La grande fuga: il pronto soccorso come spia dell’avaria del sistema sanitario nazionale

Michela Chiarlo1

1Medicina interna - Presidi specialistici, Città della salute e della scienza di Torino.

Una giornata ordinaria

Sono le otto del mattino. Arrivi (si spera) riposato dopo una notte di sonno. La lista è accettabile, un paziente in attesa da mezz’ora. Lo visiti, chiedi gli esami, lo fai aspettare. Nel frattempo ne registrano un altro paio: uno lo vede il tuo collega, chiami il terzo. Visita, esami, radiografie. Forse c’è anche tempo per un caffè. Avanti così per un paio d’ore, è tutto sotto controllo fino alle undici, quando la situazione si complica. In mezz’ora il triage registra dieci pazienti, nel frattempo sono arrivati gli esami dei cinque già visitati. Qualcuno scalpita per essere dimesso, qualcun altro ha bisogno di ulteriori accertamenti. Così mentre copi la terapia domiciliare del paziente che hai in stanza chiami la radiologia per chiedere la TC di un altro, un consulente si sporge in ambulatorio e ti chiede notizie di un terzo, il medico del 118 ti dà consegne di un quarto che è il prossimo codice arancione registrato. Tieni a mente tutto quanto e cerchi di gestire le attività in parallelo perché è il tuo lavoro e ti piace anche, ma costa ovviamente fatica. In men che non si dica è l’una, sarebbe ora di mangiare, provi a organizzarti con i colleghi per fermarsi a turno, ma arrivano un codice rosso e un arancione in contemporanea e rimandi di una mezz’ora. Succede qualcos’altro, a quel punto sono le due e conviene tirare dritto fino al cambio. Alle tre arriva il collega che comincia subito a visitare nella stanza che occupavi fino a quel momento. Vaghi alla ricerca di un computer perché, per non lasciare una lista infinita, non hai dimesso i pazienti che potevi dimettere e non hai impostato le cartelle di quelli che devi tenere per ricovero o osservazione. A questo punto puoi anche mangiare, sfidando le occhiate di rimprovero di pazienti che oggettivamente aspettano lì dalle nove, ma che hanno anche eseguito in poche ore accertamenti per migliaia di euro che con i normali canali del Servizio sanitario nazionale avrebbero completato in un paio di mesi a essere fortunati. Rivedendo i casi con un minimo di lucidità ti viene il dubbio che uno dei pazienti che stai per dimettere forse meriterebbe un accertamento in più e ti si aprono due strade: lo dimetti con poca convinzione e ti porti a casa la preoccupazione, in fondo fa parte del lavoro, ti piace anche per questo, un medico di pronto che non si assume qualche rischio non è un bravo medico di pronto. Oppure lo trattieni e affronti una strada in salita: il radiologo (già oberato di lavoro) non è convinto dell’ennesimo accertamento che gli chiedi, il collega del pomeriggio increspa il labbro all’idea di un paziente in più (che non ha mai valutato) da dimettere più tardi, il paziente è stufo di passare la giornata sulle scomode sedie della sala d’attesa; torni a casa insoddisfatto perché probabilmente hai creato tutti questi disagi per un sospetto infondato. Altre volte, invece, il sospetto è confermato e sei ripagato da quel brivido di soddisfazione per aver scovato la diagnosi, sensazione che inevitabilmente si mescola al pensiero amaro: “cosa sarebbe successo se lo avessi invece mandato a casa?”.

Una specialità in crisi

Benvenuti in una giornata di ordinario pronto soccorso a Torino, nel 2024. Questa è stata la mia vita per sei anni, inframmezzati da una pandemia e un figlio, poi, conscia di non avere più le risorse fisiche e mentali per reggere il ritmo e conservare un briciolo di energia per la mia vita privata, ho cambiato lavoro.

Fare il medico dell’emergenza-urgenza è un lavoro adrenalinico, entusiasmante, ricco di soddisfazioni, ma estremamente usurante, specie in questo momento storico. Non a caso la specialità, che un decennio fa era molto ambìta, negli ultimi cinque anni ha conosciuto un crollo verticale delle richieste. Quest’anno ben un quarto delle borse destinate all’emergenza-urgenza rimarrà scoperta. Il ministero ha persino lanciato una campagna per incentivare le iscrizioni, sottolineando tutto il bello di questo mestiere.

