Insonnia: attuali conoscenze


È noto che circa il 30 % degli adulti riferisce sintomi di insonnia e che dal 6 al 10% soddisfa i criteri di diagnosi di “disturbo da insonnia” (Morin CM, Le Blanc M, Daley M, et al. Epidemiology of insomnia: prevalence, self-help treatments, consultations and determinants of help-seeking behaviors. Sleep Medicine 2006; 7: 123) e che all’insonnia  sono stati associati molti fattori demografici come sesso femminile, età avanzata e condizioni psicologiche, come ansia e depressione, e medici, come varie sindromi dolorose. Inoltre l’insonnia è ritenuta una causa di inabilità, assenteismo dal lavoro, rischio di ipertensione e di depressione. Gli studi su questo argomento hanno indicato che l’insonnia può essere una condizione persistente e che la sua persistenza o cronicità si associa spesso a condizioni patologiche, mediche o psichiatriche ( National Institutes of Health. National Institutes of Health State of the Science Conference Statement: manifestations and management of chronic insomnia in adults. Sleep 2005; 28: 1049).
In un recente studio longitudinale condotto per tre anni su un gruppo di 388 adulti (61% donne) di 44,8 anni di età media, selezionati su una popolazione in base alla presenza di insonnia, è stata esaminata la storia naturale di questa condizione e delle sue principali caratteristiche (Morin CM, Belanger L, Le Blanc M, et al. The natural history of insomnia. A population-based 3-years longitudinal study. Arch Intern Med 2009; 169: 447).



Gli autori riconoscono, in accordo con precedenti studi, la difficoltà di interpretare i dati raccolti a motivo delle differenti definizioni dell’insonnia e anche della diversa durata dei periodi di osservazione. Ad esempio, quando viene riferita un’insonnia persistente per molti anni, non appare sempre chiaro se il disturbo è continuamente persistito oppure vi sono state delle remissioni più o meno prolungate. Secondo gli autori rimane tuttora poco chiaro fino a che punto l’insonnia rappresenta una condizione cronica oppure un episodio transitorio ricorrente. Ciò rende necessario stabilire un trattamento e una prognosi, tenendo presenti le attuali conoscenze che indicano una significativa morbilità medica e psichiatrica dell’insonnia.
Gli autori distinguono due aspetti dell’insonnia: la “sindrome insonnia” e “il sintomo insonnia”. Nel loro studio i soggetti con “ sindrome insonnia” soddisfano tutti i criteri diagnostici dell’insonnia; sono “insoddisfatti” o “molto insoddisfatti” per il loro disturbo e presentano sintomi di insonnia precoce, media o tardiva almeno tre notti alla settimana per almeno un mese. Presentano inoltre una perturbazione della vita quotidiana (che la letteratura medica di lingua inglese indica con il termine “distress”) correlata alla difficoltà del sonno. Questi soggetti usano farmaci, prescritti, che promuovono o facilitano il sonno, almeno tre notti alla settimana. Gli autori avvertono, a questo proposito, che l’uso di farmaci per l’insonnia può mascherarne i sintomi; per questo motivo gli autori hanno cercato di documentare la storia naturale dell’insonnia, sia trattata che non trattata.
I soggetti con “insonnia sintomo” hanno presentato insonnia iniziale, media o tardiva almeno tre notti alla settimana, senza peraltro soddisfare tutti i criteri diagnostici di “sindrome insonnia” e cioè non hanno segnalato perturbamenti conseguenti alla mancanza di sonno. In questo gruppo sono rientrati i soggetti che hanno fatto uso di farmaci prescritti o di banco almeno una notte a settimana.
In questo studio longitudinale gli autori hanno osservato che l’insonnia è spesso una condizione persistente, specialmente nelle sue forme più gravi. Il corso dell’insonnia può fluttuare nel tempo, con remissioni e ricadute, pur mantenendo un carattere persistente. Nella casistica degli autori circa la metà (46%) dei soggetti ha avuto un’insonnia persistente durante tutto il corso dei tre anni di studio e nel 74% dei casi l’insonnia è persistita almeno un anno. Secondo l’esperienza degli autori una “sindrome insonnia” è probabilmente persistente e indica che un’iniziale gravità ha significato prognostico di una condizione patologica prolungata. Questi rilievi consigliano di iniziare precocemente il trattamento, senza aspettare che l’insonnia regredisca spontaneamente, tenendo presente che un’insonnia non trattata comporta un decorso prolungato con negativi effetti sulle condizioni generali. Gli autori hanno rilevato che i più gravi disturbi del sonno possono preannunciare la comparsa di un’insonnia cronica, mentre i soggetti con sintomatologia più lieve vanno più spesso incontro a remissioni che non a recrudescenze. In questo studio è stato constatato che a una maggiore frequenza di remissioni fa riscontro un decorso complessivamente più favorevole, mentre la persistenza dei sintomi rappresenta la più frequente manifestazione a lungo termine dell’insonnia, sebbene, in realtà, permane difficile stabilire se un soggetto avrà una remissione o svilupperà una sindrome da insonnia completa. In queste situazioni gli autori ritengono necessari ripetuti controlli e la ricerca di fattori con valore predittivo del futuro decorso. Nella casistica degli autori la persistenza sia dell’insonnia sintomo che della sindrome insonnia ha rappresentato la caratteristica più frequente del decorso dell’insonnia (rispettivamente nel 21,2% e nel 29,7% dei casi). Gli autori sottolineano, in proposito, che anche nei soggetti che presentano remissioni è stata osservata una significativa percentuale di ricorrenze e ritengono che debba essere valutata l’importanza dei vari fattori di rischio che promuovono questi aspetti dell’insonnia; al momento attuale, secondo gli autori, è giustificato ammettere l’intervento di eventi medici e/o psicologici nello sviluppo di questi quadri clinici.
L’endocardite infettiva, oggi
Nonostante i progressi nella diagnostica e nella terapia medica e chirurgica, la mortalità ospedaliera per endocardite infettiva (EI) si colloca ancora tra il 15 e il 20%. Uno studio prospettico su questa malattia è stato condotto da un gruppo internazionale su 2781 adulti con EI accertata, ricoverati in 58 ospedali di 25 paesi dal 1 giugno 2000 al 1 settembre 2005, al fine di valutare le attuali caratteristiche di presentazione clinica, l’etiologia microbica e gli esiti di questa malattia. ( Murdoch DR, Corey GR, Hoen B, et al, for the International Collaboration on Endocarditis - Prospective Cohort Study (ICE-PCS) Investigators. Clinical presentation, etiology and outcome of infective endocarditis in the 21st century. Arch Intern Med 2009; 169: 463).




