Le ragioni del cuore


«Sarai un buon cardiologo
se saprai di malattie di cuore.
Potrai essere un cardiologo eccellente
se conoscerai i malati di cuore»
John Willis Hurst
Se interpellassimo gli autori di Questioni di cuore, il film diretto da Francesca Archibugi, liberamente tratto da un racconto di Umberto Contarello, usando la formula che lo spaesato coprotagonista (un convincente Antonio Albanese nel ruolo di soggettista cinematografico alla ricerca di ispirazione) reitera ansioso a se stesso ed agli altri: – «La domanda è questa: cosa ci dice la vostra storia?» –, le risposte sarebbero più di una. La prima ci direbbe che l’amicizia esiste ed aiuta a vivere (e perfino a morire); un’altra potrebbe dirci che, nella vita, ci sono tante cose che sfuggono alla logica; e, ancora, che i crack sentimentali vengono e vanno per l’imprevedibile combinarsi delle persone in imprevedibili circostanze; e infine, la più determinante, ci condurrebbe all’origine del film: e ci confermerebbe che il trauma della malattia può far sorgere virtù e forza di comunione ed affetto.




Accade, dunque, che una notte, in ospedale, due letti ospitino, fianco a fianco, Alberto ed Angelo, entrambi infartuati e in terapia intensiva dopo angioplastica coronarica. Il primo è un giovane carrozziere, “romano de Roma”, illetterato, naïf, famiglia numerosa e ditta avviata; il secondo, filmografo in crisi creativa e sessuale, intellettuale un po’ nevrotico che vanamente interroga la propria immaginazione. Tra loro, tra due biografie che non potrebbero essere più diverse, la malattia diviene il denominatore comune capace di livellare le differenze e nutrire, nelle lunghe giornate della degenza e della convalescenza, un’alleanza sempre più condivisa. Alla cui giustificazione narrativa e verosimiglianza biografica lo spettatore riesce a pervenire in virtù di una comune cognizione del dolore ed esperienza di solidarietà. Come avevano intuito, fin da due secoli or sono, la sensibilità romantica di un Novalis: «Lemalattie, specialmente le lunghe malattie, sono anni di apprendistato dell’arte della vita», ed il “volo ergo sum” di Maine de Biran: «I malati si sentono esistere». Là dove, invece, nella modernità, per lo sguardo medico la malattia è, troppo spesso, solo un decorso, un esito, quasi mai ha un senso, ed il corpo diventa mero organismo. Ed ecco, allora, che quando la rappresentazione individuale della patologia riesce a restituire l’ambivalenza simbolica disvelata dalla vulnerabilità che ci accomuna, essa sottolinea al contempo la differenza in più che qualifica uno sguardo che ascolta e che parla, rispetto ad uno sguardo che si limita ad osservare. «Presso i primitivi la malattia aveva un significato sociale e come tale era qualcosa che si poteva scambiare con il gruppo, in un ordine simbolico che faceva di ogni evento una relazione ricca di senso», ha scritto Umberto Galimberti nel suo catalogo delle idee. Ed il processo della guarigione «si svolgeva in uno spazio più ampio in cui tutto il gruppo prendeva parte alla cura, distribuendosi intorno al male, concepito non come una lesione organica che investe un individuo, ma come una rottura, uno squilibrio dello scambio sociale». Questo scarto tra corpo e organismo, questa riappropriazione di identità, libera da egoismi e pregiudizi, consapevolmente desiderosa e capace di integrazione con l’altro e con il gruppo, appare lodevolmente colta dal film della Archibugi, così come, peraltro, aveva fatto, a suo tempo, il racconto di Contarello (“Una questione di cuore”), quantunque da un’angolatura più intimistica (non a caso, forse, il film ha sottratto al titolo del libro l’articolo al singolare). Invero, la sottolineatura di un certo tipo di coralità (professionale, di quartiere, familistica) può aver fatto scontare a regia e sceneggiatura qualche cedimento di rigore stilistico, alcune concessioni al bozzetto: si vedano i cammei – a rischio di macchiettismo – degli attori che interpretano se stessi (Verdone, Sandrelli), quello del leguleo cavilloso, protettore della casta (Villaggio), così come un forse troppo accentuato minimalismo stracittadino; ma sono piccole incrinature di colore in un dipinto complessivamente di buona fattura ed ispirato da lodevoli intenti, trasmessi da interpreti coinvolgenti (oltre al già citato Albanese, la rivelazione Ramazzotti e un Rossi-Stuart intensamente espressivo sia nella sorridente bonomia vernacolare che nell’angoscia della sofferenza).

Cecilia Bruno