Seconde vittime

Si salvano vite in pronto soccorso, certo, ed è bellissimo quando accade. Ma si è anche testimoni diretti del momento peggiore della vita di tantissime persone. Come molti altri medici, peraltro; ma un conto è dire ai parenti di un paziente ricoverato che le cose si sono complicate e che morirà a breve; tutt’altra vicenda è chiamare al lavoro una donna il cui numero è stato faticosamente recuperato da una vecchia anagrafica e farla precipitare in ospedale per comunicarle che il marito, in perfetta salute fino al mattino, ha avuto un arresto cardiaco andando a comprare il pane e giace morto in una barella in sala emergenze. Per poi, magari, uscire da quella stanza e dover placare il paziente con la lombalgia che sbraita perché attende da quattro ore di essere visitato.

Il trauma psicologico degli operatori sanitari coinvolti in un evento avverso prende il nome di “second victim syndrome” e, secondo alcuni studi, ne soffre dal 30 al 60% degli operatori sanitari. Nessun altro lavoro oltre a quello del medico ha un carico emotivo simile con queste frequenze. Non a caso molti articoli che parlano del burnout degli operatori dell’emergenza trovano confronti solo con i militari nelle missioni operative, i quali, però, non lavorano in zone di guerra per tutta la propria carriera, non vanno in pensione a 70 anni e godono di supporto psicologico (almeno negli Stati Uniti) dai tempi della guerra nel Vietnam.

Il setaccio

Il pronto soccorso ha anche una caratteristica peculiare che lo rende più soggetto degli altri settori della medicina alle influenze esterne. Il suo compito primario, infatti, è fungere da setaccio: dal mare magnum degli accessi vanno estratte le pepite dei pazienti gravi. Il medico d’urgenza fa un buon lavoro se trattiene i pazienti con l’assoluta necessità di ricovero e se quelli che dimette non tornano e non muoiono. Di fatto il pronto soccorso è un gigantesco test diagnostico con i suoi falsi positivi (ricoveri impropri) e falsi negativi (dimissioni improprie) e quindi con la sua sensibilità e specificità. Come per i test diagnostici, sensibilità e specificità possono essere regolate: si può avere una specificità altissima e non dimettere nessuno inappropriatamente, ma “costerà” in termini di falsi positivi, cioè si finirà per ricoverare molte più persone. Il decisore sul numero di ricoveri, però, non è il pronto soccorso e non sono nemmeno i reparti. Il decisore è politico, dipende dalle strategie della regione e dal numero di posti letto disponibili per abitante.

In più il pronto soccorso, a differenza dei test diagnostici, si situa in un ambiente imprevedibile e ha a disposizione risorse finite. Se si hanno a disposizione tre medici e sette infermieri per turno, quelle dieci persone si dovranno occupare degli accessi di otto ore, che siano essi 20, 50, 100 o potenzialmente 10.000.

Conseguenza diretta di queste due caratteristiche (“specificità” del sistema imposta dall’alto e imprevedibilità del flusso con risorse finite) è che la qualità del lavoro e la qualità di vita del lavoratore dell’emergenza dipendono da fattori esterni e non dall’impegno profuso o dalle abilità acquisite. A nessuno, però, piace lavorare male. Immaginate un imbianchino. All’inizio è inesperto e per dipingere un metro quadro di parete ci mette mezz’ora, poi, con gli anni impara a farlo in 10 minuti. Ma nella sua giornata lavorativa che deve essere di 8 ore e non di più (gli straordinari oltre a non essere pagati sono molto penalizzati negli obiettivi di risultato) potrebbe dover imbiancare 40, 60 o 100 mq. Cosa farà nella giornata da 100 mq? Darà una mano di vernice anziché due, si arrabatterà, forse riuscirà a imbiancarne solo 90, alla fine della giornata guarderà l’appartamento, vedrà le imperfezioni e sarà stanco e insoddisfatto. Ora aggiungeteci il cliente che vede un lavoro mal fatto e lo denuncia perché ha pagato un professionista stimato e il lavoro che gli è stato consegnato è (obiettivamente) inaccettabile. O il cliente che, scontento per il ritardo, lo insulta, lo aggredisce o gli taglia le gomme dell’auto. Pensate che l’imbianchino continuerà a fare a lungo questo lavoro? Pensate che pagarlo di più o affiancargli una guardia del corpo risolverà la situazione?

