Libri

Oppio & poesia
«Fintanto che voi continuerete a vendere oppio
e indurre il popolo cinese ad acquistarlo,
vi mostrerete poco preoccupata della vita
dei vostri sudditi e indifferente al male
che fate agli altri…»
Lin Ze-Xu: Lettera alla regina Vittoria, 1839
“Goblin Market” è una breve e splendida composizione poetica scritta da Christina Georgina Rossetti nel 1862. Questo poemetto, che avrebbe dovuto essere destinato ad un pubblico infantile, risulta troppo complesso per i bambini ed è diventato di fatto una lettura per adulti. Già la critica letteraria del tempo l’aveva giudicato un’opera geniale per versatilità ed originalità (Macmillan’s Magazine, 1863).
Le protagoniste sono due bambine, Laura e Lizzy, che ogni mattina, quando vanno ad attingere acqua al ruscello, incontrano numerosi folletti che le invitano ad acquistare frutti fragranti e molto belli.
Sono bozzetti affascinanti per inventiva, ricchezza di esposizione e profondità del sentire: geniali sequenze di parole preziose creano versi di grande musicalità. In sottofondo, un tono di nostalgica malinconia. Per questo suo temperamento e per le intermittenti crisi depressive, la Rossetti visse per lunghi anni in isolamento, soffrendo di gravi e diverse malattie fino all’anno della sua morte, nel 1894.




Del suo poemetto è stata, di recente, pubblicata, per i tipi della CUEN di Napoli, una nuova edizione italiana Il mercato dei folletti –, tradotta e curata da Giuseppe Giusti, Emerito di Malattie Infettive nella Seconda Università di Napoli. Giusti è un poliedrico, raffinato studioso, bibliofilo, appassionatissimo anglologo. Da qui il suo primo interesse per la “chicca” della Rossetti: interesse filologico, estetico.
Ma poi, ecco la notazione più originale: l’ipotesi eziologica dell’ispirazione dell’Autrice. Così Giusti l’espone in una postfazione che ha l’asciuttezza e il rigore di un Case Report: «Un articolo, comparso su “Nineteenth-Century Literary Criticism” nel dicembre 2008, menziona alcune interpretazioni date a “Goblin Market.” Descrizione di un episodio fantastico ad impronta eroica; esaltazione dell’affetto tra sorelle; allegoria sulla tentazione e la redenzione; analisi critica sulla situazione socio-economica del periodo vittoriano. Io prospetto un’ipotesi differente: “Il mercato del folletti” potrebbe essere una descrizione poetica della dipendenza da oppio assunto per via orale, della crisi di astinenza e della difficile, ma possibile, guarigione dalla dipendenza. Driscoll riporta questo brano scritto da un medico inglese nel 1873: “… una sera dell’agosto 1871 le farmacie di Wisbeach erano affollate da clienti che, senza parlare, poggiavano un penny sul bancone e ricevevano in cambio una scatola di pillole di oppio”. Oltre l’assunzione volontaria di pillole di oppio, sin dalla fine del millesettecento la dipendenza da oppio poteva essere iatrogena. I medici, per alleviare il dolore dei pazienti, prescrivevano frequentemente la tintura di laudano, che si otteneva macerando l’oppio nel vino. La terapia causava spesso dipendenza.
Un caso paradigmatico è quello del celebre poeta Samuel Taylor Coleridge (1772-1884), al quale per croniche artralgie fu somministrato laudano che provocò dipendenza. Fu sotto l’influenza del laudano che il poeta compose Kubla-Khan, uno dei suoi capolavori. E fu per guarire dalla dipendenza che Coleridge si ricoverò in una casa di cura a Londra.
Possiamo supporre che Christina Rossetti sia stata curata con laudano per una delle sue malattie e che nel suo poemetto abbia descritto la propria dipendenza, la crisi di astinenza ed infine la difficile e penosa guarigione.»

Fin qui il Giusti, la cui intuizione scientifico-letteraria si impone tanto più alla condivisione del lettore, quanto più si approfondisce e s’apprezza la rapinosa rabdomanzia del verso rossettiano.
E dunque, oltre alle qualità di cui si è detto, il libro riproposto dal nostro medico-umanista, ha il merito – ancora una volta – di testimoniare e valorizzare il superamento della troppo a lungo accreditata distinzione snowiana delle “due culture”. Gli si dia, quindi, e di cuore, un duplice, fervido benvenuto.

