Dalla letteratura

Covid e sclerosi multipla

Nonostante Covid-19 possa scatenare condizioni autoimmuni in individui sani, sembra che nei pazienti affetti da sclerosi multipla non aumenti il rischio di “attività” della patologia o di peggioramento motorio e cognitivo. È quanto emerge da uno studio italiano pubblicato recentemente sul Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry1.

Lo studio ha preso in considerazione 136 pazienti con sclerosi multipla che avevano avuto covid-19 (età media 41 anni; gruppo SM-Covid) – di cui solo sette con infezione di grado severo – e 186 pazienti che invece non avevano contratto l’infezione abbinati per età, sesso, Expanded Disability Status Scale (EDSS), durata della malattia e tipo di trattamento (gruppo SM-NCovid). I partecipanti non erano vaccinati contro Covid-19 al momento dell’infezione ma la maggior parte di loro ha poi avuto il vaccino nel corso del periodo di follow-up.

I soggetti inclusi nell’analisi sono stati sottoposti a regolari controlli neurologici, risonanze magnetiche cerebrali, valutazioni neuropsicologiche e a misurazioni della fatica mediante Modified Fatigue Impact Scale (MFIS), della depressione e dell’ansia tramite la Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), del sonno tramite il Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI) e degli effetti psicologici e post-traumatici legati al Covid-19 tramite l’Impact of Event Scale-Revised (IES-R). Inoltre, i ricercatori hanno valutato anche la risposta immunitaria al SARS-CoV-2.

Durante un periodo di follow-up di 18-24 mesi dopo l’infezione da Covid-19 non sono emerse differenze significative tra i soggetti dei gruppi SM-Covid e SM-NCovid in termini di peggioramento dell’EDSS (15% vs 11%), frequenza di ricadute (6% vs 5%), necessità di cambiare la terapia disease-modifying (7% vs 4%), comparsa di nuove lesioni cerebrali agli esami di risonanza magnetica: iperintensità nella sequenza T2 (9% vs 11%) e gadolinium enhacement (7% vs 4%).

Al termine dello studio il 22% dei pazienti nel gruppo SM-Covid e il 23% nel gruppo SM-NCovid mostravano compromissione cognitiva, senza differenze significative tra i due gruppi. Un risultato, questo, riscontrato anche per quanto riguarda le funzioni cognitive globali, la memoria verbale e visiva, la velocità di elaborazione delle informazioni, l’attenzione e la fluidità verbale. Non sono state osservate differenze significative, infine, anche per quanto riguarda i punteggi relativi a fatica, ansia, depressione, qualità del sonno e agli effetti psicologici e post-traumatici correlati al Covid-19.

«Sulla base di questi risultati – concludono gli autori dello studio – è appropriato suggerire che le persone con sclerosi multipla possano iniziare a tornare alla loro vita normale con meno paura del Covid-19. […] Naturalmente, è comunque opportuno essere cauti e promuovere buone pratiche igieniche poiché il virus può ancora rappresentare un rischio per chiunque, indipendentemente dallo stato immunitario, specialmente perché le future varianti potrebbero presentare un diverso spettro di sintomi neurologici». Saranno poi necessari ulteriori studi per valutare gli eventuali effetti legati a infezioni da SARS-CoV-2 di grado severo, poco rappresentate in questa analisi.




Bibliografia

1. Montini F, Nozzolillo A, Tedone N, et al. COVID-19 has no impact on disease activity, progression and cognitive performance in people with multiple sclerosis: a 2-year study. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2023 Oct 19: jnnp-2023-332073.

Fabio Ambrosino

In collaborazione con Neuroinfo.it

Immunomodulatori per il trattamento dell’epilessia focale: una revisione Cochrane

I farmaci immunomodulatori potrebbero dimostrarsi efficaci nel ridurre la frequenza delle crisi epilettiche negli adulti affetti da epilessia focale. Tuttavia, essi sono spesso associati a un aumento di eventi avversi come vertigini, mal di testa, affaticamento e disturbi gastrointestinali.

È quanto emerge dai risultati di una recente revisione sistematica Cochrane, i quali suggeriscono però che le evidenze a oggi disponibili non permettono di trarre conclusioni definitive circa la sicurezza di questi trattamenti, sia negli adulti sia nei bambini1.

Alcuni studi hanno suggerito che il sistema immunitario e la sua risposta alle lesioni potrebbero avere un ruolo centrale nella patofisiologia dell’epilessia focale. Pertanto si è voluto valutare se le terapie di modulazione immunitaria, ovvero quei trattamenti che agiscono sul sistema immunitario, potessero rappresentare un approccio terapeutico valido in questo contesto.

Sono stati esaminati studi relativi a trattamenti immunomodulatori in bambini e adulti affetti da epilessia focale, confrontando e riassumendo i risultati di tali studi in base alla qualità delle evidenze, basandosi su fattori come i metodi impiegati e le dimensioni del campione. Questa è stata giudicata moderata a causa della mancanza di dati sugli esiti e dei risultati non precisi emersi in molti studi presi in considerazione.

