Dalla letteratura




- Le parole dell’innovazione in sanità

Roma, 14 maggio 2024, Centro congressi Roma Eventi

Le pagine del numero estivo della rubrica “Dalla letteratura” di Recenti Progressi in Medicina sono dedicate, come ogni anno, a un rapido resoconto degli interventi dei relatori che, da punti di vista diversi, hanno approfondito il significato e le parole chiave discusse alla settima riunione annuale “4words - Le parole dell’innovazione in sanità”. Gli argomenti dell’edizione del 2024 (4words24) sono stati: esiti, confini, influencer, ChatGPT. Ci auguriamo così di tenere aperto il confronto e sollecitare fra i lettori la discussione sulla sanità che sta cambiando. www.forward.recentiprogressi.it




INTRODUZIONE

Silva Bon
Guarigione, una parola vivente

Eugenio Borgna – grande psichiatra italiano del Novecento – in uno dei suoi scritti definisce le parole, quelle più importanti, come “creature viventi”. La parola “guarigione” – su cui qui mi soffermo – è una creatura vivente, perché “vive” nel tempo, “trasformandosi” nel suo valore semantico, soprattutto se viene usata nel variegato mondo della psichiatria/delle psichiatrie.

In questo ambito, la parola “guarigione” era una parola fino a qualche tempo fa assolutamente non pronunciata, né – tanto meno – pronunciabile. Era una parola esclusa dal vocabolario medico. Addirittura una parola inconcepibile nella sua stessa possibilità propositiva, proattiva.




Piuttosto, la diagnosi di malattia mentale era una forma di condanna a vita implicita; anche quando non detta chiaramente, una condanna totale e inderogabile. Che partiva dal medico stesso, gettata contro le persone sofferenti di una sofferenza mentale, di una malattia considerata e ritenuta irreversibile e irrecuperabile. Una diagnosi spaventevole. Portava dolore, sconforto, paura. Non solo nelle persone categorizzate come matte, come pericolose. Ma una diagnosi che – a cascata – si riverberava sulla sensibilità dei loro familiari. E portava a conseguenze di rifiuto, di emarginazione, di esclusione dal contesto sociale. Una diagnosi che colpiva come uno stigma negativo. Punitivo e assoluto.

La parola “guarigione” entra nel vocabolario psichiatrico molto di recente, come parola consapevolmente eversiva – e pertanto combattuta e/o negata come irreale. Sono i principi rivoluzionari del pensiero “operativo” di Franco Basaglia, di Franca Ongaro Basaglia e dell’équipe di giovani psichiatri che lavorano con lui a partire dagli anni Sessanta del Novecento, a far nascere nelle persone sofferenti la speranza; a far intravvedere la possibilità di “vivere la parola guarigione”.

Come “testimone di crimini di pace”, come “sopravvissuta”, credo non solo che la parola “guarigione” esiste, ma anzi, che essa deve costituire, per le persone, un obiettivo da raggiungere. Sono stata presa in carico dagli operatori del Dipartimento di salute mentale di Trieste per un lungo periodo di tempo, fin dal 1990, ben più di trent’anni. Oggi credo di poter affermare che una qualche forma di possibile guarigione l’ho raggiunta. Penso che la guarigione è possibile quando le persone che stanno male “decidono” di star meglio, si impegnano, lavorano su sé stesse per superare i momenti più drammatici della sofferenza psichica. Tutto ciò avviene sulla base di una sorta di “contratto terapeutico”, non scritto, ma messo in atto dal/con il medico curante, in una relazione di fiducia proattiva, assolutamente necessaria: gli operatori responsabili possono agire in senso molto concreto, step by step, partendo anche da piccolissime azioni, anche quelle che a volte sembrano lontane da prescrizioni medicali puntuali.

Penso, sorridendo, che dare un pettine a una donna spettinata; dare un maglione buono, lindo e pulito, senza strappi e senza macchie, a un giovane uomo ricoverato… possono costituire momenti migliorativi, microrealtà da cui partire. L’ho visto fare. È toccato anche a me. Un giorno in cui stavo molto male sono andata spontaneamente e autonomamente al Centro di salute mentale di Barcola: ferma sulla soglia ero sul punto di svenire, sfinita dalla sofferenza; l’infermiere dell’accoglienza ha capito senza che io pronunciassi parola; mi ha subito dato un bicchiere d’acqua fresca (!); sono riuscita a stare in piedi; forse stavo un po’ meglio. Eppure ricordo ancora con gratitudine il gesto di quel giovane infermiere.

In tanti anni di frequentazione del Centro ho visto molte persone, che da momenti di estrema sofferenza, di estrema solitudine interiore, si sono aperte verso una possibile sociabilità. Ricordo i loro volti contratti e poi ricordo i loro volti aperti al sorriso. Ho condiviso con tutti loro le possibilità, le opportunità, che sono state costruite, messe in campo, e offerte alla comunità di ricoverati e/o di afferenti ai servizi, di crescere, di costruire salute. Anche partecipare coralmente a gruppi di lavoro seminariali è stata un’esperienza molto positiva. Nessuno metteva in dubbio che “i matti” non riuscissero a capire un discorso di alto spessore scientifico, ad esempio riguardante le nuove teorie e pratiche psichiatriche che si stavano sviluppando in Italia e all’estero!

Siccome la follia non è uguale per tutti – “ognuno è matto a modo suo” – di conseguenza ognuno reagisce in maniera diversa alle possibilità, agli stimoli, alle occasioni che gli sono date per conseguire forme di salute e di vita migliori. E per raggiungere forme di benessere psico-fisico più accettabili e sostenibili rispetto alle esperienze precedenti: quasi esperienze di partenza che motivano un percorso di recovery, di recupero, non sempre facile, ma certamente auspicato. Bisogna avere coraggio; non demoralizzarsi mai; riuscire a cogliere i piccoli traguardi, riconoscerli e in qualche modo accoglierli con positività. E anche riuscire a capire i propri bisogni, individuare le cose che fanno star bene e lavorare per rispondere alle proprie domande di necessità vitale, interiori e materiali. Personalmente, nonostante mi senta ancora invasa da momenti di grande sofferenza, penso, come ho detto, di essere “guarita”. In tutti questi anni ho proceduto poco per volta: a volte come i gamberi, un passo avanti, due passi indietro… Ma, del resto, la “guarigione”, intesa come conseguimento di salute mentale, non è un fatto assoluto: non si può prescindere dalla salute, non si può prescindere dalla malattia.

Oggi, in questi tempi così difficili, tempi di guerra, tempi in cui imperversano discorsi d’odio, mi sembra prioritario mettere al centro il bene-essere delle persone: lottare contro violenze, emarginazioni, che trasformano le persone malate, non compiutamente performative e competitive in “scarti” (!). “Scarti”: così sono state chiamate le persone più fragili. In realtà cosificate, sottoposte a contenzione meccanica e farmacologica, a pratiche di elettroshock, non protocolli riabilitativi, ma vere e proprie torture punitive…

Tornando alle “parole viventi” di Eugenio Borgna, è, invece, alla parola “speranza” che bisogna dar voce. Per avviare ogni possibile forma/processo di “guarigione”.

Silva Bon

Storica contemporaneista




ESITI

Karsten Juhl Jørgensen
Esiti degli interventi sanitari

«Mi è stato chiesto di parlare di come condividere con i cittadini l’incertezza sui risultati sanitari. Ho sottolineato i cittadini perché, quando si parla di grandi interventi di prevenzione sanitaria, si tende a confondere i pazienti con i cittadini e a dimenticare che quelli che invitiamo per esempio ai programmi di screening non sono in realtà nostri pazienti. Fanno parte della società. Sono cittadini», esordisce così Karsten Juhl Jørgensen (Department of Clinical research della Københavns Universitet). Una premessa doverosa sul tipo di comunicazione necessaria in questo contesto, una riaffermazione del fatto che tutti, ma soprattutto la cittadinanza, hanno il diritto di essere informati sia sui benefici sia sui danni degli interventi per essere messi in condizione di prendere decisioni informate.

