Ritratto di Francesco Nonino:
metodo e fotografia




Lavoro e formazione professionale

Il suo ruolo di direttore del gruppo geografico di Cochrane Italia ci suggerisce di aprire questa conversazione con una domanda diretta: la medicina basata sulle prove è ancora attuale?

Io credo che sia più attuale che mai: negli ultimi anni abbiamo avuto diverse dimostrazioni di come la pratica clinica abbia bisogno di prove scientifiche valide e affidabili che informino le decisioni di salute da condividere tra medico e paziente. L’esempio più clamoroso è stata la situazione di emergenza della pandemia, durante la quale si è scatenata una ricerca frenetica, con studi per lo più di bassa qualità metodologica, sui farmaci più svariati, che hanno dato una pletora di risultati molto eterogenei e spesso addirittura in conflitto tra loro. Il rumore di fondo generato da questa ricerca non ha aiutato clinici e pazienti, e la mancanza di prove scientifiche valide a cui fare riferimento ha anzi lasciato spazio a teorie infondate, rischiando anche di oscurare i risultati della ricerca di qualità che pure è stata portata a termine durante quel periodo. Questo è un esempio estremo, ma situazioni simili, anche se di proporzioni ridotte, esistono in altri campi della medicina clinica e della ricerca.

La discussione innescata diversi anni fa da un articolo di Trisha Greenhalgh sul Bmj sulla necessità di un “rinascimento” della Ebm ha rafforzato o indebolito la medicina e la sanità basata sulle evidenze?

Credo che sia necessario e salutare interrogarsi periodicamente su opportunità e limiti di un paradigma diffuso, quale è la Ebm. L’articolo della Greenhalgh ha ormai dieci anni, ma su ciascuno degli spunti della sua analisi vale ancora la pena di riflettere. Alcuni problemi, come ad esempio l’ingestibilità del volume di evidenze da gestire, la necessità di distinguere i benefici statisticamente significativi da quelli clinicamente rilevanti e l’inadeguatezza di alcuni strumenti Ebm – come le linee guida cliniche centrate su una specifica patologia – nel gestire situazioni di co-patologie multiple, sono quanto mai rilevanti. Sta a noi lavorare per minimizzare o risolvere questi limiti della Ebm e Ebhc, rafforzandole.

In alcuni dialoghi simili a questo e pubblicati su Rpm alcuni clinici si sono augurati “una maggiore flessibilità” della Ebm per adattarsi più facilmente al lavoro assistenziale: cosa risponderebbe a questo invito?

Il termine “flessibilità” lo associo soprattutto alla necessità di adattare le decisioni di salute al singolo individuo. La medicina si deve basare su prove valide e affidabili, ma non può essere applicata rigidamente a tutti i pazienti nello stesso modo. Citando ancora l’analisi critica della Greenhalgh: regole inflessibilmente applicate mediante supporti decisionali tecnologici possono produrre un sistema di cura che diventa “management driven” anziché centrato sul paziente. Un paziente può presentare numerose co-patologie, ciascuna della quali con un livello di gravità – e quindi di priorità di cura – diverso, e ciascuno ha aspettative, valori e priorità individuali, alle quali le decisioni devono essere adattate. Proprio per questo, però, i clinici hanno bisogno di un punto fermo, di una certezza da cui partire che non può essere basata su un’opinione, ma su solide prove scientifiche. Un riferimento scientifico valido è importante per costruire un rapporto di fiducia tra medico e paziente. Non c’è niente di peggio per un paziente che andare da uno specialista per sentire una seconda opinione e sentirsi dire il contrario di quello che gli è appena stato detto dal suo specialista di fiducia, come succede quando la medicina è “opinion-based”.

La flessibilità di adattamento al lavoro assistenziale può essere anche intesa come fattibilità: il clinico non può permettersi di consultare pagine di documenti mentre lavora. La quantità di informazioni disponibili e continuamente aggiornate è incompatibile con i tempi della pratica assistenziale. Per questo dobbiamo dotarci di validi metodi per la sintesi delle prove e di supporti decisionali consultabili al letto del malato o in ambulatorio. Per fortuna abbiamo già sia gli uni che gli altri, non resta che diffonderne l’uso.

L’arrivo dei nuovi farmaci per la malattia di Alzheimer ha innescato una discussione sul significato di efficacia di un intervento terapeutico. Dal suo punto di vista, quali caratteristiche deve avere un trattamento per potersi definire efficace?

