Dalla letteratura

Cambiamenti climatici:
che relazione tra eventi piovosi e mortalità?

Nella seconda settimana di ottobre il BMJ ha dedicato un intero numero al clima e i cambiamenti climatici, aprendo con un articolo che ha approfondito il rapporto tra rainfall events – eventi piovosi – e mortalità1.

Cheng He et al. hanno rilevato che eventi di pioggia con un tempo di ritorno (il numero di anni che in media separa il verificarsi di due eventi di intensità eguale o superiore a una assegnata) di cinque anni sono associati a un aumento dell’8% della mortalità per tutte le cause (RR 1,08; intervallo di confidenza (IC) al 95% da 1,05 a 1,11), del 5% della mortalità cardiovascolare (RR 1,05; IC al 95% da 1,02 a 1,08) e del 29% della mortalità respiratoria (RR 1,29; IC al 95% da 1,19 a 1,39) durante un periodo tra 0 e 14 giorni dopo l’evento. Gli eventi di pioggia con un periodo di ritorno di due anni sono stati associati solo a un aumento della mortalità respiratoria (1,14, da 1,05 a 1,23), mentre non sono state trovate associazioni significative per gli eventi con un periodo di ritorno di un anno.

Per lo studio, che ha raccolto dati tra il 1980 e il 2020, sono stati identificati un totale di 50.913 eventi di pioggia con un periodo di ritorno di un anno, 8.362 eventi con un periodo di ritorno di due anni e 3.301 eventi con un periodo di ritorno di cinque anni.

L’associazione tra meteorologia e salute ha radici profonde: in un articolo pubblicato originariamente nel 1924 sul JAMA, gli autori scrivevano di come i medici avessero riconosciuto che la luce solare aveva proprietà benefiche che aiutavano nel trattamento della tubercolosi e del rachitismo, basando questo collegamento sulla semplice osservazione4. Oggi invece comprendiamo il ruolo della luce ultravioletta nella sintesi della vitamina D.

Dopo cento anni, tuttavia, rimangono ancora molte le sfide che impediscono la comprensione completa dell’associazione tra eventi pluviometrici ed esiti sanitari: due criticità indicate dai ricercatori sono la difficolta nel capire un rapporto di causalità tra l’intensità delle precipitazioni e gli outcome di salute, e la complessità nel definire gli eventi stessi.

Inoltre, gli autori hanno riconosciuto che la linea che divide i benefìci degli effetti piovosi da quelli negativi è molto sottile: sebbene le precipitazioni moderate possano mitigare il caldo estivo e contribuire a ridurre l’inquinamento atmosferico, che a sua volta potrebbe ridurre alcuni rischi ambientali per la salute, gli eventi di pioggia di alta intensità, bassa frequenza e breve durata possono avere un effetto particolarmente dannoso, in quanto possono provocare il sovraccarico delle infrastrutture, l’aumento della riproduzione di agenti patogeni e l’aumento del rischio associato a diversi tipi di inquinanti.

Secondo un editoriale uscito sul BMJ e firmato da John Ji della University of Washington e Tsinghua University, tra le caratteristiche inedite dello studio che meritano di essere evidenziate c’è il modello di intensità-durata-frequenza che He et al. hanno utilizzato per analizzare gli eventi pluviometrici, che ha offerto maggiori spunti rispetto alle tradizionali analisi a metrica singola3.

Tra i risultati inaspettati, secondo gli autori, c’è stata la rilevazione che la copertura vegetale è un fattore più importante delle precipitazioni medie annue o della densità di popolazione per quanto riguarda gli effetti sulla salute durante gli eventi piovosi estremi: la vegetazione aiuta ad assorbire l’acqua piovana in eccesso, a stabilizzare il suolo e a ridurre il deflusso superficiale, riducendo così gli effetti dannosi delle inondazioni e la diffusione di malattie trasmesse dall’acqua.

Prima di concludere, alcuni limiti evidenziati dagli stessi autori: sebbene l’analisi abbia incluso diversi Paesi in tutti i continenti, le località analizzate erano principalmente situate in Asia orientale, Europa e Nord America, con un numero minore di località in America Latina e Africa. Questo ha limitato la rappresentatività globale dei rischi stimati e ha sottolineato la necessità di uno studio più granulare che si concentri sulle caratteristiche individuali o sui contesti clinici.