Jørgensen a questo proposito cita, come esempio, uno studio pubblicato pochi mesi prima su un grande intervento di salute pubblica, l’Nhs health check. Di fatto si tratta di un programma che prevede un consulto di 15 minuti in cui vengono prelevati alcuni campioni di sangue, misurata la pressione sanguigna e, al termine, si svolge un breve colloquio sui fattori dello stile di vita. Dallo studio è emerso un risultato sorprendente, prosegue Jørgensen, cioè che in un periodo di follow-up a nove anni si è verificata una riduzione del 23% della probabilità di morte grazie all’intervento. Un effetto così sorprendente da portare le autorità sanitarie del Regno Unito a incoraggiare con forza i cittadini a partecipare al consulto. In realtà, commenta Jørgensen, ci sono 15 studi randomizzati sull’intervento, ma nessuno di questi né i loro risultati sono stati menzionati nel documento, nella copertura mediatica o nel comunicato stampa. Si tratta quindi, spiega Jørgensen, di una situazione in cui grandi programmi di salute pubblica si basano sostanzialmente su studi osservazionali, mentre le prove di efficacia degli studi randomizzati vengono ignorate.

L’altro lato della questione è il problema rappresentato dalla difficoltà da parte dei politici di tornare indietro sulle decisioni prese, in particolare dopo aver promesso all’elettorato l’introduzione di una misura prospettata come particolarmente efficace. «Ma, proprio perché è particolarmente difficile tornare indietro sulle proprie decisioni, bisognerebbe considerare molto attentamente i pro e i contro prima di introdurre questo tipo di interventi», è il laconico commento di Jørgensen.

C’è un altro esempio, piuttosto simile al primo, che mette in particolare evidenza il ruolo della comunicazione, questa volta anche da parte dei media. Uno studio caso-controllo, sempre dal Regno Unito, sostiene che lo screening mammografico riduca il rischio di morte per cancro al seno del 38%. In realtà, commenta Jørgensen, nelle donne di età superiore ai 65 anni il risultato è stato del 50%, che si riferisce però al rischio di morire non solo per il cancro al seno, ma per qualsiasi causa. Eppure, di questo “particolare” non si fa menzione nei mezzi di informazione più popolari, che sono però le fonti di una buona parte dell’opinione pubblica e non si può non tenerne conto. Su queste basi non è poi così sorprendente che le persone abbiano aspettative esagerate su questo tipo di interventi e non li mettano realmente in discussione.

Jørgensen passa poi in rassegna una revisione dello screening del tumore al seno, pubblicata poco più di dieci anni fa da Michael Marmot, anche lui relatore all’evento. Un documento che riassume le varie revisioni sistematiche sul tema, giunte a una conclusione molto simile sull’entità del beneficio dello screening: una riduzione circa del 20%. In realtà, guardando più da vicino e più attentamente i risultati, emerge una notevole eterogeneità. È importante tenerla presente perché è un’indicazione di incertezza: in sostanza, non siamo certi degli effetti dello screening mammografico per una serie di motivi. A cominciare dalla sovradiagnosi. «Per ogni diagnosi di cancro al seno, ci sono circa tre casi di sovradiagnosi identificati e trattati», in donne quindi che non avrebbero mai scoperto di soffrirne nel corso della vita. Nonostante le incertezze intorno alle stime, per usare di nuovo le parole di Marmot, emerge quindi una «falsa impressione di accuratezza». Infine, Jørgensen si sofferma su un altro aspetto centrale della revisione, cioè che «la comunicazione chiara di questi danni e benefici alle donne è della massima importanza e va al cuore di come l’assistenza sanitaria moderna e i sistemi sanitari moderni dovrebbero funzionare». Negli ospedali, secondo Jørgensen, «siamo diventati molto più bravi a fornire informazioni sui benefici e sui danni degli interventi, permettendo alle nostre pazienti di fare una scelta informata», ma questa politica non si è estesa alle campagne pubbliche sugli interventi di prevenzione.

Jørgensen cita una ricerca di Steven Woloshin in cui sono analizzati i sentimenti dei cittadini nei confronti dello screening. E il quadro è che, se anche un programma di screening non fornisce loro alcun beneficio, le persone parteciperebbero comunque. E questo è probabilmente il risultato del modo in cui è stata comunicata l’importanza dei programmi, si rifiuta l’idea che lo screening del cancro non sia vantaggioso (anche se dalla ricerca è emerso che molti di questi screening non portano benefici ed è per questo che non vengono usati). L’obiettivo delle campagne non dovrebbe essere quello di far partecipare le persone, sostiene Jørgensen. Dovrebbe invece essere quello di far sì che le persone facciano scelte informate e in accordo con i loro valori. E, secondo lui, le “aspettative esagerate” nei confronti di questo tipo di interventi di salute pubblica sono da attribuire in particolare alle campagne. Il motivo è riassumibile nell’evidente conflitto tra i requisiti legati al rispetto delle persone e al garantire una scelta informata, e gli obiettivi delle campagne di aumentare l’adesione, prerequisito necessario perché i programmi di screening funzionino e siano considerati di successo. Ma le autorità devono comunicare l’incertezza. «Una cosa che abbiamo imparato dalla pandemia è che le istituzioni non perdono autorità esprimendo incertezza», riflette Jørgensen. In sostanza alle persone andava bene che le autorità dicessero: «Siamo in una situazione nuova. Non siamo sicuri di cosa sia meglio fare. Pensiamo che questo sia il modo migliore di procedere. Ma c’è incertezza». Al contrario, quello che ha davvero ridimensionato la loro credibilità è stato quando sono state fatte affermazioni forti ma le prove erano deboli e potevano successivamente dimostrarsi sbagliate. «Sono anche preoccupato che la forte attenzione a questi interventi orientati sull’individuo oscuri la nostra attenzione su ciò che è veramente importante, ovvero il cambiamento politico per migliorare le condizioni di vita di chi nella nostra società è socialmente svantaggiato, perché finirà col ridurre i problemi di quei gruppi, producendo un beneficio su una scala completamente diversa da quello che può fornire qualsiasi programma di screening», conclude Jørgensen.

Per approfondire

Jørgensen KJ, Gøtzsche PC. Content of invitations for publicly funded screening mammography. BMJ 2006; 332: 538-41.

Schwartz LM, Woloshin S, Fowler FJ Jr, Welch HG. Enthusiasm for cancer screening in the United States. JAMA 2004; 291: 71-8.

Woloshin S, Jørgensen KJ, Hwang S, Welch HG. The new USPSTF mammography recommendations – A dissenting view. N Engl J Med 2023; 389: 1061-4.

A cura di Alessio Malta

Il Pensiero Scientifico Editore




Sarah Gelcich
Patient reported outcomes

Patient reported outcomes (Pros), perché monitorarli in tempo reale? Quali sarebbero le ricadute sulla gestione dei pazienti e sull’outcome clinico? Se lo è chiesto Sarah Gelcich durante la prima sessione del meeting 4words24. Gelcich, che guida il Patient centered outcomes research group del Leeds institute of medical research at St James’s university hospital della città britannica, ha innanzitutto invitato i presenti a riflettere sulle implicazioni del miglioramento della diagnostica e della clinica in oncologia: il numero di pazienti oncologici in trattamento anche per molti anni è sensibilmente aumentato. Una buona notizia, che però paradossalmente ha anche qualche zona d’ombra. I tumori, infatti, restano la seconda causa di morte dopo le patologie cardiovascolari, quindi comprensibilmente inducono paura e preoccupazione nei sopravviventi e nei loro caregiver. I pazienti oncologici vivono per anni in condizione di malattia e questo ha profondi effetti a livello psicosociale e anche pratico.

