Dalla letteratura

Il ruolo dell’intelligenza artificiale nella diagnosi precoce delle MASLD

Un algoritmo alimentato dall’intelligenza artificiale (IA) sarebbe in grado di rilevare con precisione la malattia epatica associata a disfunzione metabolica (MASLD) precoce utilizzando i dati contenuti nelle cartelle cliniche elettroniche dei pazienti.

Le malattie del fegato colpiscono circa il 30% della popolazione adulta statunitense: la loro prevalenza è in aumento e spesso non vengono rilevate fino alle fasi più avanzate. Uno studio presentato al Liver Meeting 2024, congresso organizzato a San Diego tra il 15 e il 19 novembre dall’American Association for the Study of Liver Diseases, ha rivelato che una soluzione potrebbe arrivare dall’IA.

La MASLD è dovuta all’eccessivo accumulo di lipidi negli epatociti ed è spesso associata a malattie comuni come l’obesità, il diabete di tipo 2 e livelli di colesterolo anormali. Potrebbe capitare che la malattia in fase precoce non venga notata dai medici, essendo in gran parte asintomatica fino allo sviluppo della cirrosi.

«A una percentuale significativa di pazienti che soddisfano i criteri per la MASLD, la patologia non viene diagnosticata», ha detto Ariana Stuart dell’Università di Washington, lead author dello studio. «Questo è preoccupante perché i ritardi nella diagnosi precoce aumentano la probabilità di progressione verso una malattia epatica avanzata».

Per analizzare i dati contenuti nelle cartelle cliniche elettroniche e identificare i pazienti che avrebbero potuto avere una diagnosi di MASLD, i ricercatori hanno utilizzato un algoritmo di IA. L’algoritmo ha scoperto che 834 pazienti soddisfacevano i criteri per una diagnosi di MASLD, ma di questi solo 137 la avevano nella loro cartella clinica. Dopo un’analisi manuale dei casi eseguita in modo indipendente da due ricercatori, questi hanno confermato che l’algoritmo aveva raggiunto un’accuratezza di circa l’88% rispetto alla diagnosi manuale.

L’IA avrebbe quindi il potenziale per aiutare l’identificazione precoce della MASLD, consentendo interventi mirati per prevenire la progressione della malattia e migliorare gli esiti. «I nostri risultati non devono essere interpretati come una carenza di formazione dei medici o come mancanze nella gestione delle cure primarie», ha concluso Stuart. «Al contrario, il nostro studio mostra come l’IA possa integrare il flusso di lavoro dei medici per affrontare i limiti della pratica clinica tradizionale».

In collaborazione con Gastroinfo.it




Valutare la sicurezza dei farmaci “small molecules” nelle IBD

Un gruppo di ricercatori del First Affiliated Hospital of Anhui Medical University, in Cina, ha condotto uno studio pubblicato di recente su Digestive and Liver Disease per approfondire il rischio di infezioni e tumori negli adulti con IBD trattati con inibitori delle Janus (JAK) chinasi e modulatori del recettore S1P1.

Tradizionalmente, la gestione delle IBD si basava su aminosalicilati, corticosteroidi e immunosoppressori. Rispetto ai biologici, i farmaci “small molecules” offrono vantaggi come la mancanza di immunogenicità, i bassi costi di produzione, la facilità di somministrazione e una migliore compliance al trattamento. Tuttavia, presentano anche rischi, tra cui effetti off-target, interazioni farmacologiche e aumento degli eventi avversi. Attualmente, i farmaci “small molecules” approvati o in fase II, III e IV di sperimentazione clinica per il trattamento di pazienti adulti affetti da IBD refrattaria e perciò inclusi nella meta-analisi sono tofacitinib, filgotinib, upadacitinib, peficitinib; i modulatori del recettore S1P sono ozanimod ed etrasimod.

Partendo da 27 trial randomizzati controllati è stata valutata l’efficacia e la sicurezza di filgotinib (4 studi), upadacitinib (8 studi), tofacitinib (6 studi), peficitinib (2 studi) – tra gli inibitori delle JAK chinasi – ed etrasimod (3 studi) e ozanimod (4 studi) – tra i modulatori del recettore S1P – per pazienti adulti affetti da IBD. Sono stati considerati in totale 10.623 partecipanti: 7.422 nel gruppo di intervento e 3.201 nel gruppo di controllo. Rispettivamente, nei due gruppi, l’età media era 41 anni e la durata media della malattia era 7,5 anni. I periodi di follow-up variavano da 8 a 58 settimane.

