Ritratto di Paola Michelozzi:
epidemiologa dentro




Lavoro e formazione professionale

Quali persone hanno più influenzato il suo modo di fare ricerca?

Ho sempre lavorato al Dipartimento di Epidemiologia del Lazio (Dep). All’inizio, appena laureata, era l’Osservatorio epidemiologico regionale (Oer). C’era molto fermento, ci lavoravano persone non comuni, intelligenti, ambiziose, molto appassionate, competitive… ricordo il senso di inadeguatezza. Due sono state molto importanti per me, il direttore Carlo A. Perucci (capo lungimirante, creativo, dalla personalità complessa) e Francesco Forastiere, l’epidemiologo ambientale più bravo di tutti. (Anzi in realtà le persone importanti sono state 3, “il terzo uomo” l’ho sposato!).

Non solo uomini ma anche donne importanti nella mia formazione, all’università facevo parte di un gruppo di studentesse guidate da ricercatrici del Cnr, sugli effetti delle esposizioni ambientali sulla salute riproduttiva della donna. E ancora prima al liceo, la mia mentore, la prof. di scienze Luciana Scardia, colta, di sinistra, leccese. Con lei (allora non lo sapevo) ho fatto la prima indagine epidemiologica su uno degli incidenti ambientali più drammatici della storia, l’esplosione dell’Icmesa a Seveso nel 1976, per un anno abbiamo raccolto documentazione scientifica sugli effetti della diossina Tcdd, dati sulla contaminazione ambientale, sugli esposti, sui casi di cloracne nei bambini.

Come è cambiata la sanità dai tempi in cui lei scelse di lavorare in questo ambito?

O, meglio: qual è il cambiamento (o i cambiamenti) più radicale?

Avevamo la sensazione di poter cambiare il mondo della sanità! Credevamo molto nel sistema universalistico post legge 833 e ne cavalcavamo l’idea portante, sicuri che avrebbe contribuito ad abbattere le diseguaglianze di salute, anche se il sistema già mostrava le sue falle. Oggi bisogna prendere atto che un servizio sanitario pubblico “universale e ugualitario” non esiste più, che deve essere riprogettato, anche attraverso profonde modifiche strutturali, includendo in questo processo il tema urgente della crisi ambientale e climatica nella visione “one health”. L’Associazione Italiana di Epidemiologia e la sua rivista E&P stanno lanciando un appello agli epidemiologi italiani perché diano una mano in questo processo pianificando in modo coordinato un programma di ricerca per il monitoraggio dei cambiamenti in atto nel Servizio sanitario nazionale (Ssn), documentandone l’impatto sulla salute e fornendo indicazioni sulle prospettive future del Ssn. Spero che questa iniziativa, insieme a tante altre, possa portare un cambiamento di segno inverso rispetto a quello a cui abbiamo assistito finora.

E – se dovesse indicarne uno – quale cambiamento del Servizio sanitario e della sua organizzazione ritiene sia stato il più importante?

Quello che purtroppo non c’è mai stato. Cambiare paradigma e piuttosto che investire solo in cure sempre più costose puntare sulla prevenzione (che è sempre più negletta, non fa business, anzi, al contrario può ridurre i consumi, per esempio di tabacco, di alcol, nella dieta, l’uso dell’auto). La prevenzione viene considerata da molti uno strumento superato, adatto ai paesi che non hanno risorse da investire nelle cure, in farmaci costosi. La prevenzione attraverso il miglioramento degli stili di vita e la riduzione dell’esposizione ai rischi ambientali dovrebbe essere il mezzo principale per ridurre le diseguaglianze di salute, invece attualmente è il contrario, sono le fasce di popolazione più ricche e istruite che hanno una maggiore attenzione agli stili di vita più sani.

Qual è la parte del suo lavoro più gratificante? E quella più noiosa?

La parte più gratificante è quella di progettazione di nuove ricerche, soprattutto quando riesco a farla coinvolgendo i colleghi più giovani, con la contaminazione di colleghi di altre discipline. Alcune fasi dello studio epidemiologico invece sono noiose, a volte ripetitive. In epidemiologia ambientale poi c’è spesso una sensazione di inadeguatezza: non siamo mai in grado di mettere un punto, le evidenze si costruiscono a fatica con percorsi lunghi, appena pubblicato uno studio è già vecchio, avremmo voluto fare di più e meglio.

Qual è stato il suo primo “esame”, non intendendo con questo gli impegni scolastici?

Il mio esame più difficile è stato iniziare a lavorare all’Osservatorio Epidemiologico! Ero una borsista appena uscita dall’università e non sapevo nulla di epidemiologia, mi ha salvato la mia voglia di imparare e di entrare a fondo in quello che mi veniva proposto, ma ci sono voluti anni!

Qual è il suo più grande rammarico?

Non ho nessun grande rammarico, anzi, forse sì, a volte nei momenti bui, mi chiedo se non avrei fatto meglio a seguire le mie passioni per il design o per la moda!

