Profilo di sicurezza ed efficacia della terapia anticoagulante nel paziente anziano dimesso da pronto soccorso con diagnosi di malattia trombo-embolica venosa:
uno studio di registro

Alessandro Reano1, Francesco Giannecchini2, Paolo Balzaretti1, Flavia Soardo1, Domenico Vallino1, Mario Bo2

1AO Ordine Mauriziano di Torino, Medicina e chirurgia d’accettazione e urgenza, Ambulatorio Doac-Tev, Torino; 2Geriatria, Aou Città della salute e della scienza, Torino.

Pervenuto il 23 novembre 2022. Accettato il 12 maggio 2023.

Riassunto. Introduzione. Il trombo-embolismo venoso (Tev), che può presentarsi clinicamente sotto forma di trombosi venosa profonda (Tvp) o di embolia polmonare (EP), rappresenta la terza più frequente sindrome cardiovascolare acuta. In letteratura, l’incidenza del Tev è riportata essere quasi otto volte più elevata negli ultra-ottantenni rispetto ai pazienti nella quinta decade di vita. Il fulcro della terapia del Tev è l’anticoagulazione, che deve essere iniziata prima possibile, a patto che non vi siano controindicazioni e soppesandone rischi e benefici, allo scopo di prevenire il peggioramento del quadro clinico in atto e le possibili complicanze precoci e tardive. Nelle scorse decadi, il gold standard terapeutico era rappresentato dall’utilizzo dell’eparina a basso peso molecolare (Lmwh) e degli antagonisti della vitamina K (Vka), ma la recente introduzione degli anticoagulanti orali diretti (Doac) ha rivoluzionato la gestione dei pazienti con diagnosi di Tev. Scopo. Questo studio real-world retrospettivo osservazionale ha esaminato potenziali differenze in termini di sicurezza ed efficacia tra il trattamento con Doac e la terapia tradizionale con Vka, nella gestione di pazienti anziani dimessi dal Dipartimento di Emergenza e accettazione (Dea) dell’Azienda ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino con diagnosi di malattia tromboembolica venosa. Metodi. È stato compilato e analizzato un registro desunto dall’elenco dei pazienti valutati in dimissione dal Dea dall’Ambulatorio Doac-Tev e confrontato con pazienti dimessi dal medesimo Dea con terapia tradizionale con Lmwh e/o Vka. Risultati. Sono stati raccolti dati su 186 pazienti. Si è evidenziata un’elevata compliance alla terapia anticoagulante, indipendentemente dal regime (Vka versus Doac). Non sono emerse differenze statisticamente significative tra i differenti regimi terapeutici in termini di mortalità, incidenza di sanguinamenti, accessi non programmati in pronto soccorso e nell’outcome composito di sicurezza, con una tendenza a una maggiore incidenza di recidiva nel gruppo trattato con Vka. Conclusioni. L’utilizzo di una terapia con Doac in dimissione di pazienti anziani con Tev presenta un buon margine di sicurezza ed efficacia.

Parole chiave. Anticoagulanti orali diretti, anziani, Dipartimento d’Emergenza e accettazione, malattia tromboembolica venosa, terapia anticoagulante orale.

Safety and efficacy profile of anticoagulant therapy in elderly patients discharged from the emergency room with a diagnosis of venous thromboembolic disease: a registry study.

Summary. Background. Venous thromboembolism (Tev), clinically presenting as deep vein thrombosis (Tvp) or pulmonary embolism (EP), is globally the third most frequent acute cardiovascular syndrome. Reported data in literature show that the incidence of Tev is almost eight times higher in individuals aged >80 years than in the fifth decade of life. The mainstay of Tev management is anticoagulation, which should be initiated as soon as possible, provided there is no contraindication and weighing individual potential risks and benefits, in order to prevent further thrombosis and early or late complications. For decades, low molecular weight heparins (Lmwh) and vitamin K antagonists (Vkas) have been the gold standard of anticoagulation. Recently, direct oral anticoagulants (Doacs) revolutionized anticoagulation management in Tev. Aim. This real-world retrospective observational trial evaluated potential differences in safety and efficacy profiles between anticoagulation with Doacs and traditional therapy with Vkas, in the management of acute Tev in elderlies discharged from Emergency Department of Azienda ospedaliera Ordine Mauriziano in Torino. Methods. A registry of patient evalued by the Doac-Tev ambulatory discharged by ED was compiled and analysed. Results. In the population of this study (186 patients), there was a high compliance to anticoagulation, regardless the therapeutic regimen (Vka vs Doac). There was not a significant difference in the prevalence of mortality, bleeding, unplanned return to Emergency Department and in the composite safety outcome between anticoagulation regimens, with a tendency to higher rates of recurrent Tev in the Vkas group. Conclusions. A therapy with Doac in discharging elderly patient with Tev is safe and effective.

Key words. Anticoagulant oral therapy, direct oral anticoagulants, elderly, Emergency Department, venous thromboembolism.