Nello studio sono stati approfonditi i rischi associati ai farmaci “small molecules” nel caso di infezioni generiche e opportunistiche, herpes zoster, infezioni gravi, neoplasie cutanee epiteliali (NMSC) e altri tumori. La meta-analisi non ha trovato prove che questi trattamenti aumentino il rischio di infezioni opportunistiche e gravi. Coerentemente con i risultati di precedenti studi, non è stata riscontrata alcuna differenza significativa nell’insorgenza di infezioni gravi tra questi trattamenti e i placebo2.

Secondi i ricercatori coinvolti, sono necessarie ulteriori ricerche per determinare se altri farmaci “small molecules” possano contribuire all’insorgenza di malattie infettive come la tubercolosi, e la meta-analisi non ha fornito prove definitive di un impatto significativo di questi sul rischio di sviluppare un tumore

Questo forse è dovuto alle difficoltà metodologiche che uno studio di questo tipo porta con sé. La meta-analisi aveva diversi limit, come definizioni differenti per gli endpoint nei diversi studi, le discrepanze nel dosaggio dei farmaci, nei metodi di somministrazione, nella durata del trattamento e nella durata del follow-up. Inoltre, i tempi di esposizione e di follow-up sono ritenuti inadeguati: la durata dell’esposizione variava da 8 a 16 settimane e il periodo di follow-up più lungo è di 58 settimane, insufficiente per analizzare gli esiti tumorali. I ricercatori coinvolti nello studio hanno poi sottolineato come tutti gli studi inclusi siano stati sponsorizzati da aziende farmaceutiche, il che ha sollevato in loro alcune preoccupazioni circa possibili bias.

In conclusione, queste evidenze possono contribuire a guidare la pratica clinica e ad aiutare i medici a valutare più accuratamente i rischi e i benefici di questi farmaci. Tuttavia, i ricercatori hanno affermato che sono necessarie ulteriori ricerche in contesti reali per aumentare le prove esistenti e comprenderne i rischi di sicurezza a lungo termine.




Bibliografia

1. Chen L, Su C, Ding H, Mei Q. Small molecules for inflammatory bowel disease and the risk of infection and malignancy: a systematic review and meta-analysis. Dig Liver Dis 2024; 56: 1828-38.

2. Solitano V, Vuyyuru SK, MacDonald JK. Efficacy and safety of advanced oral small molecules for inflammatory bowel disease: systematic review and meta-analysis. J Crohns Colitis 2023; 17: 1800-16.

Andrea Calignano

In collaborazione con Gastroinfo.it

Accesso ai Pronto soccorso prima della diagnosi di tumore, dati preoccupanti

Circa 1 paziente oncologico su 3 ha visitato un Pronto soccorso nei 90 giorni precedenti la diagnosi. Lo afferma uno studio pubblicato sul Canadian Medical Association Journal (CMAJ)1, che suscita importanti interrogativi.

I ricercatori canadesi, coordinati da Keerat Grewal dello Schwartz/Reisman Emergency Medicine Institute del Mount Sinai Hospital di Toronto, hanno preso in esame nello studio più di 650.000 pazienti con diagnosi di tumore effettuata tra il 2014 e il 2021 in Ontario; il 35% (229.683) ha visitato un Pronto soccorso nei 90 giorni precedenti la diagnosi. Tra i pazienti che si erano recati al Pronto soccorso prima della diagnosi di cancro, il 64% si era recato una volta, il 23% due volte e il 13% tre o più volte. Più della metà (51%) dei pazienti con visita al Pronto soccorso prima della diagnosi è stata ricoverata in ospedale.

