnia avrebbe sul rischio di ictus puntano nella direzione di un aumento del rischio nei soggetti del gruppo “insonnia”, senza tuttavia riuscire a escludere il contributo di eventuali fattori confondenti4,5.

Secondo quanto dichiarato al riguardo da alcune società scientifiche europee (Ean, Ers, Esrs ed Eso), che nel 2020 hanno firmato uno statement pubblicato sullo European Journal of Neurology, le difficoltà relative all’indagine sul ruolo dell’insonnia nella valutazione del rischio di ictus sono riconducibili, da una parte, all’ampia variabilità dei criteri impiegati per l’inquadramento diagnostico di questo disturbo del sonno e, d’altra parte, all’eventuale effetto confondente dovuto a comorbilità.

Questo ultimo punto, però, trova una prima risposta nei risultati di Sawadogo et al. «Abbiamo visto che anche nei soggetti che soffrono di insonnia senza essere ipertesi o diabetici il rischio di ictus risulta aumentato», chiariscono i ricercatori, puntualizzando che «l’insonnia sembra essere una variabile indipendente del rischio di ictus».

Il dato è l’esito di un’analisi di sottogruppo condotta su individui che riportavano sintomi riconducibili al disturbo da insonnia in assenza di diagnosi per altre patologie, tra cui diabete, ipertensione e malattia cardiache, concausa dell’evento ictus.

Oltre a descrivere l’associazione fra disturbo da insonnia e rischio di ictus come una relazione dose-risposta e a dipanare, in parte, il dubbio relativo al contributo bidirezionale fra insonnia, comorbilità e ictus, lo studio ha dimostrato che questa associazione è particolarmente significativa nei soggetti con età inferiore a cinquanta anni (un’eventualità, questa, già sollevata in uno degli studi taiwanesi).

«Una delle possibili spiegazioni potrebbe risiedere nel fatto che, con l’età che avanza, le apnee ostruttive del sonno e altri fattori di rischio dell’ictus iniziano a emergere ed è più probabile che, a quel punto, l’impatto di un sonno di scarsa qualità sia minore”, spiega Sawadogo. «Viceversa, nei più giovani, l’insonnia potrebbe giocare un ruolo di gran lunga superiore, anche considerato che questa fascia di popolazione, in età lavorativa, riporta generalmente livelli di stress cronico più elevati”.




Bibliografia

1. Swadogo W, Adera T, PErera R, Burch JB. Association between insomnia symptoms and trajectory with the risk of stroke in the health and retirement study. Neurology 2023; 101: e475-e488.

2. Kwok CS, Kontopantelis E, Kuligowski G, et al. Self-reported sleep duration and quality and cardiovascular disease and mortality: a dose-response meta-analysis. J Am Heart Assoc 2018; 7: e008552.

3. He Q, Zhang P, Li G, Dai H, Shi J. The association between insomnia symptoms and risk of cardio-cerebral vascular events: a meta-analysis of prospective cohort studies. Eur J Prev Cardiol 2017; 24: 1071-82.

4. Wu MP, Lin HJ, Weng SF, et al. Insomnia subtypes and the subsequent risks of stroke: report from a nationally representative cohort. Stroke 2014; 45: 1349-54.

5. Hsu CY, Chen YT, Chen MH, et al. The association between insomnia and increased future cardiovascular events: a nationwide population-based study. Psychosom Med 2015; 77: 743-51.

6. Bassetti CLA, Randerath W, Vignatelli L, et al. EAN/ERS/ESO/ESRS statement on the impact of sleep disorders on risk and outcome of stroke. Eur J Neurol 2020; 27: 1117-36.

Sara Mohammad

In collaborazione con la redazione di Neuroinfo.it

Non cambiare casa dopo l’infarto

Cambiare casa dopo un infarto miocardico può aumentare significativamente il rischio di morte o di essere trasferiti in una struttura assistenziale come misura di fine vita. È quanto emerge da uno studio prospettico, i cui risultati sono stati pubblicati sul Canadian Journal of Cardiology, che ha seguito un ampio gruppo di soggetti con infarto miocardico acuto nel corso di due decenni1.

Lo studio ha coinvolto 3.369 pazienti colpiti da un evento di questo tipo tra dicembre 1999 e marzo 2023, con un’età media di 65 anni e di sesso maschile nel 69% dei casi. I ricercatori hanno seguito i partecipanti fino alla loro morte o fino all’ultima data di follow-up disponibile. Il cambiamento di residenza è stato definito come un trasloco da una zona di codice postale all’altra. Le informazioni sono state raccolte da varie fonti, compreso uno studio osservazionale prospettico sulla relazione tra stato socio-economico e rischio di infarto miocardico acuto. I dati sulla mortalità sono stati estratti dall’Ontario Registered Persons Data Base. Lo studio ha anche considerato il reddito del quartiere, i fattori clinici e le comorbilità dei pazienti, le visite mediche e le prescrizioni di farmaci utilizzando diverse banche dati.

I risultati hanno rivelato che dopo un infarto miocardico la scelta di cambiare casa era associata a un aumento del 12% della mortalità e del 26% della probabilità di essere trasferiti in una struttura assistenziale per il fine vita. Inoltre, coloro che si sono trasferiti più frequentemente hanno mostrato un tasso di mortalità quasi doppio rispetto a coloro che si erano spostati solo una volta in 10 anni.