Introduzione

Il trombo-embolismo venoso (Tev), che può presentarsi clinicamente sotto forma di trombosi venosa profonda (Tvp) o di embolia polmonare (EP), rappresenta la terza più frequente sindrome cardiovascolare acuta, superata solamente dall’infarto miocardico e dallo stroke1. Negli studi epidemiologici, il tasso di incidenza annuale stimato di EP varia da 39 a 115 su 100.000 e quello di Tvp varia da 53 a 162 su 100.0002,3, mentre globalmente il Tev varia da 80 a 180 su 100.0004,5; questa ampia variabilità è probabilmente spiegabile sulla base delle differenze nelle popolazioni dei diversi studi e nel disegno degli studi stessi6. In particolare, da dati derivanti da studi di prevalenza, si evince come l’incidenza del Tev sia quasi otto volte superiore in individui con più di 85 anni rispetto a soggetti nella quinta decade di vita2. Contestualmente, studi longitudinali hanno evidenziato una tendenza all’aumento dell’incidenza di EP negli scorsi decenni3. Di conseguenza, per l’immediato futuro è prevedibile un impatto negativo del Tev progressivamente crescente sui sistemi sanitari di molti Paesi occidentali, nei quali si sta assistendo a un graduale invecchiamento della popolazione (a oggi, si stima una spesa sanitaria annuale totale di 8,5 miliardi di euro per il trattamento del Tev da parte dell’Unione europea)7.

Come in tutti i Paesi occidentali, anche in Italia stiamo assistendo a un progressivo invecchiamento della popolazione. Entro il 2065, è previsto un prolungamento della vita media di oltre cinque anni per entrambi i generi, che si stima arriverà a 86,1 anni e 90,2 anni rispettivamente per uomini e donne (80,6 e 85 anni nel 2016)8. Di conseguenza, l’età media della popolazione passerà dagli attuali 44,9 a oltre 50 anni nel 2065 (con ulteriore aumento dell’indice di vecchiaia, ovvero del rapporto tra la popolazione >65 anni e quella con 0-14 anni)8. Questo processo di invecchiamento attualmente in divenire risulterà ulteriormente accentuato dal transito delle coorti del cosiddetto “baby boom” (1961-76) dalla tarda età attiva (39-64 anni) all’età senile (>65 anni)8. Si prevede quindi un picco di invecchiamento che colpirà l’Italia nel 2045-50, quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni vicina al 34%8. Questi dati fanno prevedere un impatto progressivamente crescente del Tev sul sistema sanitario nazionale.

A livello mondiale, il Tev rappresenta una delle principali cause di mortalità e morbilità9. Questo è tanto più vero per i pazienti anziani fragili, nei quali non solo è aumentato il rischio di Tev, ma anche quello di sanguinamento maggiore in corso di terapia anticoagulante10. Secondo un modello epidemiologico, si stima che nel 2004 la mortalità correlata a Tev in una popolazione di 454,4 milioni di persone da 6 diversi nazione europee fosse pari a 370.000 casi. Di questi pazienti, il 34% è deceduto immediatamente o entro poche ore dall’evento acuto, prima che la terapia fosse iniziata o che potesse fare effetto11. Tuttavia, i dati dalla letteratura suggeriscono una riduzione del tasso di letalità a livello mondiale negli scorsi decenni3. Il miglioramento della prognosi dipende sicuramente in parte dalla disponibilità di terapia medica e interventistica più efficace, ma la positività del dato potrebbe essere parzialmente falsata dalla tendenza alla sovra-diagnosi legata al miglioramento delle tecniche diagnostiche, con un aumento dei casi asintomatici o paucisintomatici3,12.

Obiettivo dello studio

La finalità del presente studio è quella di indagare potenziali differenze in termini di sicurezza ed efficacia tra il trattamento del Tev con gli inibitori del fattore Xa (IFXa) e i Vka in pazienti anziani dimessi dal pronto soccorso (PS).

Metodi

Disegno e popolazione dello studio

Il presente è uno studio osservazionale retrospettivo che si basa su un campione di convenienza costituito da soggetti con età pari o superiore a 65 anni, dimessi consecutivamente dal Dea con diagnosi di Tvp o EP tra l’01/01/2016 e il 31/10/2020. Il lavoro è stato condotto presso l’Azienda ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino, una struttura sanitaria con una capacità di circa 1400 posti letto, sede di un Dea di 2° livello il cui PS conta circa 60.000 passaggi all’anno.

Criteri di esclusione dalla popolazione dello studio sono stati:

1. la prescrizione alla dimissione di un trattamento anticoagulante diverso dai Vka o dagli inibitori del fattore Xa rivaroxaban e apixaban;

2. l’indisponibilità di dati di follow-up;

3. dimissione presso strutture sanitarie assistenziali;

4. trombosi venosa in sede atipica (e.g., trombosi venosa profonda degli arti superiori, trombosi venosa dei vasi addominali).

Raccolta dei dati

I dati relativi ai pazienti del gruppo di controllo sono stati raccolti in un foglio elettronico utilizzando il software Excel 365 (Microsoft Corp, Redmond, WA) da parte di un ricercatore dedicato. I soggetti potenzialmente eleggibili sono stati individuati sul database ospedaliero utilizzando i codici raccolti ICD9-CM relativi alla malattia tromboembolica venosa.

Dopo la raccolta iniziale dei dati, operata per mezzo dell’identificativo unico dell’accesso in PS, i dati sono stati resi anonimi associando i singoli accessi a un codice generato casualmente. Sono stati raccolti i seguenti dati:

età;

sesso;

numero di farmaci assunti cronicamente al domicilio;

creatininemia;

filtrato glomerulare, stimato tramite l’equazione Ckd-Epi (Chronic kidney disease Epidemiology collaboration);

il numero di comorbilità (si veda oltre);

anamnesi positiva per neoplasia genito-urinaria e/o del tratto digerente;

terapia anticoagulante prescritta alla dimissione (Vka vs apixaban vs rivaroxaban);

durata del trattamento (3 mesi o >3 mesi);

episodi di sanguinamento a 3 e 12 mesi;

morte per sanguinamento a 3 e 12 mesi;

morte a 3 e 12 mesi;

recidiva di malattia tromboembolica a 3 e 12 mesi;

infarto miocardico acuto a 12 mesi;

evento cerebrovascolare acuto a 12 mesi;

diagnosi alla dimissione dal PS (Tvp vs EP);

accesso non programmato in PS nei 3 mesi successivi alla dimissione;

accesso non programmato in PS nei 12 mesi successivi alla dimissione.