«Il Pronto soccorso non è l’ambiente ideale per gestire i pazienti con una sospetta diagnosi di cancro», spiega Grewal. «I dipartimenti di emergenza sono abitualmente sovraffollati e hanno una privacy limitata. Ricevere una sospetta diagnosi di cancro in questo ambiente è stato descritto dai pazienti come angosciante». I Pronto soccorso forniscono in genere cure per patologie acute e/o episodiche e la maggior parte di essi non è attrezzata per fornire assistenza continua dopo una sospetta diagnosi di tumore, che è essenziale per confermare la diagnosi e garantire che i pazienti siano visitati dagli specialisti appropriati.

«Sebbene alcuni pazienti possano richiedere il ricovero in ospedale a causa dei sintomi o delle complicazioni legate alla presentazione del tumore, fare affidamento sul ricovero in ospedale per garantire o accelerare i test e il follow-up dal dipartimento di emergenza è costoso e contribuisce all’affollamento dell’ospedale, soprattutto se questi possono essere effettuati in ambito ambulatoriale», scrivono gli autori.

La maggior parte delle visite al Pronto soccorso registrata nello studio era legata ai sintomi del tipo di cancro diagnosticato. I pazienti a cui è stato successivamente diagnosticato un tumore del colon-retto hanno effettuato visite al Pronto soccorso per ostruzione intestinale e dolore addominale, mentre quelli con tumore gastroesofageo hanno effettuato visite al pronto soccorso per sanguinamento gastrointestinale, difficoltà di deglutizione e dolore addominale. I pazienti con tumori cerebrali avevano alte probabilità di recarsi al Pronto soccorso prima della diagnosi per debolezza, confusione o convulsioni. In diversi gruppi di pazienti si sono riscontrate maggiori probabilità di ricorrere al Pronto soccorso prima di una diagnosi di cancro: anziani, persone provenienti da aree rurali, persone che vivono in quartieri emarginati, persone con comorbilità.

Questi dati fanno riflettere su come l’accesso al Pronto soccorso sia una “scorciatoia” – voluta od obbligata – per accedere a procedure diagnostiche altrimenti poco accessibili per tempi e costi. Oppure sul fatto che la consapevolezza sui rischi e i sintomi del cancro è ancora drammaticamente poco diffusa in alcune fasce della popolazione, che comunque presentano gravi difficoltà, per motivi economici o sociali, ad accedere a una corretta assistenza sanitaria. I risultati canadesi sono coerenti con quelli di studi precedenti condotti nel Regno Unito e negli Stati Uniti.




Bibliografia

1. Grewal K, Calzavara A, McLeod SL, et al. Emergency department use before cancer diagnosis in Ontario, Canada: a population-based study. CMAJ 2024; 196: E1252-61.

David Frati

In collaborazione con oncoinfo.it

Diagnosi dell’Alzheimer. Gli esperti dell’IWG:
“I biomarcatori non bastano”

Una recente pubblicazione su JAMA Neurology ha riacceso il dibattito sulla definizione e la diagnosi della malattia di Alzheimer1. L’International Working Group (IWG), un comitato di 46 esperti di Alzheimer provenienti da 17 Paesi che hanno esaminato le evidenze a oggi disponibili sul tema, ha infatti contestato i nuovi criteri proposti dall’Alzheimer’s Association2 che definiscono la patologia neurodegenerativa basandosi esclusivamente su biomarcatori, sostenendo invece l’importanza di una diagnosi clinico-biologica.

La definizione proposta enfatizza infatti la necessità, per effettuare una diagnosi di Alzheimer, del riscontro sia dei sintomi clinici sia dei biomarcatori fisopatologici, sostenendo che una definizione puramente biologica potrebbe portare a un’interpretazione errata delle manifestazioni della malattia. Inoltre, l’IWG ha anche sottolineato i rischi legati all’uso di indagini e biomarcatori in individui cognitivamente normali, mettendo in guardia dal rischio di sovradiagnosi e sovratrattamento.

Le raccomandazioni degli esperti dell’IWG sottolineano infatti che i biomarcatori non sono equivalenti della malattia di Alzheimer ma semplicemente indicatori del deposito di proteine tossiche che correlano con la patologia. Questa sfumatura consente di categorizzare gli individui con biomarcatori anomali in due gruppi: quelli con test di memoria anomali, verosimilmente affetti dalla patologia, e quelli con test normali, con un rischio maggiore di svilupparla ma da considerare ancora come non affetti.