Gli autori hanno adottato le seguenti definizioni delle varie forme di EI: 1) EI acquisita in comunità, EI diagnosticata all’ammissione in ospedale o entro 48 ore in un paziente che non soddisfa i criteri per la diagnosi di EI associata a strutture servizi sanitari; 2) EI associata a strutture o servizi sanitari; può essere nosocomiale se si sviluppa in un paziente ricoverato in ospedale per più di 48 ore prima dell’inizio del quadro clinico di EI, non-nosocomiale se l’EI è diagnosticata in un paziente “esterno” entro 48 ore dal contatto con strutture sanitarie e che abbia comportato terapia endovenosa, trattamento di ferite, dialisi, chemioterapia endovenosa, ricovero in reparto di emergenza per almeno due giorni 90 giorni prima dell’inizio della EI, residenza in un reparto di lunga degenza.
Da questa analisi gli autori hanno tratto le seguenti conclusioni.
L’EI, dopo oltre un secolo di studi e di progressi nella diagnosi e nella terapia, permane una malattia con elevate morbilità e mortilità e, in realtà, ancora poco conosciuta, probabilmente per la difficoltà di definire le sue varie forme cliniche. Si sottolinea che a tutt’oggi le descrizioni cliniche che dell’EI danno i testi sono largamente basate su dati stabiliti molti decenni addietro.
L’EI non può più essere considerata una malattia subacuta o cronica che colpisce primariamente soggetti giovani con valvulopatie reumatiche. Gli autori citano, ad esempio, i noduli di Osler che sono stati riscontrati dall’11 al 20% dei casi e la splenomegalia che è stata osservata dal 20 a 44% dei casi. Secondo l’esperienza degli autori sono frequenti condizioni valvolari, ma queste sono essenzialmente dovute a lesioni degenerative o a protesi valvolari anziché a malattia reumatica.
Una aumentata frequenza (25%) è stata rilevata nelle EI dovute a esposizione del paziente correlata a strutture di assistenza, come del resto recentemente segnalato in osservazioni isolate.