Le malattie croniche prese in considerazione sono derivate dal cosiddetto Charlson Comorbidity Index (Cci):

scompenso cardiaco congestizio;

anamnesi di infarto miocardico;

arteriopatia obliterante periferica;

patologia cerebrovascolare;

demenza;

patologia polmonare cronica;

connettivopatia;

patologia ulcerosa peptica;

patologia epatica cronica (lieve/moderata-grave);

diabete;

depressione;

assunzione di warfarin;

ipertensione arteriosa;

emiplegia;

patologia renale cronica (moderata-grave);

diabete, con danno d’organo;

anamnesi di tumore;

leucemia;

linfoma;

ulcere cutanee;

tumore metastatico;

Aids.

I dati relativi all’anamnesi, all’avvio del trattamento anticoagulante e le informazioni sul follow-up sono stati estratti dalla cartella elettronica presente nel database ospedaliero e, nei pazienti eleggibili, contestualmente integrate con un colloquio telefonico.

Elaborazione dei dati

Compatibilmente con la volontà di approfondire gli aspetti relativi alla sicurezza dei trattamenti anticoagulanti somministrati, l’outcome principale adottato è composito e comprende i principali esiti relativi alla sicurezza a 12 mesi di follow-up: morte, morte per sanguinamento, sanguinamento, accesso non programmato in PS.

Sono state condotte analisi statistiche descrittive per i parametri demografici e clinici rilevanti, calcolando la proporzione (con relativi intervalli di confidenza al 95%) e la mediana (con relativo intervallo interquartile) in base alle necessità.

Per l’analisi statistica, i pazienti sono stati suddivisi in due gruppi in base al trattamento anticoagulante prescritto. Il confronto delle proporzioni tra i gruppi di pazienti è stato condotto per mezzo del test chi-quadrato (o del test di Fisher, laddove ritenuto opportuno). Per quanto concerne le variabili continue, il confronto è stato eseguito con il test della somma dei ranghi. La soglia di significatività statistica è posta a 0,05 (p=0,05).

È stata condotta un’analisi di sottogruppo finalizzata a confrontare le principali caratteristiche demografiche e gli esiti di sicurezza ed efficacia tra i pazienti trattati con apixaban e rivaroxaban.

Infine, per meglio quantificare l’impatto che il differente trattamento anticoagulante ha sull’outcome principale e sulla prevalenza di recidive, è stata condotta un’analisi multivariata utilizzando la regressione logistica, includendo, oltre che il trattamento scelto, i parametri risultati significativamente diversi tra i due gruppi all’analisi univariata.

Risultati

I pazienti complessivamente eleggibili per lo studio sono risultati 186. Per 8 soggetti non è stato possibile effettuare un follow-up completo (4 nel gruppo trattato con IFXa e 4 nel gruppo trattato con Vka) e sono stati pertanto esclusi dall’analisi finale, lasciando 178 pazienti nella popolazione effettiva dello studio.

Caratteristiche demografiche della popolazione inclusa

La popolazione dello studio è composta da 178 soggetti (80 uomini, 98 donne) con un’età mediana di 79 anni. Di questi, 46 soggetti (25,8%) presentavano un’età di almeno 85 anni al momento della diagnosi (tabella 1).




Dei 178 pazienti che hanno completato i 12 mesi di follow-up, 83 hanno ricevuto una diagnosi di Tvp e 95 di EP (tabella 2).




Il punteggio mediano al Cci dei pazienti della popolazione in esame è risultato pari a 7 (tabella 3).




La patologia prevalente è l’ipertensione arteriosa, presente nel 70,2% dei soggetti, seguita dall’Irc moderata-grave (34,3%) e dall’anamnesi di malattia neoplastica (32%). In particolare, parallelamente al Cci, è stato raccolto il dato relativo all’anamnesi di neoplasia genito-urinaria e gastro-enterica, in quanto, nella pratica clinica quotidiana, costituiscono frequentemente potenziali sedi di sanguinamento esterno con successiva attivazione di iter diagnostico-terapeutico. Inoltre, uno studio ha evidenziato come un episodio di sanguinamento gastro-enterico o genito-urinario in corso di terapia anticoagulante fosse associato a un tasso più elevato di nuova diagnosi di carcinoma. L’elevata prevalenza di ipertensione arteriosa probabilmente sovrastima il dato reale, in considerazione della nota tendenza al sovra-trattamento di questa condizione, particolarmente nell’età avanzata.

Terapia farmacologica

Il numero mediano di farmaci assunti cronicamente dalla popolazione in esame è pari a 4, con un 31,5% della popolazione che assume più di 5 farmaci, configurando una situazione di cosiddetta “polifarmacoterapia” (10 pazienti assumevano 10 o più farmaci, uno di questi addirittura 17) (tabella 4).




