“Per il loro bene”. La morte medicalmente assistita:
un diritto per chi?

Giuseppe R. Gristina

1Medico, anestesista rianimatore.

Pervenuto il 21 ottobre 2024. Accettato il 31 ottobre 2024.

«La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi,
non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia; dal mondo esterno,
che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane;
infine dalle nostre relazioni con altri esseri umani».

S. Freud. “Il disagio nella civiltà”, 1929

«Tra noi e voi c’è una sola differenza: la percezione del dolore».

A.M.M. – Degente presso l’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà in Roma dal 1953 al 1994

Riassunto. Premessa. La questione dei criteri di ammissione alle procedure di morte medicalmente assistita (Mma) – eutanasia (E) e suicidio medicalmente assistito (Sma) – è fortemente dibattuta. Nella gran parte delle legislazioni che hanno codificato la Mma il criterio di ammissione fondamentale è costituito dalla sofferenza insopportabile causata da una malattia terminale. La sofferenza psichica causata da un disturbo mentale o da una condizione esistenziale, rappresenta, ancorché intollerabile, un criterio di esclusione. Alcuni considerano questa impostazione nel primo caso protettiva delle persone considerate vulnerabili in quanto non in grado di compiere scelte libere e consapevoli, nel secondo necessaria per allineare gli approcci giuridici ai modelli morali prevalenti; altri invece la ritengono un’ingiustificata discriminazione. Scopo. Dimostrare che, per comprendere se una persona che lo chiede possa essere ammessa alla Mma, è la sua sofferenza che andrebbe indagata, non solo e non tanto per i suoi determinanti, quanto per il suo ruolo nella genesi della richiesta di Mma. Contenuti. Dopo aver descritto gli aspetti specifici della sofferenza in relazione ai suoi tre determinanti (sofferenza esistenziale, da disturbo mentale, da malattie terminali), si dimostra che: a) queste condizioni, diverse tra loro, sono accomunate dalla dinamica dei processi psicologici che generano la sofferenza intollerabile e, per suo tramite, la richiesta di Mma o l’ideazione/compimento del suicidio; b) discriminare l’accesso alla Mma in base alla presenza/assenza di una malattia terminale non è scientificamente sostenibile. Conclusioni. L’uso della sofferenza insopportabile generata dalla malattia terminale come esclusivo criterio di ammissione alla Mma non solo viola il principio di autonomia, ma, in mancanza di prove scientifiche, non chiarisce dove si collochi la linea di demarcazione tra coloro che dovrebbero avere il diritto di accedervi e coloro che non dovrebbero averlo.

Parole chiave. Assistenza medica al morire, disturbo mentale, dolore, eutanasia, malattie non trasmissibili, sofferenza, suicidio medicalmente assistito.

“For their own good”. Medical assistance in dying: a right for whom?

Summary. Background. The admission criteria to the medical assistance in dying (MAID) procedures (Euthanasia - E; Physician Assisted Suicide - PAS) represent a much debated issue. In most of the jurisdictions where MAID is legal, the unbearable suffering due to a terminal illness constitues the main admission condition. In contrast, those suffering from either a mental disorder or an existential discomfort are excluded. Some consider the exclusion of the former group to be protective towards those deemed vulnerable because they are not able to make free and informed decisions, while the latter is excluded to align the legal approaches to the prevailing moral models. Others consider these stances discrimination. Purpose. To prove that when someone requests MAID, his suffering should be first and foremost investigated not only and not so much for its causes, but, above all, for its key role played in understanding the MAID request. Contents. After reviewing the specific aspects of suffering in relation to his three determinants – existential suffering, mental disorder, terminal illness – the article provides the evidence that: a) such a conditions, although completely different from each other, share the same psychological processes leading to the unbeaerable suffering and then to the request for MAID or to the suicide ideation/completion; b) there is no scientific data supporting a discrimination access to MAID on the basis of the presence/absence of a terminal illness. Conclusions. Using the unbearable suffering due to a terminal illness as the sole criterion for admission to MAID violates the principle of autonomy, and, lacking scientific evidence, it does not clarify where the line is drawn between those who should be entitled to MAID and those who should not.