In che modo dunque i Pros possono supportare i pazienti e i clinici che li hanno in carica in questo percorso terapeutico? I Pros possono servire a individuare e monitorare problematiche fisiche e psicologiche, aiutare la comunicazione medico-paziente, fare in modo che lo staff clinico abbia maggiore contezza della condizione del paziente nel tempo, facilitare il coinvolgimento del paziente nel processo decisionale, impattare positivamente sulla sua qualità di vita e – numerosi studi lo affermano – aumentare la sopravvivenza. Ha spiegato Gelcich: «La misurazione di routine dei sintomi e delle funzionalità in oncologia è sempre più diffusa. Succede già. Le persone vengono già monitorate per quanto riguarda i loro sintomi. Ma la novità che vorremmo introdurre, nello specifico, è una modalità di misurazione sistematica che permetta di raccogliere i dati e successivamente analizzarli in modo da avere un quadro più solido. Nel nostro ospedale a Leeds, come praticamente dappertutto, operiamo una misurazione di routine dei sintomi, più che altro in occasione di un appuntamento o quando si fa la chemio o quando il paziente chiama perché ha un sintomo, quindi non è un processo standardizzato».

È qui che gli eProms, ovvero gli strumenti elettronici di analisi dei Pros, possono essere d’aiuto. «Un colloquio tra medico e paziente serve a raccogliere informazioni. Si chiede ai pazienti come si sentono e si fa una sorta di diagnosi. Ma questo strumento non è progettato per monitorare, modificare o valutare i risultati. Implementare un sistema di eProms sarebbe utile, perché fornirebbe informazioni quantitative sui sintomi e sulle funzionalità del paziente». Gelcich ha poi illustrato brevemente i risultati dello studio eRAPID, pubblicato sul Journal of Clinical Oncology1. eRAPID è un sistema web-based che consente ai pazienti di autosegnalare da casa i sintomi e gli eventi avversi delle terapie antitumorali, che diventano accessibili tramite le cartelle cliniche elettroniche per l’utilizzo nella pratica clinica. Il monitoraggio in tempo reale con eRAPID ha migliorato il benessere fisico (6 e 12 settimane) e l’autosufficienza (18 settimane) in una popolazione di pazienti oncologici in chemioterapia, senza aumentare il carico di lavoro dell’ospedale.

«Permangono diversi problemi pratici da risolvere per rendere questi sistemi di monitoraggio più comodi, efficaci e affidabili, ma si tratta di strumenti preziosi che possono realmente rendere migliore il lavoro dei clinici e il percorso terapeutico dei pazienti», ha concluso Gelcich.

A cura di David Frati

Il Pensiero Scientifico Editore

Bibliografia

2. Absolom K, Warrington L, Hudson E, et al. Phase III randomized controlled trial of eRAPID: eHealth intervention during chemotherapy. J Clin Oncol 2021; 39: 734-47.

Per approfondire

Denis F, Lethrosne C, Pourel N, et al. Randomized trial comparing a web-mediated follow-up with routine surveillance in lung cancer patients. J Natl Cancer Inst 2017; 109(9).




CONFINI

Pirous Fateh-Moghadam
Confini e conflitti

Sulle note di “Games without frontiers” di Peter Gabriel, Fateh-Moghadam (Dipartimento per la prevenzione, Apss della Provincia autonoma di Trento) apre il suo intervento mettendo subito in chiaro che, sebbene la motivazione ufficiale di ogni guerra sia quella di ristabilire confini o sicurezza, una volta dichiarata, nessuna guerra rispetta più alcun confine. Tutto diventa bersaglio: militari, civili, infrastrutture, strutture sanitarie, scuole, industrie e campi agricoli. Perché l’obiettivo finale di ogni conflitto è quello di distruggere l’ambiente fisico e la fibra sociale di un territorio, con effetti che perdurano nel tempo, anche molto dopo la cessazione delle ostilità. Questo è evidente in tutte le maggiori guerre degli ultimi decenni, da quella condotta dalla Nato nella ex Jugoslavia, a quelle delle coalizioni anglo-statunitensi in Afghanistan e Iraq, alle azioni russe in Cecenia e Siria, fino ai conflitti attuali in Ucraina e Gaza. Non esiste nessun fenomeno altrettanto capace di compromettere i determinanti della salute quanto la guerra. Pertanto, secondo Fateh-Moghadam, per chi lavora in ambito sanitario non sussistono alternative possibili rispetto a quella di assumere una postura di opposizione e prevenzione nei confronti dei conflitti armati, così come è stato sancito anche dalla Carta di Ottawa del 1986, che pone la pace al primo posto tra le risorse per la salute.

Perché allora, si chiede Fateh-Moghadam, non è nato un forte movimento per la pace animato proprio dagli stessi operatori sanitari? Probabilmente perché molti, a partire dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e dai maggiori leader europei, credono nella deterrenza militare come garanzia di pace, seguendo il detto latino si vis pacem, para bellum (“se vuoi la pace, prepara la guerra”), non concordando sul fatto che la pace si può perseguire solo con mezzi altrettanto pacifici. Se si considerano però tutti i decessi provocati dai conflitti succedutisi a partire dal 1473, quando questa massima ha preso piede in seguito alla prima pubblicazione del libro terzo dell’Epitoma rei militaris di Vegezio che la conteneva, la sua efficacia si dimostra pressoché nulla.

Figlio di padre iraniano e madre tedesca, Fateh-Moghadam si rifà alla sua esperienza personale per spiegare cosa significhi fuggire da una guerra, come è successo ai suoi due cugini minorenni che hanno lasciato l’Iran durante il conflitto con l’Iraq per raggiungerlo a Monaco. Varcare i confini geografici di uno stato significa infatti affrontare tutte le difficoltà che nascono dal doversi confrontare con una nuova cultura, lingua, città, scuola e famiglia, come è successo recentemente anche ai tanti profughi ucraini. La possibilità di fuggire dalla guerra o dalla povertà, dalla distruzione ambientale, dalla mancanza di prospettive non è però uguale per tutti, perché è il passaporto, ricorda Fateh-Moghadam citando Hannah Arendt1 e Bertolt Brecht2, a determinare la nostra libertà di movimento: se un tedesco o un italiano si possono muovere in 177 Paesi del mondo, un afgano può farlo solo in 40. Siamo quindi ben lontani, continua Fateh-Moghadam, dal veder realizzato il sogno di un mondo senza frontiere e nazioni nel quale sperava il padre di Jorge Luis Borges, come lo stesso scrittore ha raccontato in un’intervista rilasciata nel 1978 nella quale dichiarava assurda l’idea dei confini e delle nazioni, visto che oggi nella sola Europa sono presenti più di 2000 chilometri di muri e recinzioni e che viviamo in un mondo più diviso che mai3. E nonostante Amartya Sen in un suo saggio del 20084 ci abbia messo in guardia dal «vedere il mondo come una federazione di religioni o civiltà, ignorando tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano sé stessi», perché «è non solo sbagliato ma anche pericoloso», purtroppo è quello che facciamo tutte le volte che alziamo davanti ai migranti, anche quando riescono a varcare una frontiera fisica, nuove barriere come quella tra “noi” e “loro”, ingabbiandoci «in rigide identità definite solo da nazionalità e religione».

Ma quale può essere l’antidoto a tutto questo? Fateh-Moghadam lo trova nel “patriottismo costituzionale” strenuamente sostenuto da Jürgen Habermas come unica alternativa sana alla costruzione di identità nazionali basate su etnia, lingua e territorio5. Perché “l’unico confine che vale la pena rispettare è quello dei diritti umani universali, che permettono a ogni individuo di sentirsi parte di una stessa comunità, rispettandone le differenze. Guerra, militarismo, nazionalismi e fondamentalismi ci spingono fuori da questo perimetro. Sarebbe quindi bello riuscire a rivitalizzare l’ottimismo del padre di Borges e tentare di liberarci da questi flagelli”, conclude Fateh-Moghadam.