Non sono stati considerati farmaci assunti al bisogno o terapie di breve durata (e.g., ciclo di terapia antibiotica). Il dato verosimilmente sottostima il reale numero di farmaci assunti dai pazienti, in quanto l’elenco è stato dedotto dal colloquio telefonico o direttamente dal verbale di PS, entrambi contesti nei quali possono esserci omissioni. Inoltre è noto come spesso il paziente sottostimi l’impatto clinico dei farmaci cosiddetti “da banco”, degli integratori alimentari o dei preparati erboristici, con multiple potenziali interazioni farmacologiche, spesso non riferendone l’utilizzo al medico.

Tra i pazienti che hanno completato il follow-up, 58 sono stati trattati con Vka mentre 120 con IFXa (tabella 5).




Questi ultimi sono pressoché ugualmente distribuiti nei due sottogruppi di trattamento con apixaban e con rivaroxaban (61 e 59 soggetti, rispettivamente). Nel contesto dei Doac, apixaban e rivaroxaban sono risultate essere le molecole ampiamente più prescritte nei pazienti presi in esame, pertanto non sono stati inseriti in questo studio edoxaban e dabigatran.

La quasi totalità dei pazienti ha completato i primi 3 mesi di terapia anticoagulante (165 su 178). I dettagli relativi ai pazienti che non hanno completato i primi 3 mesi di terapia sono riportati più avanti. Il 79,8% dei pazienti (142 su 178) ha proseguito la terapia anticoagulante oltre i primi 3 mesi (tabella 6).




Di questi, 76 hanno proseguito la terapia anticoagulante cronicamente, anche se solo in una minoranza dei casi era stata data una chiara indicazione in merito alla necessità di proseguire la terapia in profilassi secondaria da parte del curante. Si segnala inoltre che molti pazienti hanno sospeso il farmaco dopo molti mesi di terapia (in alcuni casi, anche anni), contrariamente a quanto raccomandato nelle linee guida.

Profilo di sicurezza ed efficacia della terapia anticoagulante nella popolazione dello studio

Nel corso dei primi 3 mesi di follow-up, 6 pazienti sono deceduti (tabella 7): tutti questi decessi sembrano correlabili a stadi terminali di una condizione cronica già presente in anamnesi al momento della diagnosi di Tev. Nessuno di questi decessi appare direttamente correlabile a complicanze del Tev o della terapia anticoagulante.




Nel corso dei primi 3 mesi di follow-up, sono stati registrati 4 episodi di sanguinamento, nessun sanguinamento fatale (tabella 7). Si sottolinea che, ai fini della raccolta dei dati per lo studio, non è stata utilizzata l’abituale distinzione tra sanguinamento maggiore, minore e Crnmb. In virtù della modalità di raccolta dati (i.e., follow-up telefonico), non è stato possibile quantificare l’effettiva gravità di alcuni episodi di sanguinamento (a meno che l’evento non fosse documentato nella cartella elettronica presente nel database ospedaliero). Di conseguenza, sono stati presi in considerazione gli episodi che il singolo paziente ha soggettivamente ritenuto meritevoli di attenzione medica al momento dell’evento acuto (presenti nella cartella elettronica o riferiti dal paziente telefonicamente, nel caso fosse stato assistito presso altro presidio o sul territorio).

Il 23% dei pazienti è tornato in PS nei primi 3 mesi dopo l’inizio della terapia anticoagulante (tabella 7). Sono stati conteggiati tutti gli accessi non programmati in PS, anche se non correlabili a complicanze o recidive di Tev o a un episodio di sanguinamento. Non potendo definire un parametro univoco di selezione per gli accessi “correlabili”, si è deciso di conteggiarli tutti. Sono stati conteggiati parimenti gli accessi considerabili “appropriati” (e.g., sincope in corso di terapia anticoagulante per Tvp) e “inappropriati” (e.g., accesso per controllo Inr per mancata organizzazione sul territorio). Ipotizzando che gli accessi in PS “non correlabili” al Tev e alla terapia anticoagulante siano equamente distribuiti, l’eventuale differenza nel numero di accessi nei gruppi con diversi regimi terapeutici dovrebbe essere da attribuire al diverso impatto di questi ultimi in termini di sicurezza ed efficacia, oltre che alle differenze nelle problematiche gestionali.

Infine, l’outcome composito costituisce l’outcome principale dello studio; esso comprende i principali esiti relativi alla sicurezza a 12 mesi di follow-up: morte, morte per sanguinamento, sanguinamento, accesso non programmato in PS. La prevalenza dell’outcome composito di sicurezza a 3 mesi è stata del 24,2% nella popolazione dello studio (tabella 8).




Nel corso dei 12 di follow-up, la prevalenza globale della mortalità è stata del 9,6% (17 pazienti). Di questi, solo un paziente è andato incontro a morte per emorragia (intracranica). Episodi di sanguinamento si sono verificati nel 7,3% dei pazienti (13 casi). Dei 178 pazienti che hanno completato il follow-up, 68 sono tornati in PS nell’anno successivo alla diagnosi di malattia trombo-embolica venosa (tabella 9).




Nei primi 3 mesi di follow-up, 2 pazienti sono andati incontro a recidiva di malattia trombo- embolica, entrambi in corso di terapia anticoagulante (tabella 7). Nell’arco dei 12 mesi di follow-up, gli episodi di recidiva salgono a 12. Si segnala che, di questi episodi, 7 sono avvenuti in corso di terapia anticoagulante, mentre 4 sono avvenuti dopo la sospensione della stessa. Infine, un episodio è avvenuto dopo sospensione della terapia anticoagulante con passaggio a terapia antiaggregante. Inoltre, nel corso dei 12 mesi di follow-up, si è osservato un basso numero di eventi cardiovascolari acuti (i.e., stroke e infarto miocardico).