Lettura, scrittura aggiornamento

Quale forma di aggiornamento le sembra più utile? Leggere le riviste scientifiche? Andare ai congressi?

Letteratura scientifica, seminari e corsi di formazione sono spesso molto più utili dei convegni (soprattutto dei mega convegni), questi ultimi ormai insostenibili dal punto di vista dell’impatto ambientale. Riconosco che nel passato alcuni congressi internazionali sono stati storicamente importantissimi, ad esempio il congresso sull’Aids a San Francisco del 1990 a cui ho partecipato con decine di migliaia di ricercatori di tutto il mondo, con attivisti e persone affette da Hiv che chiedevano azioni in risposta alla pandemia. Credo che congressi come quello abbiano contribuito ad accelerare il processo che ha portato in pochi anni al successo delle terapie antiretrovirali in grado di bloccare la malattia e ridurre la trasmissione del virus. Ma vogliamo riflettere oggi sull’impatto in termini di emissioni di CO2 dell’ultima COP28 di Dubai, con il più alto footprint della storia delle COP a causa dell’elevato numero di partecipanti (oltre il 60% delle emissioni si stima sia attribuibile agli spostamenti aerei), e dove molti leader politici, ignorando la sostenibilità ambientale, hanno scelto di partecipare con il proprio jet privato? L’International Society for Environmental Epidemiology (Isee) per prima dovrebbe dare l’esempio e abolire i mega convegni internazionali annuali in attesa che vengano sostituiti da conferenze scientifiche nel metaverso, magari in luoghi esotici!

Accettare consigli da colleghi è utile o rischioso?

Non vedo il rischio, credo che sia utile se viene fatto con modestia e spirito critico.

Quale caratteristica personale è più utile per coordinare il lavoro di un gruppo di ricerca?

Competenza, creatività, capacità organizzativa ed empatia… non so se in questo ordine.

Riceve newsletter di riviste generaliste come Lancet o BMJ o di epidemiologia?

Sì.

Qual è la sua rivista scientifica preferita?

The Lancet Planetary Health e alcune riviste di epidemiologia ambientale (European Journal of Epidemiology, Environmnetal Epidemiology), ma anche Epidemiologia &Prevenzione, la rivista degli epidemiologi italiani, e naturalmente Forward e Recenti Progressi in Medicina, sempre sulla mia scrivania!

Che tipo di informazione scientifica preferisce?

Mi piace navigare in rete, fare delle ricognizioni di materiale online, documentarmi sui siti internet di società scientifiche, enti, progetti internazionali.

Articoli brevi con molti rimandi esterni e ricca bibliografia?

Sì, se fatti bene penso siano molto utili.

Le rassegne narrative hanno ancora una loro utilità?

Penso di sì, per esempio le revisioni narrative sono uno strumento utile quando si tratta di temi ancora non consolidati, ma anche la “citizen science”, l’epidemiologia partecipata. Possono essere importanti per promuovere la comunicazione e la comprensione della ricerca da parte dei cittadini, aiutando a riconnettere scienza e società e stimolando la partecipazione pubblica alla ricerca scientifica.

Pensa sia corretto considerare le revisioni sistematiche il riferimento più affidabile per prendere decisioni di politica sanitaria?

Sicuramente sì, anche se revisioni sistematiche non sono sempre disponibili in tutti gli ambiti, per esempio in epidemiologia ambientale dove la maggior parte degli studi è di tipo osservazionale, le decisioni possono essere prese in assenza di revisioni sistematiche, supportate dalle migliori evidenze disponibili. In un mondo poi che cambia velocemente (per esempio a causa della crisi climatica) ci potremo trovare ancora, come nel caso della pandemia Covid-19, a dover prendere decisioni in situazioni di emergenza e in assenza di dati consolidati.

Come potrebbe cambiare in meglio la letteratura scientifica?

La peer review deve diventare rapida ed efficiente (spesso ci si imbatte in revisori incompetenti, i tempi della revisione a volte sono biblici). Dovrebbe essere possibile disporre di sintesi di letteratura aggiornate in tempo reale. Credo che l’intelligenza artificiale potrà dare una grande mano in questo.

Le capita ancora di sfogliare l’edizione cartacea di una rivista o consulta la letteratura solo su internet?

Sì, mi piace molto sfogliare la carta, per esempio le pagine di Forward (anche se le riviste stampate dal punto di vista ambientale, sono sempre meno sostenibili… lo so, sono noiosa!).

Legge articoli scientifici sullo smartphone?

Assolutamente sì.

La medicina basata sulle prove ritiene sia ancora attuale?