Gli anglosassoni traducono la parola “efficacia” in due modi: “efficacy” ed “effectiveness”. La prima è sostanzialmente basata sulla stima numerica ottenuta in uno studio clinico dal confronto tra due alternative (ad esempio terapeutiche) mediante un calcolo matematico, mentre la seconda rappresenta la ricaduta della “efficacy” nella pratica clinica, ed è quindi molto più rilevante per i pazienti. Se uno studio ci fornisce una stima numerica nettamente a favore del trattamento studiato, ma i pazienti inclusi nello studio hanno caratteristiche diverse da quelli che vediamo nella nostra pratica clinica, la sua “effectiveness” è per noi limitata. Se un farmaco ha una grande “efficacy” riguardo a un indicatore di salute poco rilevante per i malati, che senso ha usarlo? Con questo non voglio negare l’importanza delle stime numeriche, che rimangono indispensabili nella ricerca, ma ritengo che queste, anche se sono statisticamente significative e con valori numericamente importanti, vanno valutate criticamente. Un terzo concetto da valutare è la “efficiency”, che esprime il valore aggiunto di un intervento rispetto a quanto sia già disponibile e alle risorse che dobbiamo mettere in campo per erogarlo. Questo è un discorso più complesso e contesto-specifico, in quanto ci entra il fattore costo, ma ovviamente entra nel concetto più ampio di efficacia e deve essere valutato assieme a “efficacy” ed “effectiveness” da parte di chi prende decisioni di salute pubblica.

Molti ricercatori si stanno spendendo per un maggiore coinvolgimento dei pazienti nelle varie fasi della ricerca. Secondo lei quali sono le strategie migliori per massimizzare i benefici di tale coinvolgimento?

Il coinvolgimento dei pazienti nella pianificazione e conduzione degli studi, e nella interpretazione e diffusione dei loro risultati, è indispensabile per fare ricerca utile su temi rilevanti e concretamente finalizzata al miglioramento dell’assistenza. Questo vale soprattutto per la ricerca clinica, in quanto nessuno meglio di un paziente o di un suo caregiver sa cosa significhi stare “meglio” o “peggio” e quindi come sia più appropriato misurare il suo stato di salute. I pazienti dovrebbero anche essere coinvolti nella sintesi delle prove scientifiche (revisioni sistematiche della letteratura) e nella produzione di linee guida per la pratica clinica. Le esperienze che ho vissuto personalmente come metodologo in questi ambiti sono state estremamente positive. Un maggiore coinvolgimento dei pazienti sarebbe auspicabile nella ricerca clinica indipendente, sugli interventi non farmacologici, sui servizi assistenziali e nella ricerca traslazionale. La divulgazione e diffusione dei risultati della ricerca rappresentano una forma importante di knowledge translation che dovrebbe essere fatta in collaborazione tra le istituzioni sanitarie e di ricerca, e i pazienti e le loro associazioni. Rappresentanti dei pazienti dovrebbero sedere ai tavoli dove i risultati della ricerca sono il supporto decisionale per scelte di politica sanitaria. Anche nei comitati etici, dove il rappresentante dei pazienti già è presente, a mio parere dovremmo trovare il modo – assieme alle segreterie e ai presidenti – di incentivarne una partecipazione più attiva.

In molti contesti clinici, ad esempio nell’ambito di alcune malattie rare neurologiche e non, si lamenta la mancanza di set definiti di core outcomes. Cosa comporta una situazione di questo tipo?

Fare ricerca richiede l’impiego di ingenti risorse umane e finanziarie, e di molto tempo. Ciascuna di queste tre cose è preziosissima per qualsiasi sistema sanitario. È quindi importante che l’efficacia di un intervento venga dimostrata utilizzando indicatori di salute (outcome) validi e rilevanti per i pazienti e per i clinici. Purtroppo ciò non sempre accade. La ricerca profit dell’industria farmaceutica ha un fine regolatorio, è cioè primariamente orientata all’ottenimento dell’autorizzazione al commercio di un farmaco o dispositivo. Questo implica che la scelta degli outcome rappresenti nella migliore delle ipotesi un compromesso tra ciò che è importante per i pazienti (effectiveness) e ciò che più probabilmente darà un risultato statisticamente significativo (efficacy). Nell’ambito della ricerca no-profit la carenza di sinergia e coordinamento porta spesso a risultati eterogenei e difficilmente confrontabili: studi sulla stessa patologia utilizzano outcome diversi, misurati con scale e strumenti diversi, in tempistiche diverse… Se gli studi su una determinata malattia misurassero l’efficacia di un intervento con una maggiore omogeneità di outcome, sarebbe possibile confrontare gli studi tra loro, capire meglio i determinanti di eventuali differenze e cumularne i risultati in revisioni sistematiche e meta-analisi che ci consentirebbero di osservare stime che i singoli studi non riescono a dimostrare. La ricerca in questo modo sarebbe più utile e più efficiente. Questi presupposti sono particolarmente validi nell’ambito delle malattie rare, dove da un lato c’è un bisogno pressante di terapie efficaci, e d’altra parte non possiamo aspettarci grandi trial con centinaia di pazienti, adeguatamente potenziati per dimostrare piccole differenze. È quindi molto importante raggiungere un accordo tra ricercatori e pazienti su quali parametri siano utili per dimostrare l’efficacia e la sicurezza di una terapia. Un Core outcome set è costituito dagli indicatori di salute essenziali che la ricerca in un determinato ambito dovrebbe adottare (naturalmente con la possibilità di aggiungerne altri nei singoli studi). Il concetto di Core outcome set è relativamente recente e non ancora molto diffuso nell’ambito della ricerca, ma anche qui non dobbiamo inventarci nulla: esistono già metodi collaudati per svilupparli.

