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Una delle segnalazioni dei POEMs di questo mese riguarda uno studio sul fornire cattive notizie (per esempio una diagnosi di una malattia oncologica) usando il telefono: una scelta che sembra non influisca sui livelli di ansia, depressione o sulla soddisfazione per l’assistenza ricevuta. Beninteso, rispetto al fornire di persona notizie di questo genere. I curatori dell’edizione italiana dei POEMs ricordano a pagina 192 che negli ultimi anni «si sono diffuse anche in Italia varie forme di telemedicina, dai colloqui telefonici refertati al tele-monitoraggio di pazienti non ospedalizzati» e che «le cure primarie si prestano particolarmente alla diffusione e all’utilizzo di queste modalità di comunicazione. […] Non è tanto il mezzo di comunicazione utilizzato, quanto le abilità comunicative e probabilmente l’empatia, a influenzare i livelli di stress e soddisfazione dei pazienti o delle persone a loro vicine».

I risultati di studi di questo tipo da un lato possono incoraggiare l’adozione delle innovazioni che vengono costantemente proposte, ma dall’altro fanno riflettere sullo stato di servizi sanitari in cui la cura e il supporto alla persona malata sono talmente trascurati che la sostituzione della relazione umana in presenza con l’assistenza a distanza non comporti alcuna differenza.

Nel suo contributo, Giampaolo Collecchia offre il proprio punto di vista sul dualismo tra il tocco umano e la sua antitesi, «il contatto contro il monitoraggio, con un rischio sempre maggiore di perdita della relazione medico-paziente». Collecchia introduce il concetto di skin hunger, “fame di pelle”, una delle conseguenze più drammatiche dell’isolamento sofferto durante i mesi di più acuta pandemia. La perdita di importanza dell’esame fisico era peraltro già in atto da tempo – scrive Collecchia – e il Covid-19 ha solo accelerato il processo. «Nell’assistenza sanitaria contemporanea, il tatto sembra infatti in via di estinzione. La tendenza attuale è di preferire l’apparente certezza degli esami alla classica visita diretta. L’assistito per il medico è quasi diventato un’icona digitale del paziente».

Questioni riprese anche dall’articolo di Lorenzo Farina che sottolinea come «la quantità di dati raccolti non garantisce automaticamente il successo ma che, invece di farsi guidare dai dati, sia inevitabile una visione d’insieme e una valutazione “umana” collettiva. È necessaria, cioè, una collaborazione stretta tra medici e analisti dei dati, integrando le competenze, per affrontare le sfide nella diagnosi e cura delle malattie complesse attraverso l’immaginazione e non la semplice estrapolazione» (pag. 170).

«La vera domanda – conclude Collecchia – non è quindi se la scomparsa del contatto fisico possa danneggiare la relazione medico-paziente ma cosa possiamo fare per preservarlo. Come sempre, la consapevolezza è il primo passo: la tecnologia ci separa dai pazienti ma non è il vero problema. È solo quando diventa un fine anziché un mezzo che rischiamo di perdere secoli di tradizione medica, il che sarebbe dannoso non solo per i pazienti ma anche per noi. È pertanto necessario trovare un equilibrio tra l’utilizzo della tecnologia e la garanzia che gli operatori sanitari umani mantengano un ruolo centrale nel fornire supporto emotivo e comprensione ai pazienti, che l’interazione umana rimanga una parte essenziale della professione sanitaria, ripensando l’interfaccia uomo-macchina e integrando il paziente reale con l’iPatient» (pag. 177).