Una osservazione importante riguarda le prevalenti caratteristiche microbiologiche che hanno indicato che la causa più frequente di EI è data da Staphylococcus aureus; ciò in parte è dovuto al fattore di rischio rappresentato dalla crescente frequenza delle procedure invasive e dalla diffusione della droga per via venosa. Un fenomeno che desta preoccupazione è la comparsa di resistenza di S. aureus alla vancomicina.
Gli autori hanno inoltre osservato un più elevata prevalenza di EI associata a infezione da S. bovis, più frequente in Europa, e da febbre Q e Bartonella e da agenti del gruppo HACEK (Haemophilus spp., Aggregatibacter (già Actinobacillus) actinomyceticomitans, Cardiobacter hominis, Eikenella corrodens e Kingella spp.). Queste modificazioni nell’etiologia dell’EI hanno importanti implicazioni nella diagnosi e nella terapia e hanno portato all’identificazione di nuovi gruppi a rischio che rendono necessaria una particolare attenzione in presenza di febbre e di batteriemia, senza contare che la presentazione “acuta”, che, come detto, ha attualmente assunto l’EI, impone una precoce diagnosi e una rapida decisione terapeutica in pazienti che si trovano in una situazione di rischio di complicanze e anche di obitus.

Gli autori hanno identificato molti fattori che sono associati, indipendentemente uno dall’altro, a mortalità intraospedaliera per EI. Essi sono l’età avanzata, la presenza di edema polmonare e le complicanze paravalvolari; inoltre sono risultate frequenti le EI stafilococciche e quelle su protesi valvolari comportanti entrambe un rischio di obitus. Per contro sono risultate diminuite le EI da streptococchi viridanti. Un fenomeno non chiarito è quello dell’associazione di un minore rischio di mortalità nei pazienti con aumento della velocità di eritrosedimentazione associato a prolungato decorso della malattia. Gli autori hanno osservato che un precoce intervento chirurgico può migliorare la sopravvivenza dei pazienti in accordo con quanto recentemente segnalato, specialmente quando sono presenti insufficienza cardiaca e infezione di protesi valvolari ( Bishara J, Leibovici L, Gartman-Israel D, et al. Long-term outcome of infective endocarditis: the impact of early surgical intervention. Clin Infect Dis 2001; 33: 1636).
Le riacutizzazioni
nella broncopneumopatia cronica ostruttiva
Il decorso della broncopneumopatia cronica ostruttiva (COPD, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “chronic obstructive pulmonary disease”) è caratterizzato da frequenti riacutizzazioni che contribuiscono gravemente a determinare il progressivo declino della funzione polmonare e sono responsabili della morbilità e della mortalità della malattia. Pertanto il trattamento preventivo delle riacutizzazioni ha grande importanza nel controllo di questi pazienti. Recenti studi osservazionali hanno indicato che il rischio di una seconda riacutizzazione è più elevato nel periodo immediatamente seguente a una iniziale riacutizzazione ed è stato segnalato che oltre il 30% dei pazienti ricoverati in ospedale per una riacutizzazione sono di nuovo ricoverati entro tre mesi per una riacutizzazione successiva.




In uno studio clinico condotto su 297 pazienti con COPD ricoverati in ospedale per una prima riacutizzazione della malattia è stata osservata l’alta frequenza di un secondo episodio e che le riacutizzazioni non compaiono “a caso”, ma tendono a raggrupparsi in un determinato periodo di tempo, relativamente breve (Hurst JR, Donaldson GC, Quint JK, et al. Temporal clustering of exacerbations in chronic obstructive pulmonary disease. Am J Respir Crit Care Med 2009; 179: 369).
Gli autori hanno osservato che le riacutizzazioni della COPD si raggruppano spesso in un periodo di tempo di elevato rischio di questi episodi di 8 settimane dopo l’episodio iniziale; questo comportamento è stato osservato nel 27% circa dei pazienti con una riacutizzazione iniziale, nonostante la completa regressione di questa. Secondo gli autori questa osservazione obbliga a controllare strettamente questi pazienti, indipendentemente dalla frequenza delle riacutizzazioni.



Gli autori ricordano che molte riacutizzazioni della COPD sono causate da infezioni tracheobronchiali; pur tuttavia la patogenesi di questi episodi non è tuttora chiarita e non si conosce se essi sono dovuti alla persistenza di un microrganismo già presente oppure alla acquisizione di un altro microrganismo. L’insuccesso di eradicare batteri durante questi episodi è stato associato a incompleto ripristino di un quadro normale dei marcatori dell’infiammazione, come la proteina C-reattiva(CRP) (Perera WR, Hurst JR, Wilkinson TM, et al. Inflammatory changes, recovery and recurrence at COPD exacerbations. Eur Respir J 2007; 29: 527). A questo riguardo gli autori rilevano che i corticosteroidi possono accelerare il miglioramento della funzione polmonare, valutata mediante il VEMS (volume espiratorio massimo al primo secondo o FEV1: “forced expiratory volume in 1 second”), ma non consentono di controllare l’infiammazione e ciò rappresenta un rischio di ricorrenti riacutizzazioni.