A suo parere, quali sono i fattori che fanno sì che l’Ebm non sia alla base della didattica nelle facoltà di medicina?

Premetto che non conosco i programmi didattici di tutte le facoltà di medicina italiane, e che quindi mi baso solo su esperienze aneddotiche, se pur numerose. La lacuna più grave nella formazione dei nostri medici è che i principi base della metodologia della ricerca e dell’epidemiologia, per quel che vedo, vengono per lo più ignorati nel curriculum delle facoltà di medicina. L’Ebm potrebbe essere definita come “epidemiologia applicata” ed è quindi, per chi decide di fare il clinico, un’utile applicazione dei principi metodologici ed epidemiologici alla pratica clinica. Se vogliamo praticare una medicina basata sulle prove, esse vanno capite, valutate criticamente e adeguatamente interpretate. A maggior ragione, chi tra i nostri laureati decide di “generare” le prove scientifiche, cioè di intraprendere la strada della ricerca, si trova ancor più svantaggiato da questa lacuna didattica. Pur senza negare l’ovvia importanza degli aspetti clinici delle malattie, in entrambi gli ambiti – assistenziale e di ricerca – conoscere almeno le basi dell’epidemiologia e della metodologia della ricerca è indispensabile, e va trovato lo spazio per insegnarle.

Uno dei temi al centro della sua attività è la sintesi delle evidenze per la produzione di linee guida e raccomandazioni cliniche:
è possibile – e come – conciliare il bisogno di disporre di linee guida aggiornate e la necessità di seguire una metodologia rigorosa nella produzione di raccomandazioni?

Il problema di conciliare rigore e tempestività viene vissuto in tutti i sistemi sanitari dove si decide di adottare politiche sanitarie evidence-based. Questa esigenza ha portato a una intensa ricerca metodologica e traslazionale che ci ha fornito molti strumenti per produrre sintesi delle evidenze e linee guida aggiornate in tempi ragionevoli. Quindi, per fortuna, anche in questo caso, come già detto per i Core outcome set, i metodi esistono già. Negli ultimi anni si è definita e affinata una metodologia rigorosa ed esplicita per produrre revisioni sistematiche rapide (realizzabili cioè in poche settimane o qualche mese) e rendere tempestivamente disponibili sintesi di evidenze da utilizzare per formulare raccomandazioni. Il metodo GRADE, che consente di sviluppare raccomandazioni evidence-based in modo esplicito e riproducibile, è ormai adottato dalle maggiori istituzioni sanitarie di tutto il mondo. La sua diffusione e applicazione pratica ha consentito di sviluppare e testare ulteriori strumenti metodologici per conciliare rigore e tempestività, come ad esempio la possibilità di adottare o adattare localmente raccomandazioni di linee guida già esistenti anziché svilupparle ex-novo.

Prendendo spunto da esperienze concrete, sono state sviluppate indicazioni metodologiche per produrre raccomandazioni rapide in situazioni di particolare gravità, come emergenze sanitarie ambientali o epidemiche. Infine, sempre maggiore diffusione stanno avendo le metodologie per un aggiornamento continuo delle sintesi delle prove e delle linee guida, le cosiddette “living rapid systematic reviews” e “living recommendations”. Le risorse vengono impiegate non per duplicare un lavoro di sintesi delle prove e sviluppo di raccomandazioni, ma per mantenere aggiornate quelle già esistenti. In tutte queste pratiche una grande risorsa potrà essere rappresentata dall’intelligenza artificiale. In ogni caso, anche se abbiamo metodi validi a cui fare riferimento, per raggiungere il connubio rapidità/rigore metodologico il punto cruciale sono gli investimenti. Se le istituzioni sanitarie italiane credono nel paradigma Ebm e nell’utilità di linee guida e raccomandazioni cliniche, dovranno adottare un serio piano di investimenti, sulla formazione e sugli aspetti organizzativi di sistema.