Gli autori della revisione sistematica concludono quindi che sono necessarie ulteriori ricerche di alta qualità per valutare in modo affidabile l’efficacia e la tollerabilità degli immunomodulatori per il trattamento dell’epilessia focale.

Bibliografia

1. Panebianco M, Walker L, Marson AG. Immunomodulatory interventions for focal epilepsy. Cochrane Database Syst Rev 2023; 10: CD009945.

Trapianto di cuore: nessun beneficio dal trattamento dei potenziali donatori con levotiroxina

I risultati di un nuovo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine mostrano che non vi è alcun beneficio associato all’utilizzo della levotiroxina per preservare la funzione cardiaca dei potenziali donatori di cuore1.

Lo studio, multicentrico randomizzato controllato con placebo, ha messo in evidenza come l’amministrazione intravenosa di levotiroxina in donatori in stato di morte cerebrale e instabili dal punto di vista emodinamico non migliori il tasso di trapianti di cuore o la sopravvivenza del graft.




«Questa pratica è stata adottata da molte organizzazioni di prelievo organi e viene utilizzata su migliaia di donatori ogni anno, senza mai essere stata studiata rigorosamente», ha dichiarato il primo autore Raj Dhar, docente di neurologia presso la Washington University School of Medicine di St. Louis, Missouri. «Ora sappiamo che questa pratica non ha alcun beneficio e potrebbe causare alcuni danni».

L’analisi è stata condotta presso 15 organizzazioni di prelievo organi negli Stati Uniti, per un totale di 838 donatori con morte cerebrale instabili dal punto di vista emodinamico considerati idonei per la donazione di cuore. Entro 24 ore dalla dichiarazione di morte cerebrale, la metà dei donatori è stata assegnata casualmente a un trattamento con levotiroxina (30 μg/h per almeno 12 ore) e l’altra metà alla somministrazione di soluzione fisiologica normale. Il successivo trapianto di cuore, l’endpoint primario dello studio, è avvenuto in 230 donatori (54,9%) nel gruppo della levotiroxina e in 223 donatori (53,2%) nel gruppo della soluzione salina, una differenza non significativa (rischio relativo aggiustato, 1,01; IC al 95%, 0,97-1,07; p=0,57). Non c’è stata nemmeno una differenza sostanziale tra i gruppi in termini di sopravvivenza del graft a 30 giorni, riscontrata in 224 cuori (97,4%) trapiantati da donatori a cui era stata somministrata la levotiroxina e in 213 cuori (95,5%) trapiantati da donatori a cui era stata somministrata la soluzione salina (differenza, 1,9 punti percentuali; IC al 95%, -2,3 a 6,0; p<0,001 per la non inferiorità con un margine del 6% punti percentuali). Inoltre, il trattamento con levotiroxina non è risultato associato ad alcun beneficio in termini di necessità di terapia vasopressoria e di miglioramento della frazione di eiezione, mettendo in evidenza – come sottolineato dagli autori – l’assenza di un effetto fisiologico del trattamento.

«La rianimazione ormonale, compresa quella con levotiroxina, è ampiamente sostenuta dalle linee guida per favorire la stabilizzazione emodinamica e aumentare il numero di organi trapiantati, una pratica supportata solo da dati osservazionali», ha aggiunto Dhar. «Ora abbiamo trovato prove convincenti che questa intervenzione che stiamo usando da 40 anni non funziona».

Bibliografia

1. Dhar R, Marklin GF, Klinkenberg D, et al. Intravenous levothyroxine for unstable brain-dead heart donors. N Engl J Med 2023; 389: 2029-38.

App e depressione: funzionano in quella da grave a moderata

In una nuova revisione sistematica e meta-analisi, i ricercatori hanno fatto luce sul fiorente panorama delle app per la salute mentale progettate per trattare la depressione da moderata a grave1. Lo studio esplora l’efficacia del trattamento di queste applicazioni e identifica i fattori cruciali che influenzano i risultati.

L’analisi completa, che comprende 13 studi e 16 applicazioni distinte che hanno coinvolto 1470 partecipanti, ha rivelato un effetto complessivo convincente di 0,50 (IC 95% 0,40-0,61) quando sono stati confrontati gli interventi con le app con i gruppi di controllo attivi e inattivi.

Tuttavia lo studio ha evidenziato anche delle differenze nell’efficacia delle app. In particolare, gli interventi con notifiche in-app hanno mostrato risultati di trattamento significativamente inferiori (differenza media standardizzata [SMD], 0,45; IC 95% 0,29-0,60) rispetto a quelli senza notifiche (SMD, 0,71; IC95% 0,54-0,87; p=0,02). Questo dimostra l’importanza di considerare le strategie di notifica nello sviluppo delle app per interventi sulla salute mentale.

La durata degli interventi con le app si è rivelata un aspetto fondamentale. Le applicazioni fornite per meno di 8 settimane hanno dimostrato un effetto significativamente maggiore (SMD, 0,77; IC95% 0,59-0,96) rispetto a quelle fornite per 8 settimane o più (SMD, 0,43; IC 95% 0,30-0,57; p=0,004). Lo studio suggerisce quindi che gli interventi di durata più breve possono produrre benefici più sostanziali.