«Eppure le forze della disinformazione continuano ad attaccare la verità del cambiamento climatico e i suoi legami con la salute» ha scritto l’editor in chief del BMJ Kamran Abbasi in un contributo che accompagna l’articolo2. «Le false narrazioni fioriscono sui social media, incontrollate e amplificate da algoritmi che prendono il controllo. L’intelligenza artificiale aggiunge una nuova dimensione alla diffusione di false informazioni. Ma possiamo reagire».




Bibliografia

1. He C, Breitner-Busch S, Huber V, et al. Rainfall events and daily mortality across 645 global locations: two stage time series analysis. BMJ 2024; 387: e080944.

2. Abbasi K. Climate change: defeating misinformation with trusted knowledge. BMJ 2024; 387: q2211.

3. Ji JS. Rainfall events and adverse health outcomes. BMJ 2024; 387: q2053.

4. Medicine and meteorology. JAMA 2024; 331: 1508.

Andrea Calignano,

in collaborazione con Gastroinfo.it

Ictus ischemico: quando iniziare la terapia con i DOAC?

Nuove evidenze a favore dell’inizio precoce di una terapia con anticoagulanti orali ad azione diretta (DOAC) nel trattamento dell’ictus ischemico associato a fibrillazione atriale. Sono stati presentati al sedicesimo World Stroke Congress (WSC 2024) e simultaneamente pubblicati online su Lancet, i risultati del trial OPTIMAS (1).

Lo studio ha mostrato la non inferiorità dell’inizio di una terapia con DOAC nei primi quattro giorni dopo l’evento rispetto a un suo inizio nei giorni successivi, considerando un endpoint composito di ictus ischemico, sanguinamento intracranico, ictus non classificabile o embolia sistemica a 90 giorni.

Lo studio OPTIMAS si proponeva di fare luce su una zona grigia nell’utilizzo di anticoagulanti nei pazienti con ictus ischemico acuto associato a fibrillazione atriale: il momento ottimale dell’inizio del trattamento. “Da un lato, desideriamo iniziare anticipatamente la terapia per ridurre le recidive precoci di ictus ischemico. D’altro canto, però, si teme che l’avvio precoce dell’anticoagulazione possa causare sanguinamenti intracranici, compresa la trasformazione emorragica dell’ischemia”, ha detto David Werring, neurologo dell’University College London che ha coordinato lo studio, intervistato da Medscape. “Le linee guida su questo tema sono incoerenti e hanno richiesto studi di controllo randomizzati in quest’area”.

Con questa premessa, i ricercatori hanno studiato l’efficacia e la sicurezza di un inizio precoce della terapia con DOAC nei pazienti con ictus ischemico acuto associato a fibrillazione atriale. Nello specifico, OPTIMAS è uno studio di fase IV, multicentrico, a gruppi paralleli, randomizzato e controllato, con un intervento in aperto, una valutazione degli endpoint in cieco e un disegno gerarchico di non inferiorità-superiorità, che ha confrontato l’inizio precoce e ritardato dei DOAC su 3.621 pazienti (il 45% donne) con fibrillazione atriale e ictus ischemico acuto. Lo studio è stato condotto in 100 ospedali del Regno Unito.

L’endpoint primario si è verificato in 59 (3,3%) dei 1.814 partecipanti al gruppo di somministrazione precoce dei DOAC rispetto a 59 (3,3%) dei 1.807 partecipanti al gruppo di inizio ritardato (differenza di rischio aggiustata [RD] 0,000; 95% CI -0,011 a 0,012). Il limite superiore dell’intervallo di confidenza al 95% per la differenza di rischio aggiustata era inferiore al margine di non inferiorità di 2 punti percentuali (p=0,0003). In termini di superiorità, invece, la differenza tra i due gruppi non è risultata statisticamente significativa (p=0,96).

«I nostri risultati non supportano la pratica raccomandata dalle linee guida di ritardare l’inizio del DOAC dopo un ictus ischemico con fibrillazione atriale, indipendentemente dalla sua gravità clinica, dalla riperfusione o da una precedente anticoagulazione» ha commentato Werring, sottolineando anche i benefici logistici che questa scelta porta con sé. «Possiamo iniziare l’anticoagulazione prima che i pazienti vengano dimessi dall’ospedale, garantendo così che il farmaco per la prevenzione secondaria venga sempre prescritto, quando è appropriato. Questo sarà un vantaggio fondamentale nel mondo reale».