Discussione

Il cardine della terapia del Vte è la terapia anticoagulante. Per decenni, la Lmwh e i Vka hanno rappresentato lo standard terapeutico in questo contesto clinico. Tuttavia, la recente introduzione dei Doac ha costituito una rivoluzione nella gestione del Vte, in quanto la loro somministrazione orale, la rapida cinetica di azione, le minori interazioni con farmaci e alimenti e l’effetto anticoagulante prevedibile hanno risolto alcune criticità della terapia tradizionale4,13,14. In effetti, le più recenti linee guida Ash15 suggeriscono l’utilizzo dei Doac rispetto ai Vka per tutti i pazienti con Tev, in assenza di controindicazioni specifiche (e.g., sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi). Gli studi di fase III per l’utilizzo dei Doac nel contesto del Vte hanno dimostrato la non inferiorità dei Doac nei confronti della combinazione di Lmwh con Vka nella prevenzione delle recidive sintomatiche o letali di Vte, con una significativa riduzione del tasso di emorragie maggiori16. Una successiva meta-analisi17 specifica come, rispetto ai pazienti trattati con Vka, in quelli trattati con Doac si sia osservata una ridotta incidenza di emorragie maggiori in siti critici e, in particolare, una significativa riduzione dei sanguinamenti intracranici e di quelli fatali con, complessivamente, una riduzione del 39% del rischio relativo di sanguinamento maggiore.

Tuttavia, nonostante da dati derivanti da studi di prevalenza si evinca come l’incidenza del Vte sia quasi otto volte superiore in individui con più di 85 anni rispetto a soggetti nella quinta decade di vita2, questi pazienti sono poco rappresentati nei trial di fase III. Basti pensare come, in questi studi, solo il 13,6% dei pazienti avesse più di 75 anni16, mentre i pazienti con grave Irc fossero direttamente esclusi (e solo il 6,8% dei pazienti avesse una clearence stimata tra 30 e 50 ml/min6). Di conseguenza, se ne deduce che le raccomandazioni delle linee guida sono derivate dall’estensione dei risultati di trial effettuati su pazienti più giovani e più sani e, quindi, non possono tenere conto della maggiore complessità clinica caratteristica del paziente geriatrico, che spesso presenta un maggior numero di comorbilità e multipli fattori di rischio per Vte. Inoltre, la differente posologia dei Doac nel contesto clinico della malattia tromboembolica venosa, con dosaggi maggiori rispetto a quelli utilizzati nella profilassi del rischio tromboembolico nei pazienti con FA, genera spesso perplessità o preoccupazione nel clinico, in merito al potenziale aumento del rischio di sanguinamento.

In questo contesto si pone il presente studio, con l’obiettivo di analizzare i profili di sicurezza ed efficacia dei diversi regimi di terapia anticoagulante in una popolazione di pazienti anziani (>65 anni) dimessi direttamente dal Dea con diagnosi di Tev. A tale scopo, sono stati arruolati 178 pazienti, 120 dei quali sono stati trattati con un IFXa (61 con apixaban e 59 con rivaroxaban) e 58 con un Vka. Questa netta differenza numerica tra i due gruppi potrebbe essere spiegata con il fatto che, avendo il nostro arruolamento coperto un arco temporale a partenza dal 2016, i Doac stavano già diventando de facto la terapia di scelta, nonostante le linee guida del momento ancora non avessero dato una indicazione precisa sul regime terapeutico da preferire, ma comunque forti di dati dalla letteratura molto favorevoli. Al contrario, le più recenti linee guida indicano chiaramente i Doac come molecole da preferire al momento di avviare una terapia anticoagulante in pazienti con nuova diagnosi di Vte15,18. Inoltre, è verosimile pensare che queste nuove molecole siano state accettate ancor più precocemente nella pratica clinica quotidiana proprio nel contesto del Dea, in considerazione delle minori problematiche gestionali e organizzative che comportano rispetto ai Vka. In particolare, la possibilità di iniziare direttamente la terapia anticoagulante, senza necessità di embricazione, permette una più rapida dimissione in quei pazienti a basso rischio di evoluzione negativa e dunque gestibili a domicilio. Effettivamente, uno studio statunitense ha confrontato il tempo tra l’inizio della terapia anticoagulante e la dimissione in pazienti trattati con Doac e warfarin; il gruppo trattato con Doac presentava una netta riduzione del tempo alla dimissione rispetto al gruppo warfarin (28 vs 114 h, p<0,001)19. Proprio queste ultime considerazioni potrebbero spiegare il fatto che i Doac più prescritti sono risultati essere, in questo contesto, apixaban e rivaroxaban, in quanto non necessitano di un periodo iniziale di trattamento con terapia eparinica, a differenza di dabigatran ed edoxaban.