«La nostra ricerca non solo convalida la fattibilità e l’efficacia degli interventi con le app, ma offre anche spunti decisivi per i clinici e gli sviluppatori di app. La comprensione dell’impatto delle funzioni dell’app e della durata dell’intervento consente di elaborare strategie più mirate ed efficaci nello sviluppo e nell’utilizzo delle app per la salute mentale», spiegano gli autori.

Bibliografia

1. Bae H, Shin H, Ji HG, Kwon JS, Kim H, Hur JW. App-Based interventions for moderate to severe depression: a systematic review and meta-analysis. JAMA Netw Open 2023; 6: e2344120.

Alessio Malta

In collaborazione con la Biblioteca
Alessandro Liberati (http://bal.lazio.it)

Abuso di alcol e farmacoterapia

L’abuso di alcol è la terza causa di decessi prevenibili negli Stati Uniti (145.000 ogni anno). Eppure, nonostante l’elevata prevalenza e mortalità associate al disturbo da uso di alcol (Aud), solo una piccola percentuale delle persone che ne soffrono riceve la farmacoterapia, un significativo gap terapeutico che potrebbe essersi ampliato durante la pandemia di ­Covid-19.

Una revisione sistematica e una meta-analisi hanno valutato l’efficacia delle farmacoterapie per l’Aud1. I criteri di inclusione della revisione si sono concentrati sugli adulti con Aud negli studi che valutavano i farmaci approvati dalla Food and drug administration (Fda) oppure alcuni farmaci off-label, per una durata minima di 12 settimane. Gli studi idonei dovevano riportare il consumo di alcol, gli esiti sulla salute o gli eventi avversi. Per quanto riguarda l’efficacia, sono stati presi in considerazione solo studi clinici randomizzati in doppio cieco, mentre, per gli effetti avversi, è stata consentita una gamma più ampia di disegni di studio a causa delle limitazioni degli Rct nell’individuazione dei danni rari. La revisione ha portato a selezionare 118 Rct. Di questo gruppo, 81 erano stati inclusi in una revisione sistematica completa del 2014, e gli altri 37 Rct rappresentavano nuovi contributi al campo. Quest’ultimo gruppo aveva un ampio ventaglio di partecipanti, da un minimo di 12 a un massimo di 921, e la durata del trattamento variava da 12 settimane a un anno intero. La maggior parte degli studi si è concentrata su individui con diagnosi di dipendenza da alcol. I metodi di reclutamento utilizzati sono stati diversi, rispecchiando l’ampio interesse e i vari percorsi investigativi in questo ambito. La maggior parte degli studi univa interventi psicosociali, e i farmaci associati al supporto psicologico sembravano offrire vantaggi aggiuntivi, che si riflettevano nelle dimensioni dell’effetto. Emergeva quindi un’efficacia aumentata quando si uniscono trattamenti medici e psicosociali nella dipendenza da alcol.

La ricerca su acamprosato e naltrexone è stata condotta principalmente in Europa e negli Stati Uniti, spesso insieme al supporto psicosociale. Farmaci come vareniclina, ondansetron e prazosina hanno mostrato prove limitate di efficacia. Acamprosato e naltrexone, approvati dalla Fda per l’Aud, hanno migliorato significativamente gli esiti del consumo di alcol, ma l’acamprosato non ha ridotto in modo significativo la ricaduta del consumo di alcol. Il naltrexone orale si è rivelato utile, contrariamente alla sua versione iniettabile.




Ulteriori analisi hanno rivelato che altri farmaci non indicati dalla Fda, come il topiramato e il baclofene, producono benefici significativi nel ridurre il consumo di alcol. La forza dell’evidenza per questi risultati era da moderata a bassa, mentre il gabapentin non ha mostrato un’associazione significativa con tassi di consumo più bassi. I confronti diretti tra acamprosato e naltrexone non hanno mostrato differenze significative nel miglioramento degli esiti relativi al consumo di alcol. Gli esiti sanitari relativi al trattamento farmacologico non sono stati adeguatamente riportati negli studi randomizzati, quindi risulta difficile valutare eventuali miglioramenti sostanziali in aree come la qualità della vita o la mortalità.

Gli effetti avversi dei farmaci non sono stati rilevati in modo coerente a causa di metodi di raccolta non standardizzati, che spesso non sono stati riportati negli studi. Tuttavia, è stato osservato che le vertigini erano l’effetto collaterale più lieve tra tutti i farmaci. Acamprosato e naltrexone avevano maggiori probabilità di causare disturbi gastrointestinali rispetto al placebo.

Altri farmaci, come baclofene e topiramato, sono stati collegati a casi più gravi di sonnolenza, intorpidimento e disfunzione cognitiva. I confronti diretti tra acamprosato e naltrexone orale hanno evidenziato una minore incidenza di nausea con acamprosato.




Bibliografia

1. McPheeters M, O’Connor EA, Riley S, et al. Pharmacotherapy for alcohol use disorder: a systematic review and meta-analysis. JAMA 2023; 330: 1653-65.

Alessio Malta

In collaborazione con la Biblioteca
Alessandro Liberati (http://bal.lazio.it)