Key words. Euthanasia, medically assisted death, mental illness, mood disorders, non trasmissible diseases, pain, physician assisted suicide, suffering.

Introduzione

Nei Paesi occidentali, anche a seguito delle due transizioni demografica ed epidemiologica1, il tema della morte medicalmente assistita (Mma) ha assunto particolare rilevanza2. La politica più lungimirante ha registrato i cambiamenti culturali e il supporto offerto ovunque dall’opinione pubblica all’istituzione della Mma grazie al rilevante valore etico e giuridico attribuito oggi all’autonomia decisionale della persona. Cresce così il numero degli Stati che legiferano in favore di una o di entrambe le procedure di Mma (eutanasia - E; suicidio medicalmente assistito - Sma)3. Laddove la Mma è già legittimata, la relazione di cura è divenuta l’ambito nel quale la persona malata può affermare la sua individuale esperienza di malattia per decidere assieme al medico gli scopi e i percorsi dei trattamenti, ma anche, in alcuni casi, se e come porre fine alla propria vita4.

In campo filosofico e scientifico, si è preso atto che continuare a contrastare le giustificazioni spesso utilizzate contro la Mma dai suoi oppositori – indisponibilità e sacralità della vita5, argomentazioni fallaci quali la china scivolosa6, la deriva eugenetica7, la Mma come soluzione “cost-saving” per i sistemi sanitari8 – significa impegnarsi in discussioni prive di sbocchi utili. L’attenzione generale si è così spostata sulla più concreta questione relativa ai criteri di ammissione9. Questi sono di fatto simili in tutte le legislazioni dei Paesi in cui la Mma è ammessa (tabella 110,11; nel box 1 è riportata una nota sulla situazione italiana12-17): le persone richiedenti devono essere in grado di decidere per sé liberamente e consapevolmente (piena capacità) e devono trovarsi in una situazione di malattia cronica in fase terminale (previsione di morte entro sei mesi in alcuni ordinamenti), che genera una sofferenza fisica e/o psichica a tal punto insopportabile da far desiderare alla persona malata di morire.







A eccezione di alcune legislazioni10, in tutte le altre è esclusa ogni forma di sofferenza psichica che, sebbene intollerabile, sia riconducibile o a un disturbo mentale accertato o sia espressione di una condizione di sofferenza esistenziale, non causata quindi né da un disturbo mentale né da una malattia cronica terminale. Questa scelta è vista da alcuni come una forma di protezione nei confronti di persone considerate nel primo caso particolarmente vulnerabili in quanto non capaci o non pienamente capaci, nel secondo come la risposta alla necessità di allineare l’approccio giuridico ai modelli morali prevalenti18; da altri, invece, come una discriminazione scientificamente infondata ed eticamente ingiustificata. La questione è tutt’ora controversa19-22.

Scopo dell’articolo e metodologia

In questo articolo, si intende dimostrare che, per comprendere se una persona che lo chiede possa essere ammessa alle procedure di Mma, è la sua sofferenza che andrebbe indagata, non solo e non soltanto per le cause che l’hanno prodotta, ma anche e soprattutto per la sua intensità, i suoi percorsi, le sue diverse dimensioni, le sue emozioni e, infine, il suo ruolo nella genesi della richiesta di Mma o dell’ideazione suicidaria.

Si assumerà come ipotesi di lavoro che la sofferenza insopportabile, fisica e/o psichica, generata esclusivamente da una malattia irreversibile a prognosi infausta, quando usata come esclusivo criterio di ammissione alle procedure di Mma, non chiarisce dove si collochi la linea di demarcazione tra coloro che dovrebbero avere il diritto di accedervi e quelli che non dovrebbero averlo.