La popolazione dello studio presenta un’elevata complessità clinica, come abituale nelle popolazioni geriatriche. L’età mediana della popolazione è di 79 anni, con una prevalenza del 25,8% di soggetti con età >85 anni. Questo dato è molto più vicino alla realtà geriatrica rispetto alla maggioranza degli studi disponibili in letteratura in merito alla terapia del Vte. In particolare, l’età mediana è risultata più elevata nel gruppo trattato con IFXa, con una differenza ai limiti della significatività statistica. L’età mediana in questo gruppo (80,5 anni) è nettamente maggiore di quella dei pazienti delle popolazioni dei trial di fase III dei Doac nel trattamento acuto del Vte (54,4-57,9 anni)6. Inoltre, il 34,4% della popolazione dello studio presenta una Irc almeno moderata (clearence della creatinina stimata con Ckd-Epi <60 ml/min), mentre nei trial di fase III dei Doac per il trattamento acuto del Vte, solo il 6,8% dei pazienti aveva una clearence tra 30 e 50 ml/min (con addirittura l’esclusione dei pazienti con filtrato stimato <30 ml/min)6. In quest’ottica, si spiega anche la differenza statisticamente significativa nella prevalenza di Irc tra il gruppo trattato con IFXa e quello trattato con Vka nella popolazione di questo studio (rispettivamente, 27,5% e 48,3%). Infine, si segnala che il 32% della popolazione dello studio presenta un’anamnesi positiva per neoplasia, con una differenza ai limiti della significatività statistica tra i due gruppi (27,5% vs 41,4%, rispettivamente per IFXa e Vka). Questa differenza è spiegabile tenendo conto del momento di inizio del periodo di arruolamento (01/01/2016), quando l’indicazione all’utilizzo dei Doac nel trattamento del Vte acuto nei pazienti neoplastici non era ancora chiara.

A ulteriore testimonianza dell’elevata complessità clinica della popolazione dello studio, si segnala un punteggio mediano al Cci di 7. Inoltre, si tenga presente che questo dato sottostima l’effettivo numero di comorbilità della popolazione in esame, in quanto molte patologie comuni nell’età avanzata non sono contemplate da questo score. Ciononostante, in considerazione dei criteri di arruolamento, che includono pazienti dimessi dal Dea ed escludono pazienti dimessi presso strutture sanitarie assistenziali o andati incontro a ricovero ospedaliero in seguito alla diagnosi di Vte, è verosimile che la complessità clinica con cui è necessario confrontarsi quotidianamente in un reparto geriatrico sia anche maggiore. Le variazioni di punteggio al Cci, all’analisi multivariata, hanno dimostrato avere un impatto significativo sull’outcome di sicurezza. Il gruppo trattato con Vka aveva un punteggio mediano di 7, mentre il gruppo trattato con IFXa un punteggio mediano di 6 (il sottogruppo trattato con apixaban 7, quello trattato con rivaroxaban 6). La differenza nel punteggio tra i due gruppi potrebbe essere spiegata dalla maggiore prevalenza, nel gruppo Vka, di pazienti con IRC e anamnesi positiva per neoplasia.

Infine, il 31,5% della popolazione dello studio assumeva più di 5 farmaci cronicamente al momento della diagnosi (fino a 17). La polifarmacoterapia era più prevalente, in modo non statisticamente significativo, nel gruppo trattato con IFXa. Il minor numero di interazioni farmacologiche che caratterizza queste molecole potrebbe in parte spiegare questa differenza (33,3% vs 27,6%, rispettivamente per Doac e Vka), avendo fatto preferire al clinico la prescrizione di un Doac in pazienti che già assumevano numerosi altri farmaci. Inoltre, si è osservata una maggiore tendenza alla polifarmacoterapia nei pazienti trattati con rivaroxaban rispetto ai trattati con apixaban. In tal senso, rivaroxaban potrebbe essere stato preferito in virtù della sua monosomministrazione giornaliera.

Il 92,7% della popolazione dello studio ha completato i primi 3 mesi di terapia anticoagulante. Se si tiene conto del fatto che, dei 13 pazienti che non hanno proseguito la terapia per almeno tre mesi, 6 sono deceduti e 3 hanno solamente cambiato regime terapeutico, si può concludere che la compliance alla terapia anticoagulante è molto elevata. Il 79,8% della popolazione ha proseguito la terapia oltre i 3 mesi e, in particolare, il 42,7% ha proseguito la terapia cronicamente. Solo una minoranza di pazienti, tuttavia, aveva ricevuto una chiara indicazione all’estensione della terapia in profilassi secondaria. Inoltre, numerosi pazienti hanno sospeso la terapia ben oltre il periodo di 3-6 mesi indicato dalle linee guida (in alcuni casi anche dopo anni). Seppure in alcuni casi sia possibile ipotizzare una sospensione per una variazione del quadro clinico (e.g., aumento del rischio emorragico), sembra almeno altrettanto verosimile una scarsa aderenza alle linee guida. In particolare, permane l’errata convinzione in alcuni clinici che il passaggio a terapia antiaggregante garantisca un minor rischio di sanguinamento per il paziente, con pari efficacia. Tuttavia, i dati in letteratura smentiscono chiaramente questa ipotesi: da una meta-analisi20 del 2019 si evidenzia infatti come tutti i regimi di terapia anticoagulante, ma non la terapia con Asa, siano associati a una riduzione del rischio di recidiva di Vte rispetto al placebo e, nello studio EINSTEIN Choice21, rivaroxaban era risultato più efficace dell’Asa con un rischio di sanguinamento maggiore paragonabile. Infine, le stesse linee guida Ash 2020 affermano chiaramente come non sia raccomandato utilizzare Asa in sostituzione della terapia anticoagulante nella prevenzione secondaria della malattia tromboembolica venosa15.

