Emergenza e piccoli miracoli al pronto soccorso

Vittorio Fontana1

1Medico geriatra, Ospedale Bassini, Cinisello Balsamo (Milano).

Mi giro e rigiro nel letto, non riesco a dormire.

Mi succede ancora dopo tutti questi anni, mi succede dopo un turno di quelli dove sembra che ti abbiano messo in una centrifuga senza le attenzioni per i capi delicati.

Mi addormento pochi minuti e sogno di essere sempre lì, che il flusso dei pazienti mi travolga come un fiume, tentare di nuotare contro corrente è del tutto inutile, allora mi lascio andare, sto sul dorso e respiro.

Mi sveglio di scatto solo il tempo di realizzare di essere nel mio letto e sono di nuovo lì, nell’ambulatorio del pronto soccorso a visitare Carla, la solita signora anziana.

Saranno migliaia le signore anziane che sono passate sotto il mio sguardo, le mie mani, il mio stetoscopio. Tutte uguali tra loro tanto da far fatica a distinguerle le une dalle altre.

Alle volte penso che se dovessimo restituire ai familiari un’altra persona forse non se ne accorgerebbe nessuno.

Allora guardo il soffitto e mi metto a immaginare una storia in cui un’anziana signora finita in Pronto Soccorso viene restituita alla famiglia sbagliata che all’inizio nemmeno se ne accorge ma poi si affeziona e la tiene con sé, come quei film in cui i neonati vengono scambiati in culla con conseguenze imprevedibili e inaspettate. Un soggetto per un film, una sceneggiatura.

Mi addormento di nuovo e compare mia mamma che scuote la testa e mi guarda dubbiosa: “che razza di storia è?” Ha quasi novant’anni è pelle e ossa, stanca, adagiata sul divano, con i cuscini dietro la schiena per la cifosi, d’improvviso prende la mia mano e se la porta al viso per una carezza che non le dò da troppo tempo, si abbandona così, sulla mia mano, e alla sprovvista butta lì: “ma tu mi vuoi bene?”

Una domanda che mi perfora da parte a parte, vedo la luce illuminare la parete dietro di me come un faretto in un teatro. Ora siamo ombre cinesi proiettate sul muro, io e lei, reali o immaginari, vivi o quasi vivi, morti o quasi morti. Siamo tutte le possibilità insieme nello stesso istante, come nel multiverso. Siamo presente, passato, futuro, mischiati insieme nel mio dormiveglia.

Non so nemmeno se sono il regista o l’attore in questo film muto in bianco e nero. Il nostro silenzio sembra durare tantissimo, ci potrebbero stare tutte le nostre vite e quelle degli altri, anche quelli che ci hanno solo sfiorato nel tempo che abbiamo vissuto contemporaneamente io e lei, lei che esisteva molto prima che io ci fossi. Tempo e spazio si dilatano a dismisura nella mia mente addormentata. “Allora, dottore, le dicevo”, una voce mi riporta alla realtà, Carla sta lì sul lettino e mi sorride, il lungo filo del saturimetro attaccato al dito indice, ha un po’ d’affanno da qualche giorno e un fastidio proprio lì tra il torace e l’addome e appoggia la mano per farmi capire. In epigastrio mi dico tra me, ma è solo un riflesso condizionato. Dividere l’addome in quadranti è una delle prime cose che si impara. Come i focolai di auscultazione delle valvole cardiache. Sono mappe che servono ad orientarci, disegnate sul corpo dei pazienti e sul nostro quando toccherà a noi. Fin qui tutto facile o quasi, perché le mappe sono solo semplificazioni del mondo ma quando lo percorri come un viandante ti accorgi di tutto quello che rimane fuori. Mentre sto lì a filosofeggiare, il suono del saturimetro si fa veloce e irregolare, alzo lo sguardo e faccio giusto in tempo a vedere gli occhi di Carla che perdono luce e si rivoltano verso l’alto, la sua anima è trascinata via, se ne sta andando e io non le ho ancora chiesto niente, non so nulla di lei, né lei di me. Quello che segue è giusto procedura, protocollo, rianimazione cardiopolmonare, defibrillazione fino a che non torna con noi come se nulla fosse.

“Buongiorno!”, saluta con la mano come se ci vedessimo adesso per la prima volta.

Se fosse un vagito sarebbe una nascita e saremmo qui a festeggiare insieme al padre disteso a terra per l’emozione. Non è stata una brutta notte. Carla è tornata tra noi per un altro giro insieme, non sa quanto si fermerà, ma chi lo sa davvero? e che importa?

Spingo il viso sulla mano e mi godo l’ultima carezza.