Dalla letteratura

Cambia la prevalenza dei fattori di rischio per la demenza

Da diversi anni un numero sempre crescente di evidenze mostra come circa il 40% delle demenze possa essere attribuito all’azione di dodici fattori di rischio modificabili. Se da un lato, quindi, è importante lavorare su questi fattori per prevenire o ritardare l’insorgenza della demenza, dall’altro per poterlo fare nel modo migliore potrebbe essere utile considerare il peso che hanno i singoli fattori. In questa direzione vanno i risultati di uno studio appena pubblicato sul Lancet Public Health, che ha mostrato come la prevalenza dei fattori di rischio sia cambiata nel corso dei decenni: oggi sembra che l’attenzione vada posta sui fattori legati alla salute cardiovascolare, soprattutto ipertensione e diabete1.

Le ricercatrici e i ricercatori dell’University College London nel Regno Unito – dopo uno studio che ha preso in considerazione quasi 2.000 pubblicazioni – hanno analizzato 27 studi prospettici di coorte per valutare i cambiamenti nell’incidenza, nella prevalenza e nel contributo dei fattori di rischio della demenza nel corso del tempo. Tutti gli studi hanno mostrato che, nei Paesi ad alto reddito, l’incidenza e la prevalenza della demenza correlate per età sono diminuite nel tempo. Nonostante questo, però, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione, il numero delle persone affette da demenza è destinato ad aumentare nei prossimi anni.

Parlando dei fattori di rischio, è emerso come il fumo e l’istruzione, anche a causa delle politiche adottate negli ultimi anni, abbiano un impatto minore rispetto ad alcuni anni fa. Al contrario, invece, i fattori di rischio come l’obesità, l’ipertensione e il diabete sono generalmente aumentati. «Sembrerebbe che i fattori di rischio cardiovascolare abbiano contribuito maggiormente al rischio di demenza negli ultimi anni, quindi meritano un’azione più mirata per i futuri sforzi di prevenzione della demenza», ha affermato Naaheed Mukadam, autore principale dello studio.

Da segnalare, però, che tutti gli studi presi in esame in questa ricerca risalivano a periodi precedenti il 2015. Dunque, poiché negli ultimi anni sono stati fatti diversi passi avanti nella gestione del diabete e dell’ipertensione, bisognerà vedere i risultati nei prossimi anni, conducendo nuovi studi di questo tipo. Studi che sarà necessario condurre anche nei Paesi a basso e medio reddito, dove il peso della demenza è più elevato e continua ad aumentare.




Bibliografia

1. Mukadam N, Wolters FJ, Walsh S, et al. Changes in prevalence and incidence of dementia and risk factors for dementia: an analysis from cohort studies. Lancet Public Health 2004; 9: e443-e460.

In collaborazione con Neuroinfo.it

Microbiota intestinale e dipendenza da cibo

Una nuova comprensione del microbiota intestinale potrebbe aprire nuovi scenari per il trattamento della dipendenza da cibo, portando allo sviluppo di biomarcatori e terapie innovative per questo e altri disordini legati all’alimentazione. È ciò che suggerisce uno studio pubblicato di recente su Gut, nel quale vengono identificati alcuni tratti caratteristici del microbiota intestinale associati alla dipendenza da cibo1.

Il microbiota intestinale contiene microrganismi che offrono numerosi benefìci all’organismo che li ospita e sembra condizionare anche alcuni processi neurobiologici. Diversi lavori presenti in letteratura trattano il legame tra microbiota e disturbi come depressione, ansia e autismo, concentrandosi in particolare sulla relazione tra squilibri nel microbiota e abuso di alcolici. I risultati di questa ricerca, ottenuti studiando una coorte di pazienti umani e un campione di roditori, indicano che specifiche variazioni nel microbiota potrebbero prevenire la dipendenza da cibo. «I risultati del nostro studio ci aiuteranno a identificare nuovi biomarcatori per la dipendenza da cibo e a valutare se i batteri possono essere usati come trattamenti per comportamenti legati all’obesità che a oggi difettano di approcci terapeutici efficaci» racconta Rafael Maldonado, direttore del Laboratorio di neurofarmacologia-Neurophar dell’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona e coinvolto nel progetto.

Lo studio ha ricercato segnali del microbiota associati alla dipendenza da cibo in una coorte composta da 88 pazienti classificati utilizzando il questionario Yale Food Addiction Scale (YFAS) 2.0. Il questionario comprende 35 domande che possono essere raggruppate nelle tre categorie utilizzate per definire la dipendenza nel gruppo composto dai roditori: la persistenza nella ricerca di cibo, l’alta motivazione a ottenere cibo e la manifestazione di un comportamento compulsivo. I topi sono stati resi vulnerabili alla dipendenza da cibo applicando una tecnica di interferenza dell’RNA – chiamata Tough Decoy (TuD) – a livello della corteccia media prefrontale, inibendo così il loro autocontrollo e alcune capacità decisionali.