La prevalenza della mortalità nella popolazione dello studio è stata del 3,4%. Non si sono osservate differenze statisticamente significative in termini di mortalità tra i differenti regimi terapeutici, sebbene nel gruppo trattato con Vka la mortalità fosse più alta. Tuttavia, si è osservato un trend di aumento della mortalità nel sottogruppo apixaban rispetto al sottogruppo rivaroxaban. Questi dati potrebbero essere stati influenzati dall’alto numero di decessi legati a progressione di malattia neoplastica riscontrati nel gruppo apixaban (che ne conta 4 nei primi tre mesi di terapia, mentre la mortalità globale per tutte le cause dell’intera popolazione nello studio è di 17 casi), in considerazione della bassa numerosità campionaria e del basso numero di eventi dello studio. Inoltre, rispetto al sottogruppo trattato con rivaroxaban, il sottogruppo apixaban presentava un’età mediana più elevata e un maggiore punteggio al Cci, il quale si è dimostrato avere un impatto significativo sull’outcome composito di sicurezza all’analisi multivariata. A ogni modo, la maggioranza dei decessi registrati nello studio risulta non direttamente correlabile a complicanze della malattia tromboembolica venosa o della terapia anticoagulante. Se ne deduce quindi che la terapia anticoagulante, oltre che risultare fondamentale nella prevenzione delle complicanze del VTE, dimostra un buon profilo di sicurezza.

A ulteriore conferma di quanto appena affermato, si segnala l’assenza di sanguinamenti fatali nei pazienti trattati con IFXa, mentre nel gruppo trattato con Vka un paziente è deceduto per sanguinamento intracranico. Questi dati sono in linea con quanto emerge dalla letteratura, nonostante il basso numero di eventi nella popolazione osservata: nei trattati con Doac, infatti, è stata descritta una ridotta incidenza di emorragie maggiori in siti critici e, in particolare, una significativa riduzione dei sanguinamenti intracranici1,22.

Anche per quanto riguarda i sanguinamenti si è osservata una bassa prevalenza nella popolazione dello studio (2,3%), senza una differenza statisticamente significativa tra i diversi regimi terapeutici, seppur con una maggiore prevalenza nel gruppo Vka rispetto ai trattati con IFXa. Nell’ambito degli IFXa, si è osservata una maggiore prevalenza di sanguinamento nel sottogruppo trattato con apixaban. In particolare, si segnala l’assenza di episodi di sanguinamento nei primi 3 mesi di terapia con rivaroxaban ma, tenendo invece conto dei 12 mesi di follow-up, una maggiore incidenza di sanguinamenti gastroenterici rispetto al gruppo trattato con apixaban. Si segnala inoltre che, con l’eccezione di un singolo grave episodio di sanguinamento in corso di terapia con apixaban (sanguinamento dell’arteria epigastrica inferiore destra con necessità di trattamento di embolizzazione), la gravità e il decorso dei sanguinamenti in corso di IFXa sono apparsi più lievi (e.g., epistassi, gengivorragia, sanguinamento gastroenterico inferiore) rispetto ai casi registrati nel gruppo trattato con Vka (e.g., sanguinamento intracranico, improvvisa anemizzazione con causa ignota con necessità di supporto trasfusionale, sanguinamento gastroenterico superiore). Questi risultati sono in linea con i dati della letteratura: nei trial randomizzati controllati di fase III per il trattamento acuto del Vte, infatti, la terapia con Doac era associata a una riduzione del rischio relativo di sanguinamenti maggiori, Crnmb e sanguinamenti gastroenterici17. In particolare, i sanguinamenti in corso di terapia con rivaroxaban e apixaban sono risultati associati a una presentazione e un decorso clinico più lievi rispetto a quelli associati a warfarin22.

Non si è osservata una differenza statisticamente significativa nel numero di accessi non programmato in PS nei 12 mesi di follow-up tra i due gruppi. In particolare, il numero di accessi era più elevato nel gruppo di pazienti trattato con IFXa rispetto ai trattati con Vka. Inoltre, è risultato più elevato nei pazienti trattati con rivaroxaban rispetto al sottogruppo apixaban. Si segnala però una più elevata frequenza di accessi francamente definibili “inappropriati” nel gruppo trattato con Vka, cioè legati a problematiche nella gestione della terapia anticoagulante (e.g., preoccupazione per lieve sovradosaggio Inr, mancata organizzazione per monitoraggio Inr sul territorio). Le differenti caratteristiche dei Doac hanno fortemente ridotto questo tipo di problematiche gestionali. Il dato relativo al maggior numero di accessi nella popolazione trattata con IFXa potrebbe essere spiegato da una maggiore complessità clinica di questi pazienti, come confermato dall’età mediana più elevata, dal maggior numero di farmaci assunti e dalla maggiore prevalenza di diagnosi di PE rispetto a Dvt. Un dato che non concorda con questa ipotesi è il punteggio più basso al Cci (6 vs 7 per il gruppo IFXa vs Vka); tuttavia questo dato è limitato da una non completa valutazione del numero di effettive comorbilità, non tenendo conto di molte patologie comuni nell’età avanzata ed è influenzato dalla maggiore di prevalenza di pazienti con Irc o con anamnesi positiva per neoplasia nel gruppo Vka. Un altro fattore da tenere in considerazione è il fatto che molti pazienti dimessi con indicazione a terapia con un Vka sono stati seguiti presso il Centro per la Sorveglianza delle terapie antitrombotiche dell’Azienda ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino, che fornisce indicazioni nella gestione della terapia anticoagulante, indica le modifiche da apportare alla posologia e gestisce alcune complicanze minori della stessa.

Infine, per quanto riguarda l’outcome composito di sicurezza, non si sono riscontrate differenze significative tra i diversi regimi terapeutici nel corso dei 12 mesi di follow-up. Questi risultati, complessivamente, sono in linea con i dati di altri studi real-world disponibili in letteratura23,24.