A cura di Mara Losi

Il Pensiero Scientifico Editore




Bibliografia

1. Arendt H. Noi rifugiati. Torino: Einaudi, 2022.

2. Brecht B. Dialoghi di profughi. Roma: L’Orma Editore, 2022.

3. Chao R. Un entretien inédit avec Jorge Luis Borges: “L’idée de frontières et de nations me paraît absurde”. Le Monde Diplomatique, agosto 2001.

4. Sen A. Identità e violenza. Roma-Bari: Editori Laterza, 2008.

5. Habermas J. Staatsbürgerschaft und nationale Identität. In: Faktizität und Geltung. Suhrkamp Verlag, Francoforte sul Meno, 1992.

Per approfondire

Fateh-Moghadam P. Guerra o salute. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023.

Khosravi S. Io sono confine. Milano: Elèuthera, 2019.

Sir Michael Marmot
Giustizia sociale ed equità nella salute

Durante la sessione di 4words24 dedicata ai confini, Sir Michael Marmot, gradito ritorno all’evento giunto alla sua settima edizione, ha affrontato il tema da un punto di vista concettuale e politico, considerando confini quelli tra gruppi interni alla società, definiti da un punto di vista socioeconomico, etnico e in base allo stato di migrante, e quelli causati dal modo in cui sono organizzati sistema sanitario e società.

Il punto centrale del pluriennale e appassionato lavoro del noto epidemiologo ruota sempre attorno allo stretto legame tra salute e giustizia sociale: la salute è la cartina al tornasole per capire quanto la società sia in grado di venire incontro ai bisogni dei suoi membri, perché diretta è la relazione tra condizione di svantaggio e disuguaglianze di salute e fondamentale diventa quindi rilevare e incidere sui suoi determinanti sociali. Nei principali documenti che ha pubblicato nel corso degli anni1-3, Marmot ha analizzato le cause delle disuguaglianze di salute giungendo a elaborare 8 raccomandazioni da adottare per superarle:

1. offrire a ogni bambino le migliori condizioni di partenza all’inizio della vita;

2. assicurare a tutti i bambini e ai giovani istruzione e apprendimento permanente;

3. creare occupazione e buone condizioni di lavoro per tutti;

4. assicurare un salutare standard di vita per tutti;

5. creare e incrementare alloggi, luoghi e comunità salubri e sostenibili;

6. assumere un approccio alla prevenzione basato sui determinanti sociali;

7. contrastare il razzismo, la discriminazione e i loro effetti (questione particolarmente rilevante se vogliamo considerare anche i confini tra le persone);

8. perseguire la sostenibilità ambientale e l’equità nella salute.

Sulla base dei suoi studi, molto è stato fatto: orgogliosamente e con il consueto pungente humour, Marmot racconta all’uditorio convenuto a Roma di come in Inghilterra, a livello locale, diverse amministrazioni cittadine (a Coventry, Greater Manchester, Leeds…), in sinergia con associazioni di volontariato, servizi sociosanitari, polizia, vigili del fuoco, abbiano adottato le sue raccomandazioni dichiarandosi “Marmot cities”: se c’è la volontà politica, sottolinea convinto il professore britannico, è possibile intervenire sulle condizioni materiali e sugli aspetti psicosociali della vita delle persone, aumentare l’empowerment dei cittadini restituendo loro voce e controllo sulle proprie vite.

Tuttavia, avverte l’epidemiologo, negli ultimi 5 anni il quadro di riferimento è cambiato: i dati rilevati in Inghilterra mostrano che i provvedimenti governativi hanno impresso un andamento diametralmente opposto rispetto alle sue raccomandazioni. Se prima del 2010 l’aspettativa di vita era andata crescendo di 1 anno ogni 4 per uomini e donne, con l’insediamento del governo conservatore quel dato ha mostrato una rapida decrescita e con l’impatto della pandemia (nel 2020-2022) è drammaticamente precipitato. Parallelamente, sono andate aumentando anche le disuguaglianze, sia tra gruppi sociali sia a livello regionale, e soprattutto l’aspettativa di vita è crollata nelle aree più deprivate del Paese, quelle in cui è andata diminuendo la spesa pubblica per le persone più povere. «Social injustice is killing people on a grand scale»: un’affermazione riportata sulla copertina del report curato da Marmot nel 2008 e purtroppo ancora attuale. Così come torna a essere attuale la domanda posta all’incipit del libro “La salute disuguale”: «Perché curare le persone per poi riportarle alle condizioni che le hanno fatte ammalare?»4.




Secondo Marmot, per correggere l’impatto delle disuguaglianze sociali sulla salute sarebbe innanzitutto corretto utilizzare il cosiddetto “universalismo proporzionato”: concentrarsi solo sui più bisognosi fa perdere di vista lo svantaggio in termini di salute di quanti si situano al di sopra della soglia fissata per intervenire, mentre è necessario che le politiche e le strategie siano proporzionate ai bisogni. In Inghilterra i provvedimenti governativi hanno seguito un approccio inverso, ossia di fronte alla maggiore deprivazione, al maggior bisogno, maggiore è stata la riduzione della spesa: -17% nel 20% delle aree meno deprivate e -32% nel 20% delle aree più deprivate! Una politica di austerità che tra il 2010 e il 2020 ha apportato tagli alla spesa pubblica di circa 200 miliardi di euro all’anno non può non aver avuto un ruolo sul peggioramento della salute dei cittadini, sulla riduzione del numero di infermieri, sullo stato delle istituzioni scolastiche e dei servizi sociali. Una manovra rivendicata dai suoi responsabili come una necessità economica e morale di cui Marmot invece smaschera il carattere politico, rivelando le pesanti ripercussioni che ha avuto sulla vita delle persone, soprattutto dopo la Brexit. Anche a livello locale in Inghilterra, nelle aree con minore aspettativa di vita la spesa pubblica è stata tagliata del 50%: in quale universo morale, si chiede indignato Marmot, è giusto fare una cosa simile?

Sulla base dei dati relativi al reddito riportati dal Financial Times, l’epidemiologo mostra che, confrontato con altre nazioni (Svizzera, Norvegia), il Regno Unito si rivela un Paese povero e malato. E ciò a causa della mancata equa distribuzione del reddito e della ricchezza, del benessere e della salute. Casa, riscaldamento, luce, cibo, abiti, igiene personale: se è vero che l’indigenza è definita dalla mancanza di 2 tra questi 6 bisogni essenziali, i dati del Joseph Rowntree Foundation che Marmot porta a 4words24 dimostrano come nel 2022 nel Regno Unito circa un milione di bambini si trovava in stato di indigenza, un aumento di 2,5 volte in 5 anni. Secondo la Report card 18 dell’Unicef che Marmot mostra su 39 Paesi, il Regno Unito è quello con la maggiore crescita dei tassi di povertà tra i bambini. I costi degli alloggi che pesano in particolare su specifici gruppi etnici (persone provenienti ad esempio da Bangladesh o Pakistan); il numero di richiedenti asilo che a Londra beneficiano di assistenza cresciuto drammaticamente (e a cui il governo britannico pensa di porre rimedio spedendone qualche centinaio in Ruanda); il 20% di persone che dichiara di essere trattata in maniera ingiusta a causa del proprio gruppo etnico; i migranti che hanno una probabilità decisamente superiore alla media di trovarsi in stato di indigenza… Anche queste condizioni creano confini di cui occuparsi, ci ricorda Marmot.