Lo studio OPTIMAS aveva l’obiettivo di reclutare una popolazione rappresentativa di pazienti con ictus acuto e fibrillazione atriale, comprendendo anche quelli con ictus grave. Tuttavia, sono stati esclusi i partecipanti con le forme più gravi di trasformazione emorragica (cioè l’emorragia parenchimale di tipo 2), per i quali ancora non è chiaro il momento migliore per iniziare il trattamento. Inoltre, non è chiaro quanti pazienti con questa condizione siano stati inclusi nello studio e quali siano stati per loro gli esiti specifici.

Il chair della sessione del WSC in cui sono stati presentati i risultati del trial OPTIMAS, Craig Anderson, ha commentato lo studio per Medscape e ha messo in guardia i lettori sul fatto che l’inizio precoce dei DOAC potrebbe risultare problematico per i gruppi di persone che presentano un rischio di sanguinamento elevato, tra cui le popolazioni asiatiche, sottolineando che questi studi hanno incluso prevalentemente pazienti bianchi (93,7%), oltre che per le persone anziane o fragili che potrebbero avere un’estesa malattia dei piccoli vasi.




Al congresso è stata inoltre presentata una nuova meta-analisi, nota come CATALYST, che ha incluso tutti gli studi randomizzati ora disponibili sul tema degli ictus ischemici con fibrillazione atriale (TIMING, ELAN, OPTIMAS e START), per un totale di 5.411 pazienti. Questo studio ha mostrato un chiaro beneficio dell’inizio precoce, definito entro 4 giorni dall’ictus, rispetto a quello più tardivo, 5 giorni o più, su un endpoint primario composito di nuovo ictus ischemico, sanguinamento intracerebrale sintomatico e ictus non classificato a 30 giorni.

Bibliografia

1. Werring DJ, Hakim-Moulay D, Ahmed N, et al. Optimal timing of anticoagulation after acute ischaemic stroke with atrial fibrillation (OPTIMAS): a multicentre, blinded-endpoint, phase 4, randomised controlled trial. Lancet 2024; 24 ottobre.

Andrea Calignano,

in collaborazione con Neuroinfo.it

Le nuove linee guida americane per la prevenzione dell’ictus

La American Heart Association e l’American Stroke Association hanno pubblicato le linee guida aggiornate per la prevenzione dell’ictus. Pubblicate sulla rivista Stroke, le nuove raccomandazioni sostituiscono la versione del 2014 e offrono ai medici indicazioni basate sull’evidenza per prevenire l’ictus in individui senza una storia pregressa di eventi cardiovascolari.

Le linee guida evidenziano l’importanza dello screening per i fattori di rischio tradizionali come ipertensione, diabete e fumo, ponendo al contempo l’attenzione su nuovi fattori di rischio come l’emicrania e l’endometriosi. Per i pazienti con emicrania, si consiglia ai medici di valutare e modificare i fattori di rischio vascolare e di raccomandare di evitare la contraccezione ormonale combinata.

Il documento sottolinea poi l’importanza di affrontare i fattori dello stile di vita modificabili. Una dieta mediterranea, la sostituzione del sale per alcuni anziani, una regolare attività fisica e il mantenimento di un peso sano sono tutti fattori raccomandati per la riduzione del rischio di ictus.

Inoltre, le nuove linee guida forniscono raccomandazioni specifiche per la salute delle donne, tra cui un attento monitoraggio della pressione sanguigna durante la gravidanza e il periodo postpartum, lo screening per condizioni come l’endometriosi e l’insufficienza ovarica prematura e la raccomandazione di contraccettivi orali a basso dosaggio di estrogeni.

Pur riconoscendo la necessità di ulteriori ricerche in alcune aree, come l’impatto dei determinanti sociali della salute e la relazione tra ictus e contraccezione ormonale, queste linee guida offrono un approccio completo e aggiornato alla prevenzione dell’ictus. Implementando queste raccomandazioni, concludono gli autori delle raccomandazioni, «i medici possono contribuire in modo significativo a ridurre l’incidenza dell’ictus e a migliorare gli esiti dei pazienti».