Cecilia Bruno
Medicina dei miracoli
o miracoli della medicina?
«Quello che è più incomprensibile è che ci sia ancora
qualcosa di comprensibile»
Albert Einstein
Il rapporto tra medicina e religione è stato indagato da numerosi studi e da diversi punti di vista. Un volume recente, di cui è Autrice una autorevole medico-storiografa, ne riconduce la radice alla secolare e incessante ricerca sulla realtà e sulla natura dei miracoli, fenomeno generalmente interpretato, finora, in un’ottica fideistica. Ottica che, invece, in queste pagine, diventa quella della coesistenza, antica quanto il mondo, dell’uomo e della malattia; e della constatazione – si badi: non della fiducia in – di alcune guarigioni “impossibili” secondo i canoni delle nostre attuali conoscenze: Medical miracles. Doctors, saints, and healing in the modern world. Jacalyn Duffin. Pagine 286. Oxford University Press, New York-London 2009. Dollari 29,95. ISBN 978-0-19-533650-4. «Non c’è nulla di bello, piacevole e grandioso nella vita – scriveva più di un secolo fa René de Chateaubriand – che non sia più o meno misterioso. Considerata la propensione naturale dell’uomo al misterioso, non può apparire sorprendente che le religioni abbiano i loro segreti impenetrabili».



La Duffin è una scienziata laica, imparziale; eppure, in più di un’occasione deve confrontare le proprie opinioni ed ipotesi con lo scetticismo pregiudiziale di colleghi e/o altri autori. Ma le sue sono documentazioni, argomenti, fatti ed esperienze forti, che nascono da un episodio vissuto con buona coscienza ed intensa curiosità culturale. Vale a dire da una testimonianza peritale su un caso di inspiegabile remissione leucemica, richiamato nel corso di un processo di canonizzazione. Questa consulenza schiuse mente e cuore della ricercatrice e le austere, segretissime porte degli archivi vaticani. Mesi di lavoro assiduo, minuzioso, scevro da qualsiasi pregiudizio. Passo dopo passo, l’A. guida il lettore attraverso l’analisi di oltre 1400 miracoli, dal lontano 1588 fino ai nostri giorni: ma è un itinerario irto di difficoltà, un cammino troppo impervio a causa di migliaia di notazioni specialistiche, di enigmi linguistici e di ambiguità paleografiche, così da concludersi – inevitabilmente – con l’auspicio di ulteriori approfondimenti ed investigazioni mirate. Tornano alla mente le franche e dolenti parole del Guicciardini: «I miracoli sono segreti della natura, alle ragioni dei quali altro non possono gli intelletti degli uomini aggiungere».
Dopo un capitolo introduttivo (su riti e rituali di santificazione), la Duffin intraprende un approccio statistico al fenomeno “miracoli”, in una serie di saggi dedicati ai numerosi temi correlati: alla postulazione, alle diverse patologie-trigger, al ruolo delle perizie mediche ed allo scenario, drammatico, costituito da invocazioni, pellegrinaggi, attese fideistiche, rapimenti mistici e guarigioni (?). Le cifre sono quantitativamente impressionanti ma troppo generiche: l’Autrice stessa lo riconosce e, prudente, si pone in guardia contro il rischio di una diagnostica non retrospettiva. Peraltro aveva già sottolineato, sin dai primi rilievi della sua ricerca, quanto siano attenti e scrupolosamente cauti gli studiosi vaticani nel correlare guarigioni miracolose ai mezzi terapeutici del tempo (attraverso i secoli e in diverse regioni del mondo),  tenendo altresì presente i lunghi intervalli che solitamente intercorrono tra l’evento e le indagini della Chiesa. La Duffin è favorevolmente colpita dalla ponderatezza dei processi canonici, nutriti da dibattiti medico-biologici di alto livello e sempre molto aggiornati, sia per la metodologia diagnostica (anche strumentale) sia per i trattamenti: non c’è posto per concessioni men che razionali e non comprovate. Il risultato è che la medicina – quella, in ogni e diverso tempo, comunque basata sulle prove – l’ha fatta e continua a farla da padrone nelle aule dei giudizi canonici dei cattolici. La Duffin riconduce tale alleanza ad una comune finalità: la fede in un agire che aiuti la persona umana a convivere con l’idea della sofferenza e della finitudine. Sia questa tesi, sia l’argomentare dell’Autrice appaiono discutibili; ma anche per questo si prestano a contribuire ad un dibattito tutt’altro che accademico, in quanto coinvolgente i fondamenti – fisici, psicologici, emozionali ed etici – di ognuno di noi. Quelli che il Lautréamont ha definito come «le grandi angosce dell’intelligenza dei mortali».

Alice Morgan