L’elenco di questi dati negativi non riesce tuttavia a demoralizzare l’epidemiologo: forte del suo “ottimismo evidence-based” e con il suo spirito di entusiasta e coinvolgente motivatore, Marmot racconta che è aumentata la letteratura dedicata ai determinanti sociali della salute; che sta crescendo il movimento globale a sostegno dell’equità nella salute; che è stato nominato co-presidente dell’Unaids e che, di recente, Keir Starmer, leader del Labour Party, sebbene solo nell’appendice tecnica del suo programma di interventi sulla salute, ha inserito come impegno del futuro governo laburista quello di far diventare l’Inghilterra un “Marmot country”. Sono segnali positivi che rendono possibile la speranza. Per questo, in conclusione, Marmot chiede anche al pubblico di 4words24 di unirsi a lui nel sostenere la causa di una più equa distribuzione della salute nel mondo.

A cura di Silvana Guida

Il Pensiero Scientifico Editore

Bibliografia

1. Commission on the Social Determinants of Health. Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health. Final report of the Commission on Social Determinants of Health. Geneva: World Health Organization, 2008

2. Marmot Review Team. Fair society, healthy lives: strategic review of health inequalities in England post 2010. London: Marmot Review, 2010

3. Marmot M, Allen J, Boyce T, et al. Health equity in England: the Marmot Review 10 years on. London: Institute of Health Equity, 2020

4. Marmot M. La salute disuguale. La sfida di un mondo ingiusto. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2016

Per approfondire

Marmot M. Status syndrome: how your place on the social gradient directly affects your health. New York: Bloomsbury, 2004.

INFLUENCER

Adam Cifu
Perché i medici pop star mi irritano

Il primo intervento dopo la pausa pranzo, a cura di Adam Cifu, internista e professore di Medicina presso l’Università di Chicago, ha rappresentato un accorato atto d’accusa contro i cosiddetti “medici celebrità”, professionisti il cui lavoro non è più quello di aiutare veramente il prossimo, ma è diventato far crescere un’azienda parlandone bene in pubblico o svolgere un’attività commerciale al fine di un arricchimento personale.

Un caso esemplare di “medico celebrità” può essere rappresentato, secondo Cifu, da Andrew Weil, emerso negli anni ’70 grazie ai suoi studi sulla marijuana; oppure da Deepak Chopra, campione della medicina “alternativa”. Un terzo nome è quello di Mehmet Oz, pronto a pronunciarsi su diversi argomenti, dalle diete esotiche, alla medicina alternativa, alla guarigione della fede. Infine, il nome più recente e quello di Peter Attia, che si occupa principalmente di longevità. A questi nomi Adam Cifu ne ha contrapposti altri, medici che sono sì divenuti delle celebrità, ma il cui lavoro primario è rimasto la ricerca, o la cura dei pazienti, o l’educazione pubblica. A partire da Everett Koop, chirurgo statunitense, che – all’inizio degli anni ’80, durante l’amministrazione Reagan – dopo aver lavorato contro le compagnie del tabacco e il vizio del fumo, è divenuto famoso soprattutto per l’impegno allo scoppio dell’epidemia di Aids. Per venire a tempi più recenti, Cifu ha citato il ricercatore, fondatore e direttore dell’Istituto di Ricerca traslazionale della Scripps, Eric Topol, esperto di intelligenza artificiale. Oppure il suo collega ed ex allievo Vinay Prasad, talentuoso ricercatore oncologo, esperto nel lavorare con i metadati, che si è creato un grande seguito grazie ai suoi tweet e ad articoli spesso piccanti e pungenti. Oppure Jennifer Gunter, una ginecologa con un grande seguito su Twitter e Instagram, specializzata nel dolore cronico e nei disturbi vulvovaginali, che ha scritto anche per il New York Times.

Ricordata la differenza tra le due tipologie di medici, Cifu ha spiegato come riconoscere un appartenente al gruppo delle “celebrità”. In primis si tratta di professionisti fotogenici e maschi, dal curriculum accademico assolutamente impeccabile. Inoltre, i “medici celebrità” tendono a offrire soluzioni a problemi per i quali la medicina tradizionale non ha risposte, anzi spesso propongono questioni che nessuno immaginava costituissero un problema, e offrono un apposito trattamento. Adam Cifu ha quindi spiegato di non amare i “medici celebrità” per un motivo radicato in qualcosa che ha imparato durante la sua carriera: le uniche cure mediche che funzionano veramente sono quelle il cui risultato è dimostrato e dimostrabile. Ma i “medici celebrità” non hanno bisogno di dati per dimostrare che le cose che stanno “vendendo” funzionino davvero, utilizzano il metodo dell’estrapolazione, ossia prendono ipotesi e studi preliminari, piccoli studi clinici su pochi campioni di topi e pazienti, ed estrapolano i dati proiettandoli su una popolazione più ampia. Il secondo motivo per cui Adam Cifu non ama questo genere di medici è che essi praticano una medicina facile e impersonale, laddove invece fornire una buona assistenza medica è difficile e deve necessariamente entrare nello specifico ed essere personale. I consigli dei “medici celebrità” sono invece generici, dovendo presentare un ampio appeal per un vasto pubblico di persone che non conoscono: la prova del successo di un celebrity doctor è che raccolga soldi, click, più seguaci su YouTube o TikTok.

Ma se il paziente è disposto a rivolgersi online a simili ciarlatani per ricevere consigli, diagnosi e raccomandazioni di trattamento, ciò significa che i “medici celebrità” possono avere un’influenza positiva, utilizzare le loro intelligenze e il loro carisma per educare davvero le persone? Adam Cifu pensa in realtà che questo non accadrà mai: sono pochissime le raccomandazioni che un medico può dare a una popolazione nel suo complesso, come smettere di fumare, non bere in modo eccessivo, indossare le cinture di sicurezza, vaccinare i bambini; indicazioni non troppo interessanti, che stancherebbero i potenziali pazienti abbastanza rapidamente: difficile mantenere una presenza su YouTube dicendo cose simili ogni settimana per anni e anni. Per questo tali “celebrità” iniziano a scivolare verso questioni che hanno poco o nessun fondamento nella realtà.

L’intervento di Cifu si è concluso ricordando come educare le persone sui progressi della scienza e sul futuro delle cure mediche possa essere utile e gratificante, come dimostrato dai medici che sono divenuti celebrità mantenendo la loro attenzione sull’obiettivo di fare davvero un buon lavoro; ma quando l’obiettivo diventa accumulare ricchezza e fama, allora i “medici celebrità” dimostrano di aver dimenticato le loro responsabilità nei confronti del singolo paziente.

Per approfondire

Cifu A. Perché i medici popstar mi irritano. Recenti Prog Med 2023; Suppl Forward 31; S33-S34.

Cifu A. Life My Way! Sensible Medicine 2024; 26 marzo.

Cifu A. I Am Afraid of Early Cancer Screening: Part III. Sensible Medicine 2024; 1° marzo.

A cura di Marialidia Rossi

Il Pensiero Scientifico Editore




Francesca Cavallo
Performance maschile e prevenzione della violenza

La fiaba ha origini antichissime, da migliaia di anni si tramanda e sopravvive grazie, anche, al racconto orale. Dapprima era una forma di intrattenimento immaginata e pensata per gli adulti, con il passare dei secoli ha assunto una forma più edulcorata e ha trovato il suo spazio stabile nel momento che precede la buonanotte. Oggi è un rituale condiviso da milioni di famiglie che ogni sera raccontano storie, nelle quali molto spesso, senza rendersene conto, trasmettono alle bambine che il ruolo della femminilità nel mondo è incarnato dalla principessa che passa le giornate a spazzolarsi i capelli e a sognare di sposare un principe. E se invece iniziassimo a raccontare alle bambine di donne reali che hanno preso in mano la propria vita e cambiato il proprio destino e, in molti casi, la Storia? Con questa domanda Francesca Cavallo, scrittrice e attivista, ha catturato l’attenzione del pubblico nel primo pomeriggio della sessione dedicata alla parola “influencer” della settima riunione annuale del progetto Forward. È da questa premessa che è nato “Storie della buonanotte per bambine ribelli”1, di cui Francesca Cavallo è co-autrice, milioni di copie vendute in oltre 40 traduzioni e che, nelle parole dell’ideatrice, tenta di «restituire ai bambini il mondo in tutta la sua naturale diversità e di offrire una prospettiva realistica, che non escluda pezzi di realtà soltanto perché gli adulti non si sentono a proprio agio».