Bibliografia

1. Bushnell C, Kernan WN, Sharrief AZ, et al. 2024 Guideline for the Primary Prevention of Stroke: a guideline from the American Heart Association/American Stroke Association. Stroke 2024; 21 ottobre.

PPI e rischio cardiovascolare

Una recente revisione pubblicata su Expert Opinion on Drug Safety ha approfondito la relazione tra inibitori di pompa protonica (PPI) e rischio cardiovascolare in pazienti con malattia cardiovascolare preesistente. Sebbene i PPI siano efficaci per proteggere lo stomaco da una situazione di eccessiva acidità, infatti, esistono delle preoccupazioni riguardo alla loro sicurezza a lungo termine, in particolare per coloro che sono già a rischio di complicanze cardiovascolari.

Questa revisione, condotta da Aitor Lanas-Gimeno (Hospital de 12 de Octubre, Madrid) e Ángel Lanas (Hospital Clínico Universitario, Zaragoza), ha analizzato studi clinici randomizzati, studi osservazionali e meta-analisi pubblicati tra il 2013 e il 2019, evidenziando prove contrastanti sulla relazione tra uso dei PPI e rischio cardiovascolare. Infatti, mentre diversi studi osservazionali suggeriscono un aumento del rischio di eventi cardiovascolari e mortalità negli utilizzatori di PPI a lungo termine, in particolare quelli con malattie cardiovascolari o in terapia antipiastrinica, molti studi clinici randomizzati e meta-analisi non confermano tali risultati.

Una discrepanza, questa, che potrebbe essere attribuita a diversi fattori, tra cui le limitazioni intrinseche degli studi osservazionali, come il bias di selezione e l’incapacità di tenere pienamente conto delle variabili confondenti. Inoltre, la revisione ha osservato che non esiste una chiara spiegazione meccanicistica di come i PPI possano indurre direttamente eventi cardiovascolari, a eccezione di una potenziale interazione con il metabolismo di una classe di farmaci antipiastrinici: le tienopiridine.




Gli autori suggeriscono che l’anemia, un effetto collaterale comune nei pazienti che assumono sia PPI che terapia antipiastrinica, potrebbe essere un fattore cruciale che collega l’uso di questi farmaci antiacido al rischio cardiovascolare. Nello specifico, secondo Lanas-Gimeno e Lanas i PPI potrebbero contribuire all’anemia alterando il microbiota intestinale, portando potenzialmente a lesioni erosive nell’intestino tenue.

In conclusione la revisione sottolinea la necessità di condurre studi progettati meglio per fornire evidenze più solide circa questa ipotesi, ma anche di esplorare altre potenziali spiegazioni. Sebbene i PPI rimangano uno strumento prezioso per la gestione delle condizioni correlate all’acido, i medici dovrebbero essere vigili nel monitorare i potenziali eventi avversi, inclusa l’anemia, ed esplorare strategie alternative laddove appropriato.

Bibliografia

1. Lanas-Gimeno A, Lanas Á. Adverse events in patients with cardiovascular disease taking proton pump inhibitors. Expert Opin Drug Saf 2024; Oct 28: 1-11.

In collaborazione con Gastroinfo

Il delicato equilibrio tra microbiota intestinale e stress cronico nel carcinoma del colon-retto

Intervenendo su alcuni batteri intestinali in un campione di topi, alcuni ricercatori hanno individuato in questo modello animale una relazione tra lo stress e il microbiota intestinale nella progressione del carcinoma del colon-retto (CRC).

Questo è il contenuto di uno studio presentato durante il congresso annuale della United European Gastroenterology, la UEG Week 2024, che si è tenuto dal 12 al 15 ottobre a Vienna.

I ricercatori coinvolti nello studio ritengono che il potenziale delle terapie a base di lactobacillo, in particolare nel trattamento di pazienti con stress cronico, sia promettente anche se ancora in uno stadio embrionale. «Combinare i tradizionali farmaci antitumorali con l’integrazione di Lactobacillus plantarum (L. plantarum) potrebbe essere una strategia terapeutica valida per i pazienti con carcinoma del colon-retto legato allo stress», ha dichiarato Quing Li, ricercatore presso il West China Hospital della Sichuan University of China e lead researcher dello studio. In ogni caso, Li et al. sottolineano come la sicurezza e i potenziali effetti collaterali di questa terapia combinata dovranno essere attentamente valutati in futuri studi clinici.