Certo! Non credo nella crisi dell’evidence-based medicine (Ebm), anzi la pandemia ha dimostrato quanto sia difficile prendere decisioni basate sull’opinione dell’esperto di turno. Da non medico la prima critica è che l’Ebm è ancora troppo poco applicata. In medicina non ci sono certezze assolute ma produzione di prove che a un certo punto sono ritenute sufficienti per prendere una decisione, che possono essere riviste in base all’acquisizione di nuove conoscenze. Certo, anche l’Ebm ha i suoi limiti quando si tratta di gestire la complessità della cura (per esempio nella multimorbilità) ed è un processo che si deve affinare, tenendo conto non solo dell’efficacia delle cure ma anche della condivisione delle scelte con il paziente che potrebbe avere una posizione diversa “non evidence-based” che deve essere comunque rispettata. Diversi filoni si stanno affinando in questo senso come la value-based health care, si sta affacciando una trasformazione degli elementi con cui formulare il giudizio sull’utilità delle cure che non sono alternativi ma complementari all’Ebm. C’è l’aspetto della sostenibilità delle cure, dei costi, via via che le cure diventano sempre più sofisticate e costose e “di precisione”, i criteri per le decisioni hanno componenti diverse, l’Ebm è una di queste, non la sola.

Cosa rende difficile che sia la base della didattica nelle facoltà di medicina?

Chi è un “esperto” in ambito politico-sanitario?

Una persona competente nel suo ambito, che si aggiorna ed è capace di interagire con persone esperte in altri settori, che sa dire “questo non lo so”. Molti sono i difetti che si incontrano fra chi insegna medicina o politica sanitaria. Gli aspetti più critici sono la capacità didattica, non basta essere esperti di un argomento per saperne trasmettere i contenuti ad altri, ritenere che non si abbia bisogno di aggiornamento fare sempre la stessa cosa per anni, perché costa poco sforzo, mentre le cose evolvono…

L’ambito della politica sanitaria è molto variegato e complesso: occorre conoscere l’organizzazione dei servizi sanitari e le normative, conoscenze di economia sanitaria, di management, di technology assessment, saper utilizzare la letteratura scientifica, sono necessari elementi di base biomedica e, ne sono molto convinta, di epidemiologia. Mi pare chiaro che non ci sono molti esperti con questo bagaglio culturale!

Ricordi, passioni e…

Parlando della vita fuori dal lavoro, può confessarci una sua “passione”?

L’arte, la moda, il design, sono affascinata dal bello, dal piacere estetico. Avrei voluto occuparmi di design. Mi divertirei molto a scrivere un trattato sull’evoluzione della società attraverso la moda. Il modo di vestire mi svela molto di chi ho di fronte. (Questa mia passione è una contraddizione lo so, e la sostenibilità ambientale dove la mettiamo?).

Qual è il suo romanzo preferito?

“Cent’anni di solitudine” di García Márquez.

Ha libri sul comodino?

Oltre a “Le notti della peste” di Orhan Pamuk che sto leggendo, i libri che ho ricevuto per Natale (“Shibumi” di Trevanian, “Racconti brevi e straordinari” di Borges e Casares, e “Enciclopedia Calcarea” di Zerocalcare).

Legge e-book?

Sì, quasi tutti i libri cartacei li acquisto anche in e-book e i gialli (che leggo soprattutto d’estate) solo in e-book.

Ricorda l’ultimo libro che ha regalato?

Quest’anno a natale ho regalato a diversi amici “Ricordi di montagne lontane” di Pamuk, un libro fantastico che è un diario di appunti, di splendidi disegni di paesaggi reali e onirici. (Ecco il mio rammarico, vorrei avere dei miei taccuini così).

Usa Whatsapp anche come mezzo per comunicazione di lavoro?

Preferisco la mail…ma ormai sì, perché lo fanno molti.

Quale ragione l’ha motivata a usare i social network come Facebook o Twitter?

Perché lo facevano tutti, per essere aggiornata, ma si usano ancora? Meglio Instagram o TikTok?

Se le piace andare al cinema o vederli in tv, qual è l’ultimo film che ha visto?

Mi piace molto andare al cinema, l’ultimo film che ho visto è “Perfect days” di Wim Wenders, un film bellissimo che oltre a esorcizzare l’incubo dei bagni pubblici (che diventano forme d’arte) trasmette grande serenità.

Se dovesse scegliere un romanzo e un film che un giovane ricercatore dovrebbe sicuramente conoscere, quali sarebbero?

Oddio, un “giovane ricercatore” davvero non so… Dovrebbe leggere “Lezioni americane” di Calvino (le sei parole chiave credo che valgano anche per la ricerca). Andare di più al cinema. Come film per un ricercatore mi viene in mente “Shutter Island” di Scorsese, ormai di una decina d’anni fa, perché entra nel mondo della malattia mentale in modo inquietante e fa riflettere sulla verità e l’apparenza, sulla soggettività delle percezioni, sulla manipolazione e sull’angoscia. Si pensa molto dopo averlo visto.

Qual è la città italiana dove va più volentieri?

Napoli.