Le fiabe ci raccontano quello che pensiamo e sentiamo, prosegue la scrittrice, ci danno una mappa per leggere il nostro mondo interiore e iniziare a immaginare, quando siamo piccoli, quale possa essere il nostro posto nel mondo. Bambine ribelli, appunto, ma non solo. Ampliando lo sguardo, o partecipando a qualche discussione sul libro, non occorrono grandi sforzi per capire che il desiderio di allontanarsi da modelli precostruiti appartiene anche ai genitori dei maschi. Certo, non possiamo dire che vi sia scarsità della celebrazione dei grandi leader uomini, ma forse abbiamo sempre osservato i personaggi maschili delle fiabe con poca accuratezza. «Nelle interviste dopo la pubblicazione del libro dicevo che i personaggi femminili delle fiabe, a differenza dei maschi, non erano liberi». Era un errore, i personaggi maschili erano «infinitamente meno liberi di quello che credevo. Di “Cenerentola” esistono tantissime versioni, ma vi assicuro che non ce n’è una in cui il principe dice di volersi sposare». I principi non possono che sposarsi, perché il loro ruolo è garantire la continuità del regno e, quindi, del potere. Paradossalmente, mentre per i personaggi femminili il conflitto con la famiglia di origine è spesso al centro della storia, i personaggi maschili non hanno conflitti, fanno quello che il loro genos gli impone di fare. Inoltre, ci sono sempre presentati come privi di una vita interiore o disinteressati ad averne una. Del padre di Biancaneve, per esempio, che viene separato dall’unica figlia dopo essere rimasto vedovo, cosa sappiamo? Assolutamente niente. Gli unici personaggi delle fiabe dei quali percepiamo un’interiorità sono mostruosi, ossia la bestia de “La bella e la bestia” e Quasimodo di “Notre-Dame de Paris”. Due personaggi osceni, che devono stare lontani dalla scena per la loro mostruosità e come se non bastasse devono stare lontani dagli altri umani: il primo circondato da oggetti umanizzati e il secondo da gargoyle.

Cosa ci dice questo? Che una delle assi portanti dei valori con i quali abbiamo scelto di influenzare il modo in cui i bambini percepiscono la loro mascolinità è che la loro vita interiore non può essere vista da nessuno, a nessuno interessa e crea anche un certo disagio. Se osserviamo i personaggi che hanno plasmato le immagini che si formano nella nostra testa quando pensiamo alla mascolinità – James Bond, Superman, Hulk, Batman –, notiamo che hanno una caratteristica in comune: conducono una doppia vita. Il messaggio, anche quando si cresce, è che «nel passaggio per diventare uomini è solo la parte massimamente performante del Sé che può essere mostrata agli altri», perché tutto il resto (il dubbio, la fragilità, il dolore) deve essere nascosto. Quanto più efficacemente ci si separa da quel lato, tanto più efficacemente si diventa uomini, uomini di successo, uomini desiderabili.

Secondo l’antropologo David D. Gilmore2 se il rito di passaggio dall’età infantile a quella adulta per le ragazze è segnato da un evento biologico, per i ragazzi avviene attraverso riti in cui si deve dimostrare di sprezzare il pericolo, che li caratterizzano come uomini davanti la comunità. Prosegue Francesca Cavallo, «della mascolinità un uomo deve considerarsi degno in ogni momento della propria vita. Basta un gesto, una parola o una scelta sbagliata e si rischia il ridicolo davanti al gruppo». Questa serie di comportamenti problematici è legata alla difesa di uno status che è sempre traballante. «Come facciamo a lamentarci della mancanza di integrità che è tipica di alcune delle incarnazioni più problematiche della mascolinità tossica, quando quella mancanza di integrità è stata al centro del nostro messaging culturale su come si diventa uomini?». Questa prospettiva vive in uno dei progetti di Francesca Cavallo, “Maschi del futuro”, una newsletter settimanale e una serie di eventi a teatro per riflettere non solo su questi aspetti della mascolinità ma soprattutto sul tipo di influenza che abbiamo sulle nuove generazioni3.

«Se iniziamo a interpretare mascolinità e maschilità in questo modo, possiamo iniziare a vedere la violenza maschile non come un problema morale, ma come un problema di salute pubblica» afferma Cavallo. L’obiettivo dovrebbe essere provare a capire cosa c’è alle radici di questa violenza e smontare quei meccanismi che creano le condizioni per cui esiste, e i dati lo confermano4, un segmento maggioritario della popolazione più incline al crimine, più incline ai comportamenti violenti nell’ambiente domestico e verso sé stessi, più incline a trascurare la propria salute. «Se iniziassimo a prenderci la responsabilità del fatto che il tipo di influenza con la quale formiamo le nuove generazioni di maschi è un’influenza corrotta alla radice, e che in alcuni casi dà esiti problematici, saremmo forse sulla strada giusta per operare uno scarto e provare a ragionare sul tema della violenza spostando il punto di vista», perché è solo cambiando il punto di vista che si possono cambiare le cose, conclude Cavallo. «Se l’obiettivo è smantellare le strutture patriarcali, quello che dobbiamo fare non è prendere a cazzotti il patriarcato, il punto è renderlo obsoleto. Come si fa? Rimpiazzando la logica del conflitto e dello scontro con la logica della compassione radicale».

A cura di Giada Savini

Il Pensiero Scientifico Editore

Bibliografia

1. Cavallo C, Favilli E. Storie della buonanotte per bambine ribelli. Milano: Mondadori, 2016.

2. Gilmore DD. Manhood in the making: cultural concepts of masculinity. New Haven: Yale University press, 1991.

4. Bersani G, Peytavin L. Il costo della virilità. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023.

Per approfondire

Cavallo F. Elfi al quinto piano. Milano: Feltrinelli, 2019.

Cavallo F. Ho un fuoco nel cassetto. Milano: Salani, 2022.




ChatGPT

Diana Ferro
Alla scoperta di GPT

Con la medicina predittiva e preventiva siamo in un campo relativamente nuovo, di provenienza statunitense, nel quale l’identificazione precoce dei rischi di sviluppare malattie e l’implementazione di misure per prevenirle o ritardarle sono le sfide principali. È proprio in questo ambito che l’intelligenza artificiale (IA) può giocare un ruolo chiave, perché mette a disposizione strumenti per l’analisi di grandi quantità di dati e l’individuazione di modelli predittivi. Diana Ferro (ricercatrice e data scientist presso l’Unità di ricerca di Medicina predittiva e preventiva dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma), a 4words24 ha aperto la sessione relativa alla parola ChatGPT: «Nonostante quello che si possa pensare, non esiste solo GPT (Generative Pre-trained Transformer)», dichiara, «in medicina abbiamo tantissime IA che usiamo da circa vent’anni», anche se spesso i pazienti, le persone comuni, non ne sono a conoscenza. L’IA infatti viene utilizzata quando si va dal radiologo che probabilmente se ne servirà per la refertazione o quando si entra in farmacia dove una IA stabilirà se i farmaci richiesti hanno interazioni.