«Abbiamo utilizzato un cocktail di antibiotici (vancomicina, ampicillina, neomicina e metronidazolo) per eradicare nei topi il microbiota intestinale. In seguito abbiamo eseguito un trapianto di microbiota fecale per verificare se il microbiota intestinale fosse necessario per accelerare la progressione del carcinoma del colon-retto causato dallo stress cronico» ha spiegato Li.

I risultati hanno mostrato che lo stress cronico non solo velocizza la crescita del tumore ma riduce i benefici associati al microbiota intestinale, soprattutto quelli legati al genere Lactobacillus. «I lactobacilli, essendo sensibili alla vancomicina e all’ampicillina, sono stati ridotti dal cocktail antibiotico sia nel gruppo di controllo sia in quello sottoposto a stress». Questo ha predisposto i due gruppi verso uno sviluppo simile del tumore del colon-retto.




Successivamente, i ricercatori coinvolti nello studio hanno integrato la presenza di lactobacilli nei topi durante un periodo di stress cronico e hanno osservato una minore progressione del tumore. Attraverso le analisi della metabolomica fecale, Li et al. hanno ipotizzato che L. plantarum, agendo come regolatore dei metaboliti degli acidi biliari, potrebbe aver influenzato l’attività dei linfociti T CD8+, che svolgono un importante ruolo immunitario nei confronti delle cellule tumorali.

Uno dei risultati inaspettati emersi nel corso dello studio è proprio il rapporto tra i lactobacilli e i linfociti T CD8+: «Inizialmente pensavamo che L. plantarum potesse potenziare la funzione immunitaria antitumorale delle cellule T CD8+ avviando la produzione di metaboliti, come suggerito da precedenti scoperte» ha spiegato Li. «Tuttavia, quando abbiamo utilizzato il terreno condizionato da colture di L. plantarum in vitro, abbiamo scoperto che questo non stimolava significativamente le cellule T CD8+ a produrre citochine come IFN-gamma e TNF-alfa rispetto al terreno MRS di controllo. Pertanto, ipotizziamo che L. plantarum possa richiedere sostanze specifiche presenti nell’ambiente intestinale ed eseguire trasformazioni metaboliche per produrre metaboliti che migliorano l’immunità antitumorale delle cellule T CD8+. In alternativa, L. plantarum potrebbe metabolizzare e trasformare sostanze che inibiscono l’immunità antitumorale delle cellule T CD8+ per eliminare l’inibizione sulle cellule T CD8+. Queste ipotesi devono ancora essere verificate con esperimenti».

Secondo Li et al., uno degli aspetti più promettenti dello studio è che i lactobacilli sono batteri che proliferano rapidamente, consentendo la produzione di grandi quantità a basso costo. Inoltre, i ricercatori dovranno considerare strategie per migliorare la colonizzazione dei lattobacilli nell’intestino, per esempio incapsulandoli con una fibra prebiotica come l’inulina per proteggerli dai succhi gastrici.

In conclusione, questo studio evidenzia la complicata relazione tra stress, microbiota intestinale e carcinoma del colon-retto, suggerendo che le strategie per ripristinare la salute dell’intestino possono svolgere un ruolo critico nel trattamento del cancro, in particolare per i pazienti che soffrono di stress cronico.

«Abbiamo in programma di raccogliere campioni fecali e tumorali di pazienti affetti da carcinoma del colon-retto per analizzare i cambiamenti nel microbiota intestinale in soggetti con e senza stress cronico. Questo ci permetterà di verificare se anche L. plantarum è significativamente ridotto nei pazienti affetti da carcinoma del colon-retto con stress. Allo stesso tempo, analizzeremo la relazione tra questi cambiamenti e le cellule immunitarie infiltranti il tumore. Infine, dobbiamo continuare a esplorare il meccanismo con cui L. plantarum regola il metabolismo degli acidi biliari» ha detto Li, commentando le domande alle quali lui e il suo gruppo hanno intenzione di rispondere nel futuro.

Andrea Calignano,

in collaborazione con Gastroinfo.it