Sebbene lo studio abbia tenuto conto di molteplici variabili, inclusi i livelli socio-economici delle aree di residenza, non erano noti i dettagli sul motivo per cui le persone si erano trasferite. Gli autori concludono tuttavia che i clinici dovrebbero essere consapevoli di questo aspetto e considerare attentamente questa circostanza nel corso degli incontri clinici, cercando di individuare problemi potenzialmente reversibili e identificare supporti supplementari che possano aiutare l’individuo a continuare a vivere in modo indipendente nella propria casa.




Bibliografia

1. Alter DA, Rosenfeld A, Fang J, et al. The relationship between residential mobility and mortality following acute myocardial infarction. Can J Cardiol 2023; 17 settembre.

Quando i pazienti sono diversi da quelli arruolati nei trial

Lo studio FRAIL-AF, presentato all’ultimo congresso della Società Europea di Cardiologia e, nello stesso periodo, pubblicato su Circulation, è stato da subito citato come uno di quelli che ha disatteso i risultati attesi1. Lo studio ha incluso 1400 pazienti con fibrillazione atriale, con un’età media di 83 anni e con uno score di rischio cardio-embolico CHA2ds2-vasc di 4, tutti in terapia con warfarin. Il dato peculiare era che tutti i pazienti presentavano una diagnosi di fragilità, intesa quantitativamente come un indice di Groningen maggiore o uguale a 3, e qualitativamente come la presenza di dipendenza da altri, ridotta capacità di reagire a fattori di stress di varia natura e elevata presenza di comorbilità. I pazienti sono stati randomizzati a continuare la terapia anticoagulante con warfarin oppure a passare ad una terapia con uno qualsiasi degli anticoagulanti orali diretti (Aod).

Nonostante ci si attendesse che i risultati replicassero quelli riscontrati in altri studi, ovvero dimostrando un vantaggio degli Aod, lo studio è stato interrotto precocemente per il riscontro di un aumento rilevante delle emorragie maggiori (end point primario) nel gruppo che assumeva gli anticoagulanti orali diretti vs warfarin (15,3% vs 9,4%), a fronte di una differenza non significativa degli eventi trombotici.

I risultati dello studio invitano a non dare per scontata – come spesso accade – la trasposizione in persone anziane e fragili di evidenze ricavate da popolazioni di età non avanzata e senza elementi di fragilità.




Bibliografia

1. Joosten LP, van Doorn S, van de Ven PM, et al. Safety of switching from a vitamin K antagonist to a non-vitamin K antagonist oral anticoagulant in frail older patients with atrial fibrillation: results of the FRAIL-AF randomized controlled trial. Circulation 2023; 27 agosto.

In collaborazione con la redazione del sito della Associazione Alessandro Liberati – Cochrane affiliate centre

Una nuova definizione di salute del cervello

«La salute del cervello è uno stato continuo di raggiungimento e mantenimento di una funzione neurologica ottimale, tale da supportare al meglio il benessere fisico, mentale e sociale in ogni fase della vita».

È questa la nuova definizione di salute del cervello sviluppata dall’American Academy of Neurology (Aan) in base al lavoro portato avanti nel corso del Brain Health Summit del 2022 e pubblicata su Neurology alla vigilia dell’edizione 20231.

Come si legge nello statement della società scientifica, la nuova definizione – pensata per andare incontro alle esigenze dei neurologi, dei pazienti e degli altri stakeholder – «è stata informata da pubblicazioni precedenti che hanno delineato vari elementi (ad esempio cognitivi, mentali, emotivi, fisici, psicosociali) e determinanti (ad esempio alimentazione, sonno, esercizio fisico, sicurezza ambientale) della salute del cervello».

Per arrivare a una definizione condivisa di salute del cervello, poi, i membri del Committee on Public Engagement (Cope) dell’Aan, un gruppo di medici con competenze riguardanti ogni fase della vita (compresi i membri dei gruppi di lavoro dell’Aan Brain Health Initiative), i membri del consiglio di amministrazione e i presidenti dei comitati dell’Aan, sono stati invitati a partecipare a un expert panel dedicato.

È stato utilizzato un metodo Delphi modificato per stabilire un consenso ponderato tra le parti. In breve, dopo aver raccolto il contributo degli esperti dall’Aan Brain Health Summit Workshop dell’aprile 2022 mediante quattro cicli di interviste di focus group e ulteriori contributi dall’Aan Brain Health Summit del settembre 2022, sono stati realizzati due cicli di sondaggi online e, in seguito, un terzo ciclo dai cui risultati è stata estratta la definizione.

«Attraverso questo position statement – si legge nel documento pubblicato su Neurology – invitiamo i neurologi e gli altri soggetti interessati alla salute del cervello a unire gli sforzi collettivi utili a raggiungere l’obiettivo finale di modificare l’attuale traiettoria della sanità pubblica da un carico crescente di disturbi neurologici, sia da malattie che da lesioni, al raggiungimento di una salute del cervello ottimale».




Bibliografia

1. Rost NS, Salinas J, Jordan JT, et al. for the American Academy of Neurology’s Committee on Public Engagement. The Brain Health Imperative in the 21st Century. A Call to Action. The AAN Brain Health Platform and Position Statement. Neurology 2023; 101: 570-9.

Fabio Ambrosino

In collaborazione con la redazione di Neuroinfo.it