Fino a non molto tempo fa, l’IA veniva utilizzata dai pochi del settore in grado di maneggiarla e che perlopiù ne facevano uso nei laboratori di ricerca, nell’Accademia e nelle università: «La utilizzavamo soprattutto per predire la funzione delle proteine, predire il futuro dell’evoluzione animale vegetale» continua Ferro. «Poi, a un certo punto, l’IA arriva nelle mani di tutti e anche nelle mani del medico», al quale – però – non viene dato alcun libretto di istruzioni ma semplicemente una pagina web con una chat con cui interagire: “How can I help you today? - Come posso aiutarti oggi?”. Per il medico una simile offerta di aiuto è sufficiente perché questa IA si configuri come uno strumento indispensabile e a portata di mano. GPT esce, quindi, definitivamente dall’Accademia e diventa d’uso comune proprio grazie al fatto che, perché ciò possa avvenire, si crea lo strumento principe di interazione tra cliente e piattaforma: una chat. «Quelli che noi conoscevamo come modelli matematici classici – che andavano solo sui nostri piccoli computer – diventano delle cose semplicissime da utilizzare», prosegue la ricercatrice del Bambino Gesù, «di cui nessuno o pochi sanno come funziona veramente; una rete complessa, neurale, a disposizione di tutti, dal bambino di 2 anni all’adulto di 80, in modo semplice e veloce». La curiosità intorno a GPT aumenta successivamente al 2022, proprio quando la piattaforma viene provvisoriamente limitata dal Garante per la protezione dei dati personali attraverso un decreto d’urgenza1, per poi essere resa nuovamente accessibile di lì a poco. La diffusione esponenziale di GPT distrae – lì per lì – dalle conseguenze che un simile strumento può avere in termini di risorse: «Ogni volta che voi utilizzate GPT in realtà non state utilizzando qualcosa che è in Europa, bensì qualcosa che è negli Stati Uniti» – continua Ferro – e «per spostare le paroline della chat dall’Italia agli Stati Uniti viene consumata un’enorme quantità di risorse». D’altronde più persone utilizzano un simile modello linguistico, più il modello impara, e più impara e sempre più dati è necessario spostare, con un consumo di energia altissimo. «Questa tecnologia si sta espandendo così in fretta da rischiare di lasciare indietro la ricerca che serve per renderla sicura».

GPT, come già detto, non è l’unica IA disponibile. Si tratta di un mercato in forte espansione, nel quale per esempio ci sono Gemini e Mistral, per citarne solo due. E a seconda poi di quali dataset utilizzi la singola IA, le risposte ai quesiti variano. Essendo stata composta e sviluppata sul modello animale «l’IA generativa, a differenza di qualsiasi altra IA, ha la capacità di evolversi, e questo fa paura perché si fa fatica a controllare ciò che si evolve o, se anche lo si controlla, si può fallire». Quindi, come per l’intelligenza umana, anche per quella artificiale possiamo andare a tracciare nel tempo quali sono stati i constraint (vincoli, limiti) che hanno dato modo a una nuova IA di emergere; e come per l’essere umano, bisogna capire «quali sono i paletti che determinano o meno l’insorgenza o l’implementazione della capacità cognitiva di queste IA», prosegue Ferro. Uno di questi paletti è sicuramente l’interazione con l’uomo. Visto che all’IA è stato chiesto di piacere sempre e comunque all’uomo, lo user, GPT funziona – anche in medicina – perché mette al centro delle sue risposte lo user, l’uomo, quindi il medico, il paziente.

Se da una parte i medici chirurghi operano sui cervelli umani, come i neuro-oncologi, intervenendo sulle varie parti del cervello, dall’altra i dottori di ricerca che fanno medicina predittiva e preventiva operano sui cervelli digitali. L’IA «è composta da una serie di neuroni, modellati in matematica», continua Ferro, «e si comporta esattamente come si comportano i flussi di informazioni nelle varie parti del cervello». Nel migliorare le copie digitali del cervello umano, ci si troverà davanti a fatti che si farà fatica a spiegare in quanto “black box”, a conferma di quanto si diceva: «più l’IA è brava ed evoluta, più non siamo in grado di controllarla».

Qual è la differenza tra IA non generativa e IA generativa? La prima, nelle sue risposte, segue fondamentalmente degli algoritmi classici, quindi delle sequenze logiche; per cui nella sequenza “rosso, giallo, rosso, giallo, …” risponderà – per esempio – “rosso” alla domanda su quale colore segue dopo il giallo. Alla stessa domanda l’IA generativa risponderà probabilmente “arancione” in quanto «colore dello spettro percepibile dall’occhio umano, classificato come “colore caldo”, che si trova tra il rosso e il giallo e ha una lunghezza d’onda di circa 590-625 nanometri», dando quindi una risposta che sulla base dei dati “digeriti” dall’IA è totalmente corretta. A quel punto però se noi umani – grazie ai quali l’IA generativa affina il suo funzionamento – le chiediamo di cercare un’altra risposta perché “arancione” è sbagliata, la risposta successiva potrebbe essere che, dopo l’ultimo giallo, vada messo il “viola”, in quanto colore complementare del giallo che ha quindi una stretta relazione con il giallo stesso. In questa seconda risposta, l’IA generativa mostra tutto il potenziale creativo delle IA: «quando chiediamo a GPT di darci delle idee per dei titoli suggerendogli 2 o 3 temi», dice Ferro, «fa esattamente questo: prova a utilizzare quello che sa per proporci associazioni creative». L’IA, in conclusione, può veramente essere di grande aiuto per il medico, e per la medicina, come d’altronde anche la data science: siamo, ovviamente, sempre noi user umani ad avere, però, l’ultima parola sulla correttezza o meno dei risultati dell’interazione con le IA.

A cura di Manuela Baroncini

Il Pensiero Scientifico Editore

Bibliografia

1. Garante per la Protezione dei Dati Personali. Provvedimento del 30 marzo 2023 [9870832]. Disponibile su: https://lc.cx/vvqssS [ultimo accesso 10 giugno 2024].

Per approfondire

Agüera y Arcas B. Do large language models understand us? Daedalus 2022; 151: 183-97.

Wiens J, Saria S, Sendak M, et al. Do no harm: a roadmap for responsible machine learning for health care. Nat Med 2019; 25: 1337-40.




Jonathan Montomoli
Il medico nell’era dell’intelligenza artificiale

«Cosa ci fa qui un anestesista? Faccio il mio spot!» esordisce scherzosamente Jonathan Montomoli aprendo il suo intervento a 4words24. «In realtà ho un dottorato in epidemiologia clinica. Non ho scritto libri, però cercherò di portarvi nella mia libreria». E in effetti, dopo quest’affermazione, inizia a commentare a spron battuto una fitta carrellata di diapositive, articolate attorno a concetti chiave tratti dalle pubblicazioni per lui più rilevanti per farsi un’idea delle non banali implicazioni dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA) in ambito medico. «Il mio sogno» afferma «è che i medici possano gestire il trasferimento tecnologico portando beneficio al sistema sanitario pubblico, perché se no la gara è impari». E a questo proposito introduce anche il suo conflitto di interessi, essendo cofondatore di uno spin-off universitario che sta sviluppando un braccialetto dotato di sensori che raccolgono e analizzano in tempo reale i dati vitali dei pazienti. Ma i dispositivi indossabili intelligenti sono solo una delle facce, anche se tra le più conosciute dal grande pubblico, della rivoluzione che la tecnologia sta apportando in medicina.