Bibliografia

1. Dubois B, Villain N, Schneider L, et al. Alzheimer Disease as a Clinical-Biological Construct: an International Working Group Recommendation. JAMA Neurol 2024; 1 novembre.

2. Jack CR Jr, Andrews JS, Beach TG, et al. Revised criteria for diagnosis and staging of Alzheimer disease: Alzheimer’s Association Workgroup. Alzheimers Dement 2024; 20: 5143-69.

In collaborazione con Neuroinfo.it.

Sostituzione transcatetere della tricuspide nei pazienti con rigurgito grave:
nuove evidenze

Uno studio pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine ha studiato l’efficacia e la sicurezza della sostituzione transcatetere della valvola tricuspide rispetto alla sola terapia medica in pazienti con rigurgito tricuspidale grave, una condizione associata a sintomatologia debilitante e a un aumentato rischio di morte1.

Lo studio TRISCEND II ha arruolato 400 pazienti in 45 centri negli Stati Uniti e in Germania, assegnandoli in modo casuale, con un rapporto 2:1, alla sostituzione transcatetere della valvola tricuspide con sistema EVOQUE + terapia medica o alla sola terapia medica. L’endpoint primario era un composito gerarchico di morte per qualsiasi causa, impianto durevole di un dispositivo di assistenza ventricolare destro o trapianto di cuore, intervento chirurgico sulla valvola tricuspide o intervento tricuspidale percutaneo dopo qualsiasi intervento indice, tasso annualizzato di ospedalizzazione per scompenso cardiaco cardiaca, un miglioramento di almeno 10 punti nel punteggio del Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire overall summary (KCCQ-OS), un miglioramento di almeno una classe funzionale della New York Heart Association (NYHA) e un aumento della distanza percorsa a piedi in sei minuti di almeno 30 m.

La sostituzione transcatetere della valvola tricuspide è risultata superiore alla sola terapia medica per l’esito composito primario, guidata principalmente da miglioramenti nei sintomi e nella qualità della vita. A un anno, il win ratio a favore della sostituzione della valvola era 2,02 (IC al 95%, da 1,56 a 2,62; p<0,001). Lo studio non era sufficientemente ampio da cogliere differenze in merito ai singoli parametri dell’endpoint composito ma nei confronti tra coppie di pazienti quelli nel gruppo di sostituzione della valvola hanno avuto più vittorie rispetto al gruppo di controllo rispetto alla morte per qualsiasi causa (14,8% contro 12,5%), all’intervento sulla valvola tricuspide post-indice (3,2% contro 0,6%) e al miglioramento nel punteggio KCCQ-OS (23,1% contro 6,0%), nella classe NYHA (10,2% contro 0,8%) e nella distanza percorsa a piedi in 6 minuti (1,1% contro 0,9%). Il gruppo di sostituzione della valvola ha invece avuto meno vittorie rispetto al gruppo di controllo rispetto al tasso annualizzato di ospedalizzazione per scompenso cardiaco (9,7% contro 10,0%).

In termini di sicurezza, tuttavia, a 30 giorni si è verificato un decesso per qualsiasi causa nel 3,5% dei pazienti nel gruppo di sostituzione transcatetere della valvola tricuspide e in nessun paziente nel gruppo di controllo, un decesso per cause cardiovascolari rispettivamente nel 3,1% e in nessun paziente e un sanguinamento grave rispettivamente nel 10,4% e nell’1,5%. A un anno, si è verificato un sanguinamento grave nel 15,4% dei pazienti nel gruppo di sostituzione valvolare e nel 5,3% di quelli nel gruppo di controllo (p=0,003). Inoltre, aritmie e disturbi della conduzione che hanno portato all’impianto permanente di un pacemaker si sono verificati nel 17,8% dei pazienti nel gruppo di sostituzione della valvola e nel 2,3% di quelli nel gruppo di controllo (p<0,001).

«Siamo nelle fasi iniziali dell’evoluzione della sostituzione transcatetere della valvola tricuspide e il suo posto appropriato nell’algoritmo di trattamento per il rigurgito grave è ancora in fase di definizione», ha commentato Patrick O’Gara del Brigham and Women’s Hospital di Boston in un editoriale2. «Il compito arduo di tentare di migliorare il destino dei pazienti nelle fasi avanzate del decorso della malattia è stato focalizzato in modo più netto. Sono necessari un riconoscimento precoce e un tempestivo indirizzamento al trattamento, insieme a miglioramenti nella progettazione del dispositivo, nelle competenze procedurali, nella gestione del pacemaker e nell’assistenza post-procedurale».