Nel corso dei 12 mesi di follow-up, la prevalenza di recidive è stata del 6,7% nella popolazione dello studio (12 casi). In particolare, nei primi 3 mesi di terapia, si è riscontrata una differenza ai limiti della significatività statistica tra il gruppo IFXa e il gruppo Vka, con una prevalenza rispettivamente pari a 0% e 3,5%. La differenza si riduce prendendo in considerazione l’intero periodo di follow-up di 12 mesi, salendo a una prevalenza del 5,8% e 8,6%, rispettivamente, nei due gruppi. Inoltre, si è osservata una differenza ai limiti della significatività statistica tra il sottogruppo trattato con apixaban e quello con rivaroxaban (rispettivamente, 1,6% e 10,2%) nell’arco dei 12 mesi di follow-up. Con entrambe le molecole, non si sono osservati casi di recidiva nei primi 3 mesi di terapia. Complessivamente, a eccezione che nel sottogruppo apixaban, in questo studio si sono osservate prevalenze di recidiva maggiori rispetto ai dati della letteratura25,26. Questo dato potrebbe essere spiegato dalle caratteristiche della popolazione dello studio che, rispetto alla maggioranza dei lavori in letteratura, presenta un’età mediana maggiore, maggiore prevalenza di Irc almeno moderata e una elevata complessità clinica. È infatti noto come il rischio di malattia tromboembolica venosa cresca enormemente con l’avanzare dell’età2, oltre a essere aumentato dalla presenza di alcune patologie croniche diffuse nell’età avanzata (e.g., Irc, malattie respiratorie, scompenso cardiaco, diabete, ipertensione arteriosa)3. Inoltre, il dato relativo alle recidive di questo studio non tiene conto solo delle recidive in corso di terapia anticoagulante ma anche di quelle incorse dopo la sua sospensione, qualora questa sia avvenuta prima del dodicesimo mese di follow-up. La differenza di prevalenza tra i sottogruppi apixaban e rivaroxaban potrebbe essere giustificata dalla maggiore prevalenza di PE in quest’ultimo sottogruppo, implicando una maggiore gravità della malattia tromboembolica venosa, e di una creatininemia mediana più elevata, a indicare una maggiore prevalenza di Irc, che di per sé è un noto fattore di rischio per Vte. Inoltre, il sottogruppo apixaban presenta una maggiore mortalità nei primi 3 mesi di follow-up; la riduzione numerica della popolazione potrebbe aver influenzato la casistica dei mesi successivi, riducendo il numero di potenziali eventi.

Infine si segnala la presenza di 1 caso di ictus ischemico e di 1 caso di infarto miocardico nella popolazione del sottogruppo trattato con apixaban. Per quanto il valore del dato sia limitato dalla bassa numerosità campionaria e dal basso numero di eventi nello studio, non si può escludere che il dato sia significativo (nessun evento nei trattati con rivaroxaban o Vka).

Conclusioni

L’utilizzo dell’analisi multivariata si è reso necessario in considerazione della natura osservazionale retrospettiva dello studio. Non trattandosi di uno studio randomizzato, sono emerse delle inevitabili differenze tra le popolazioni trattate coi diversi regimi terapeutici. Utilizzando l’analisi multivariata, è stato possibile affermare che, nonostante le differenze tra i due gruppi in termini di età mediana, di prevalenza di Irc o di malattia neoplastica e di diagnosi di Dvt vs PE, non si sono osservate differenze nel profilo di sicurezza e di efficacia della terapia anticoagulante tra le due popolazioni. L’unico parametro che ha mostrato significatività nell’impatto sul profilo di sicurezza è la variazione del punteggio al Cci.

I limiti di questo studio, come già detto, sono la numerosità campionaria e il basso numero di eventi. Inoltre, avendo selezionato per lo studio solo pazienti dimessi al proprio domicilio dal Dea, è verosimile che la realtà clinica di un reparto di geriatria sia ancora più complessa e, di conseguenza, meritevole di ulteriore approfondimento con trial dedicati. I punti di forza di questo studio sono la metodica standardizzata con cui è avvenuto il reclutamento dei pazienti, tramite una ricerca nel database ospedaliero utilizzando i codici ICD9-CM, con la successiva selezione dei pazienti eleggibili per mezzo di criteri di inclusione ed esclusione ben definiti. In considerazione della natura retrospettiva dello studio, le stime di efficacia e sicurezza sono state effettuate bilanciandole sulle differenti caratteristiche delle popolazioni dei diversi gruppi, e hanno condotto a risultati prevedibili in quanto in linea con i dati disponibili in letteratura. Un ulteriore punto di forza di questo studio è il fatto che analizza una popolazione molto più vicina alla realtà geriatrica sia in termini di età che di funzionalità renale e, più in generale, di complessità clinica, rispetto alla maggioranza dei lavori presenti in letteratura riguardanti la gestione della terapia anticoagulante nel contesto del Vte. Di conseguenza, essendo i risultati di questo studio in linea con i dati disponibili in letteratura (derivanti da popolazioni di pazienti caratterizzati da minore complessità clinica), è possibile concludere che, anche nella popolazione geriatrica, la terapia anticoagulante presenta un buon profilo di sicurezza ed efficacia nell’ambito del trattamento acuto e in profilassi secondaria della Tev.

Conflitto di interessi: A.R. ha avuto sponsorizzazioni per partecipazioni a convegni da parte di Bayer; gli altri autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Ringraziamenti: si ringrazia Bayer per il contributo non condizionante nella revisione e correzione dell’articolo.

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