Il settore sanitario ha sempre cercato di integrare nuove tecnologie per migliorare la cura dei pazienti. Negli ultimi anni, tuttavia, l’IA ha letteralmente cambiato il paradigma dell’interazione uomo-computer: da interfaccia è diventata rapidissimamente un generatore di contenuti e immagini con un potenziale illimitato. «I GPT sono large model, quello che sta dietro è in qualche modo un’interfaccia» sottolinea Montomoli. «Tutto il resto esiste da tempo. Ma cosa è successo? È stata lanciata Med-Gemini, la language model di Google trainata in ambito medico, con tutte le performance che ha. Ieri sera hanno lanciato GPT-4o. Prima la tastiera, poi il mouse, il touchpad, il riconoscimento vocale, lo smartphone e ChatGPT, che ha portato tutto al linguaggio permettendo di fare qualunque cosa. Posso chiedere di farmi un’immagine e la fa. Posso chiedere di farmi un codice e lo fa». Non a caso, ChatGPT ha raggiunto 100 milioni di utenti in 2 mesi (Instagram ci ha messo 2 anni e 6 mesi). Ma non c’è solo GPT, si potrebbero naturalmente citare altri esempi di chatbot, come Claude o Consensus. Poi è arrivato anche Devin AI, sviluppato specificatamente per la creazione di algoritmi (non a caso è stato soprannominato “il primo ingegnere software IA”). Questi strumenti hanno ridotto enormemente il tempo necessario per affrontare problemi complessi e, come avverte Montomoli, «non abbiamo più tempo di pensare se non ci obblighiamo a farlo. Sappiamo tutti che è molto facile: ce l’ho, lo uso. Siamo in quel catch-up mood in cui cerchiamo di aumentare la nostra capacità di adattamento alla crescita esponenziale della tecnologia. Non sappiamo neanche più prevedere cosa succederà fra qualche mese. Quindi siamo nel caos. Un modello generativo, superato un certo numero di parametri, mostra delle proprietà per cui non è stato allenato. Fortunatamente il nostro cervello consuma un joule per minuto quando il language model ne consuma 2157. È molto performante, ma dobbiamo conoscere le limitazioni».

Come sottolinea Daniel Kahneman in un libro che ha un posto di rilievo nella libreria di Montomoli (Thinking, fast and slow), abbiamo un budget di attenzione limitato da allocare alle nostre attività, se lo superiamo siamo destinati a fallire: potremo non vedere ciò che è ovvio ed essere inconsapevoli della nostra cecità1. «Siamo performanti ma dobbiamo essere consapevoli di come l’IA influenza le nostre scelte, anche quando non ce ne rendiamo assolutamente conto» ammonisce Montomoli. «Quindi dobbiamo prestare particolare attenzione alla triade letale: i dati che forniamo all’IA, la carenza di certificazioni e le regolamentazioni etiche e legali»2.




Per quanto riguarda il primo punto, «se i dati, creati e selezionati dall’uomo, si basano su scelte disuguali o che comunque trasportano disuguaglianza, l’IA restituirà disuguaglianze3. Da dove vengono i dati? Nella stragrande maggioranza dalla Cina e dagli Stati Uniti… E poi c’è l’aspetto del minority report: agli Australian open Nadal stava perdendo due set a zero ed era sotto anche nel terzo set (2-6; 6-7; 0-1). Tutti gli algoritmi lo davano perdente… poi ha vinto».




La dipendenza dai dati pone d’altronde non pochi rischi in termini di privacy e sicurezza, e la necessità di enormi volumi di dati per “addestrare” questi sistemi potrebbe intensificare il rischio di bias, con algoritmi che potrebbero sviluppare pregiudizi non intenzionali basati sulle informazioni che ricevono. Inoltre, mentre la tecnologia promette di semplificare la pratica medica, esiste il rischio che si possa arrivare a un’eccessiva automazione, riducendo il valore dell’esperienza umana e dell’intuizione clinica nel processo decisionale medico4. Per non parlare dei pericoli derivanti dagli interessi delle grandi aziende che investono in ambito medicale. «Qual è la priorità? Pubblicare il prototipo. Tutto quello che è il difficile percorso di validazione esterna, controvalidazione, aggiustamento potrebbe invece passare in secondo piano. Molti modelli, poi, si concentrano su outcome che diminuiscono i costi, ma non vanno a vedere qual è l’outcome del paziente». A questo proposito Montomoli fa l’esempio di un medical device basato su algoritmi di IA che predice 15 minuti prima l’ipotensione intraoperatoria, un progetto da decine di milioni di euro: «Simon Tilma Vistisen, un post-doc che lavora allo studio di validazione dei dati, non supportato dal supervisor si mette a fare simulazioni. E cosa scopre? Che fondamentalmente i parametri sono stati validati sulla popolazione totale senza considerare i falsi positivi. Simon segnala il problema, dà battaglia ricevendo in cambio minacce. Alla fine viene pubblicata una stringata errata corrige del paper. Punto. L’articolo è ancora lì, validato, e Simon viene bannato dal mondo dei congressi per un paio d’anni. C’è un bell’articolo che vi consiglio di leggere sulla sua storia»5.

Quindi che strumenti abbiamo? Dobbiamo riprendere il tempo per ragionare sulla complessità del sistema. Fermarci e decidere che evoluzione vogliamo dare alla nostra specie con l’IA6. Di fronte al progresso inarrestabile e tumultuoso delle innovazioni, è essenziale bilanciare l’entusiasmo per le nuove tecnologie con un impegno per la loro gestione responsabile ed etica. Regolamentazioni chiare, protocolli di sicurezza rigorosi e un dialogo aperto tra scienziati, medici, pazienti e decisori politici saranno cruciali per assicurare che l’IA in medicina serva il bene comune, rispettando sempre la dignità e i diritti dei pazienti7. Mentre ci avventuriamo sempre più in profondità in questa nuova era, il settore sanitario si trova di fronte a un’opportunità senza precedenti di migliorare la cura dei pazienti. Ma da grandi poteri derivano grandi responsabilità: sarà compito di tutti noi garantire che questa nuova frontiera sia “navigata” con saggezza e umanità. Trasparenza, democratizzazione della ricerca, partecipazione attiva e vigilanza saranno i pilastri per costruire un futuro in cui la tecnologia e l’umanità avanzano insieme per il beneficio di tutti.

A cura di Bianca Maria Sagone

Il Pensiero Scientifico Editore




Bibliografia

1. Kahneman D. Thinking, fast and slow. London: Penguin Paperback, 2024.

2. Bellini V, Montomoli J, Bignami E. Poor quality data, privacy, lack of certifications: the lethal triad of new technologies in intensive care. Intensive Care Med 2021; 47: 1052-3.

3. Celi LA, Cellini J, Charpignon M-L, et al. Sources of bias in artificial intelligence that perpetuate healtcare disparities. A global review. Plos Digit Health 2022; 1: e0000022.

4. Volovici V, Syn NL, Ercole A, et al. Steps to avoid overuse and misuse of machine learning in clinical research. Nat Med 2022; 28: 1996-9.

5. Skousgaard SA. The scientific scandal of the decade? Researcher takes on med-tech giant. Staff-Health 2023; 23 November.

6. Adler-Milstein J, Chen JH, Dhaliwal G. Next-generation artificial intelligence for diagnosis: from predicting diagnostic labels to “wayfinding”. JAMA 2021; 326: 2467-8.

7. Montomoli J, Bitondo MM, Cascella M, et al. Algor-ethics: charting the ethical path for AI in critical care. J Clin Monit Comput 2024 Apr 4.

Per approfondire

Benanti P. Digital age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società. Alba: Edizioni San Paolo, 2020.

Benanti P. Human in the loop. Decisioni umane e intelligenze artificiali. Milano: Mondadori Università, 2022.

Cascella M, Montomoli J, Bellini V, et al. Evaluating the feasibility of ChatGPT in healthcare: an analysis of multiple clinical and research scenarios. J Med Syst 2023; 47: 33.

Cichy RM, Kaiser D. Deep neural networks as scientific models. Trends Cogn Sci 2019; 23: 305-17.

Cosgriff CV, Stone DJ, Weissman G, et al. The clinical artificial intelligence department: a prerequisite for success. BMJ Health Care Inform 2020; 27: e100183.

Gaube S, Suresh H, Raue M, et al. Do as AI say: susceptibility in deployment of clinical decision-aids. NPJ Digit Med 2021; 4: 31.

Piantedosi S. Modern language models refute Chomsky’s approach to language. lingbuzz/007180

Vicente L, Matute H. Humans inherit artificial intelligence biases. Sci Rep 2023; 13: 15737.