Fare bene il pronto soccorso, però, è difficile e richiede anni di allenamento per padroneggiare quell’equilibrio tra prendersi troppi rischi e sprecare risorse in esami inutili, per ottenere l’occhio clinico che consente di valutare in un secondo la gravità di una situazione o le insidie nascoste in un quadro apparentemente innocuo, per allenare il multitasking e la gestione parallela di più problemi insieme senza arrestare il lavoro, per essere veloci sempre senza trascurare nulla di essenziale, per carpire quel tanto di conoscenza da ogni specialità che consente di sapere sempre chi chiamare e quando. Non è un lavoro per principianti né più né meno di qualunque altra specialità. Eppure si pretende che un lavoro:

difficile,

emotivamente impegnativo,

intenso e faticoso (almeno in questo momento storico),

ad alto rischio medico-legale e di aggressione,

economicamente remunerato allo stesso modo di altri lavori che non hanno l’insieme delle precedenti caratteristiche

… sia svolto dalle stesse persone per quarant’anni? È davvero possibile? Forse sì, ma di certo non a queste condizioni.

Worn-out

Il rischio, per gli operatori dell’emergenza, non è solo il burn-out, evento esplosivo frutto di un accumulo di pressione e stress, quanto il worn-out, l’usura. L’inevitabile lento affaticamento che coinvolge tutti, non solo i più fragili, e li porta in qualche anno a consumarsi, come un calzino non più rammendabile. C’è un limite all’empatia che si può dimostrare in una giornata, alle lamentele che si possono sopportare in un turno, alle disgrazie che si possono vedere in un mese. La batteria emotiva va ricaricata e serve tempo per elaborare gli eventi avversi. Eppure, le stesse ragioni che mettono in crisi il sistema sovraccaricano di lavoro gli operatori dell’emergenza esistenti, accelerando il processo di usura e causando l’abbandono progressivo della professione. L’unica soluzione è lavorare di meno. Il sistema è disponibile a pagare di più; ma introducendo i turni a gettone a carico sempre degli stessi scarsi professionisti non fa che accelerare il processo di consunzione in un circolo vizioso. Investire gli stessi soldi per supportare chi già lavora nel sistema dell’emergenza e per ridurre il carico di lavoro, in termini quantitativi (ore al mese), se non è fattibile in termini qualitativi (pazienti al giorno), sarebbe senza dubbio più proficuo.

La spia

Possiamo decidere o no che ci interessi aggiustare il pronto soccorso, ma la verità è che il pronto soccorso è la spia del malessere del sistema, è il “troppo pieno” di un sistema idraulico, il canarino della miniera. I lavoratori dell’emergenza sono schiacciati tra l’incudine della riduzione dei posti letto e il martello dell’abbandono dei servizi sul territorio. Soffrono quando il sistema inizia a cedere e le loro condizioni lavorative possono peggiorare improvvisamente aggravando il peso di un mestiere già faticoso ed emotivamente impegnativo. Probabilmente sarebbe necessaria una riorganizzazione di tutto il sistema sanitario, non solo della rete dell’emergenza. Ma se vogliamo ridurre l’emorragia di professionisti formati che sempre più abbandonano il pronto soccorso dopo qualche anno di esperienza, bisogna puntare a migliorare la loro qualità di vita.




Bisogna prevedere un supporto psicologico obbligatorio, un adeguato bilancio tra tempo passato in ospedale e tempo passato fuori. La qualità di vita sta tornando (fortunatamente) un punto focale per le nuove generazioni e la retorica dell’“ai miei tempi…” non può bastare a salvarci.