Bibliografia

1. Hahn R, Makkar R, Thourani VH, et al. Transcatheter valve replacement in severe tricuspid regurgitation. N Eng J Med 2024; 30 ottobre.

2. O’Gara P. Early-stage results with transcatheter tricuspid-valve replacement. N Eng J Med 2024; 30 ottobre.

Fabio Ambrosino

In collaborazione con Cardioinfo.it

Pesticidi e cancro della prostata

Identificati 22 pesticidi il cui utilizzo è associato all’incidenza del carcinoma prostatico negli Stati Uniti: quattro di questi pesticidi sono risultati anche correlati alla mortalità per carcinoma prostatico. Lo afferma uno studio pubblicato su Cancer1, la rivista dell’American Cancer Society.

Per valutare le associazioni dell’utilizzo di 295 diversi pesticidi con il tumore della prostata nelle contee degli Stati Uniti, i ricercatori coordinati da Simon John Christoph Soerensen della Stanford University School of Medicine hanno condotto uno studio di associazione ambientale, utilizzando un periodo di ritardo tra l’esposizione e l’incidenza del tumore della prostata di 10-18 anni per tenere conto della natura a crescita lenta della maggior parte di questi tumori. Gli anni 1997-2001 e 2002-2006 sono stati valutati per l’uso di pesticidi mentre gli anni 2011-2015 e 2016-2020 sono stati analizzati per gli esiti del tumore della prostata.

Ventidue pesticidi hanno mostrato associazioni dirette e coerenti con l’incidenza di tumore della prostata in entrambe le coorti. Di questi, quattro pesticidi sono stati associati anche alla mortalità per questa causa. Nella coorte di replica, ogni aumento di 1 deviazione standard nell’uso di pesticidi log-trasformato corrispondeva a un aumento dell’incidenza per 100.000 individui (trifluralin, 6,56 [intervallo di confidenza (CI) al 95%, 5,04-8,07]; cloransulam-metile, 6,18 [CI al 95%, 4,06-8,31]; diflufenzopir, 3,20 [CI al 95%, 1,09-5,31]; e thiamethoxam, 2,82 [CI al 95%, 1,14-4,50]). Tra i 22 pesticidi che hanno mostrato associazioni dirette coerenti con l’incidenza di tumore della prostata in entrambe le analisi temporali ve ne erano tre che erano stati precedentemente collegati al tumore della prostata, tra cui il 2,4-D, uno dei pesticidi più frequentemente utilizzati negli Stati Uniti. I 19 pesticidi candidati non precedentemente collegati a questo tipo di tumore comprendevano 10 erbicidi, diversi fungicidi e insetticidi e un fumigante del suolo.

Quattro pesticidi collegati all’incidenza sono stati associati anche alla mortalità per tumore della prostata: si tratta di tre erbicidi (trifluralin, cloransulam-metile e diflufenzopir) e un insetticida (thiamethoxam). Solo il trifluralin è classificato dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente come “possibile cancerogeno per l’uomo”, mentre gli altri tre sono considerati “non probabilmente cancerogeni” o hanno prove di “non cancerogenicità”.

«Questa ricerca dimostra l’importanza di studiare le esposizioni ambientali, come l’uso di pesticidi, per spiegare potenzialmente alcune delle variazioni geografiche che osserviamo nell’incidenza del tumore della prostata e dei decessi per questa patologia», ha dichiarato Soerensen. «Basandoci su queste scoperte, possiamo far progredire i nostri sforzi per individuare i fattori di rischio per il tumore della prostata e lavorare per ridurre il numero di uomini colpiti da questa malattia».

Bibliografia

1. Soerensen SJ, Lim DS, Montez‐Rath ME, et al. Pesticides and prostate cancer incidence and mortality: An environment‐wide association study. Cancer 2024; 4 novembre.

David Frati

In collaborazione con Oncoinfo.it