I ricercatori coinvolti nello studio ritengono che la chiave per prevenire lo sviluppo delle caratteristiche comportamentali della dipendenza da cibo sia nascosta nel complesso ecosistema che compone il microbiota intestinale. Studiare le somiglianze tra il microbiota intestinale dei due gruppi, come la diminuzione del genus Blautia negli umani e nei topi dipendenti, ha dato dei segnali positivi: la somministrazione di alcuni probiotici come lattulosio e ramnosio, che favoriscono l’abbondanza del batterio all’interno dell’intestino, ha portato a miglioramenti della condizione.

Gli studi sul microbiota stanno guadagnando sempre più rilevanza in questi anni e per Maldonado e i suoi colleghi la strategia di aggiungere alla dieta alcuni supplementi o microbi benefici per ricreare condizioni favorevoli sembra promettente. «Le firme del microbiota intestinale nei topi e nell’uomo suggeriscono possibili effetti non benefici dei batteri appartenenti al phylum Proteobacteria e potenziali effetti protettivi dell’aumento dell’abbondanza di Actinobacterial e Bacillota contro lo sviluppo della dipendenza da cibo» afferma Elena Martín-García, una delle autrici dello studio. «Abbiamo dimostrato per la prima volta un’interazione diretta tra la composizione dell’intestino e l’espressione genica del cervello, rivelando l’origine complessa e multifattoriale di questo disturbo comportamentale legato all’obesità. La comprensione dell’interazione tra le alterazioni del comportamento e i batteri dell’intestino costituisce un passo avanti per i futuri trattamenti della dipendenza da cibo e dei disturbi alimentari correlati».




Bibliografia

1. Samule˙naite˙ S, García-Blanco A, Mayneris-Perxachs J, et al. Gut microbiota signatures of vulnerability to food addiction in mice and humans. Gut 2024: gutjnl-2023-331445.

Ricerca clinica condotta da pazienti

Non sempre le priorità dei medici e i loro interessi di ricerca coincidono con i bisogni dei pazienti, ma qualcosa sta cambiando. Eva Amsen, in un articolo pubblicato il 3 luglio sul BMJ, prevede che nei prossimi anni assisteremo a ulteriori progressi nel coinvolgimento dei pazienti e del pubblico (patient and public involvement - PPI) negli studi in ambito sanitario1.

Non è raro che queste collaborazioni nascano dai bisogni di singoli pazienti. Amsen racconta la storia di Diana Lewis, affetta da diabete di tipo 1 e capace di creare un pancreas artificiale che utilizza i dati estratti dal monitoraggio continuo di glicemia. Così nacque OpenAPS, una tecnologia che permette di programmare il proprio pancreas artificiale direttamente dal proprio cellulare. Lewis entrò in contatto con medici e ricercatori in occasione delle conferenze a cui era invitata a presentare il progetto e questa rete ha permesso di finanziare e portare avanti un trial, con Lewis nel ruolo di co-investigator, confermando l’efficacia del suo sistema.




Questo è solo uno degli esempi di collaborazioni virtuose tra medici e pazienti. A volte le iniziative partono da organizzazioni nate online da persone affette dalla stessa malattia, come il Patient-Led Research Collaborative for Long Covid. Ciò ha permesso ai pazienti di guidare in modo attivo uno studio lavorando a stretto contatto con alcuni ricercatori, e lo testimonia il fatto che alcuni soggetti sono stati inseriti come co-autori del paper nato da questa cooperazione. Anche quando i progetti partono dalle cliniche o dalle fondazioni si ottengono risultati spesso sorprendenti. Nel 2015 il lancio del Patient Led Research Hub (PLRH) è servito a dare importanza a temi ignorati dalla maggior parte degli studi pubblicati in quegli anni. «La priorità della maggior parte del pubblico era avere informazioni legate alla qualità della vita e la gestione dei sintomi, mentre i finanziamenti si rivolgevano soprattutto a progetti su interventi terapeutici e farmaci».

Il numero di collaborazioni tra pazienti e gruppi di ricerca sta aumentando, ma alcuni membri della comunità scientifica fanno ancora fatica a immaginarsi in sinergia con i pazienti. Oltre a superare la diffidenza di alcuni medici, uno dei problemi maggiori si presenta nella fase di richiesta di finanziamenti. «Quando i gruppi di pazienti hanno il ruolo di co-richiedenti devono allegare un curriculum accademico», racconta Laura Cowley, ricercatrice al PLRH. «E non c’è una voce che identifichi il loro ruolo. Se non hai una formazione in campo medico devi selezionare altro. È una prima interazione molto sgradevole per un paziente». Ma questo, come ogni cambiamento, ha bisogno di tempo e Cowley è ottimista: «In generale le persone sono molto più informate e si sta cominciando a parlare delle sfide che riguardano la ricerca guidata dai pazienti».




Bibliografia

1. Amsen E. The patients bringing lived experience to research teams. BMJ 2024; 386: q1406.

Andrea Calignano

in collaborazione con Cardioinfo.it