Lettura, scrittura, aggiornamento

Come suggerirebbe a una giovane ricercatrice o ricercatore di mantenersi aggiornati?

Consiglierei di scegliere 2-3 riviste sull’argomento centrale del loro lavoro, e iscriversi alla newsletter per “sorvegliarne” l’indice e leggere gli articoli più interessanti. Se fanno anche attività assistenziale, farei la stessa cosa con le riviste “top” (Jama, Nejm, Bmj, Annals of Internal Medicine, Lancet). Per l’aggiornamento consiglio di evitare i congressi sponsorizzati dall’industria e frequentare ambienti indipendenti con menti libere (sono pochi ma ci sono).

Ha una sua rivista scientifica preferita? Se sì, quali caratteristiche la rendono tale?

Non ho una rivista scientifica preferita, anche perché per il mio lavoro devo leggere spesso articoli di molte riviste. Seguo Journal of Clinical Epidemiology perché è una rivista autorevole in campo metodologico. Più che una rivista, comunque, ho degli autori preferiti che seguo su riviste diverse. In questo senso trovo utile Google Scholar.

Come potrebbe cambiare in meglio la letteratura scientifica?

I consigli più utili li ho letti nel recente libro di Luca De Fiore “Sul pubblicare in medicina”. Tentare – se non di interrompere – almeno di arginare la spirale perversa del “publish or perish”, spostando i criteri valutativi dei ricercatori sulla qualità anziché sulla quantità; fare meno ricerca, ma pensata e condotta meglio; più trasparenza e condivisione di tutti i risultati, anche quelli negativi; maggiore coinvolgimento della medicina delle cure primarie nella ricerca; creare una nuova generazione che creda nella necessità di un cambiamento, iniziando dalla scuola.

Passioni

La sua passione per la fotografia l’ha portata a iniziare un progetto di documentazione fotografica delle librerie medico-scientifiche della regione in cui vive: cosa le piacerebbe emergesse da questo suo lavoro?

Attraverso la fotografia vorrei valorizzare le biblioteche come luoghi fisici dove fermarsi a studiare e a pensare, attività che richiedono un particolare stato d’animo. Non importa se le riviste su carta non hanno più ragione di essere accumulate sugli scaffali: la biblioteca dovrebbe rimanere un rifugio mentale per concentrarsi, magari anche sul computer o lo smartphone. Un posto che, a differenza di una anonima sala-studio, è carico di storia e di sapere e magari ci trovi anche il numero cartaceo della referenza che stai cercando. Alcune biblioteche, inoltre, sono veri gioielli architettonici che andrebbero adeguatamente valorizzati.

A proposito di progressiva scomparsa degli spazi bibliotecari, le capita ancora di leggere fascicoli di riviste di carta?

Purtroppo no, ma spesso – quando devo leggere attentamente un manoscritto – preferisco stamparlo su carta. La fisicità della carta offre un’esperienza diversa dal monitor, che aiuta la memorizzazione.

Curiosità

Cambiamo decisamente argomento: in cucina preferisce stare ai fornelli o a tavola?

A tavola.

Fa attività sportiva? Ha uno sport preferito?

Mi piace fare passeggiate nei boschi, e d’inverno amo sciare.




Ha libri sul comodino?

Sì, molti, che leggo in parallelo.

Ricorda l’ultimo libro che ha regalato?

“Giallo Cromo” di Aldous Huxley.

Se dovesse scegliere un romanzo e un film che un giovane ricercatore dovrebbe conoscere, quali sarebbero?

È una domanda a cui non so rispondere: ogni giovane ricercatrice e ricercatore è innanzitutto una persona con – auspicabilmente – tanti altri interessi oltre alla ricerca. Una ispirazione per il proprio lavoro potrebbe arrivare da opere che non hanno nulla a che vedere con la scienza: le possibilità sono infinite…

Potendo invitare a cena una persona nota, chi sceglierebbe?

Wim Wenders.

Immagini di poter avere in regalo una fotografia originale, anche molto famosa e di valore:
quale le piacerebbe avere?

Qualsiasi fotografia originale di Mario Giacomelli.

Se le piace andare al cinema o vederli in tv, qual è l’ultimo film che ha visto?

“Caracas” di Marco D’Amore.

Dove trascorre le vacanze?

Sull’Appennino Tosco-Emiliano e in Friuli-Venezia Giulia.

Qual è la città italiana dove va più volentieri?

Venezia.