Dopo aver illustrato le criticità della sofferenza e dei suoi tre fondamentali determinanti – la sofferenza esistenziale, il disturbo mentale, le malattie irreversibili giunte alla fase finale – al fine di verificare l’ipotesi di lavoro, si proverà a dimostrare che: 1) queste tre condizioni, ancorché del tutto diverse tra loro, sono accomunate dalla dinamica dei processi psicologici che portano alla genesi di una sofferenza intollerabile e, per suo tramite, alla richiesta di Mma o all’ideazione e al compimento dell’atto suicidario; 2) discriminare l’accesso a una procedura di Mma esclusivamente in base alla presenza o meno di una malattia cronica terminale non è scientificamente sostenibile.

La revisione di letteratura ha riguardato un arco temporale di 30 anni (1994-2024).

Sono stati consultati i seguenti database: MEDLINE/PubMed, PsycINFO, Embase, Google Scholar, Scopus, Cochrane Database of Systematic Reviews.

Sono state considerate le seguenti tipologie di studi: meta-analisi, revisioni sistematiche, trial clinici randomizzati, studi di coorte, studi caso-controllo. Sono stati esclusi gli studi con diverso disegno e quelli non in lingua inglese o antecedenti al 1994.

La sofferenza: quale significato?

A tutt’oggi nella letteratura medica empirica non esiste un consenso su quali significati debba includere la nozione di sofferenza e una sua concettualizzazione non si è ancora tradotta in una definizione condivisa. Il termine viene infatti utilizzato riferendosi a costrutti diversi a seconda della prospettiva dalla quale i ricercatori delle diverse discipline guardano al fenomeno rendendo difficile la produzione di sistemi di misura che catturino in modo affidabile la sua complessità23.

In via preliminare è importante distinguere il contenuto concettuale della sofferenza (suffering) da quello del dolore (pain) poiché questi termini vengono spesso usati come sinonimi.

Il dolore è un’esperienza sensoriale negativa multidimensionale (componenti emotive, cognitive, sociali, culturali), associata a un danno tissutale e correlata a una minaccia percepita24. La sofferenza si riferisce anch’essa a una minaccia percepita, ma portata all’integrità del Sé includendo sia la sensazione di impotenza di fronte a tale minaccia sia l’esaurimento delle risorse psichiche personali necessarie a farvi fronte25.

Ne consegue che mentre il dolore fisico può implicare la sofferenza, questa può esistere senza il dolore.

Una revisione sistematica26 ha identificato otto dimensioni concettuali della sofferenza (sociale, fisica, personale, spirituale, esistenziale, culturale, cognitiva, affettiva) derivate da cinque aree di ricerca (nursing, scienze comportamentali, medicina, humanities, studi filosofici) (figura 1).




Ne è risultata una definizione sintetica secondo la quale la sofferenza è «una condizione di stress psichico indotto dalla percezione di una minaccia generata da un’esperienza fortemente negativa, complessa e dinamica portata sia all’integrità dell’individuo in quanto sé (la basilare consapevolezza che un individuo ha del proprio esistere) sia all’identità della persona (la visione di sé in rapporto al mondo esterno, incluse le interazioni sociali, culturali e relazionali più elaborate)». La sofferenza è dunque un disagio in risposta a una minaccia per l’individuo nella misura in cui non riguarda soltanto un aspetto specifico e isolato della sua vita; al contrario, la coinvolge a tal punto che l’individuo stesso non può continuare a essere chi è se il disagio persiste27.

La stanchezza di vivere, la percezione di vita completata, il suicidio e la Mma

Un’altra revisione sistematica28 ha evidenziato che, in 19 studi dei 35 selezionati, la sofferenza era associata a disturbi mentali e quindi analizzata in una prospettiva psicopatologica. Questi studi erano condotti al di fuori del dibattito sulla Mma. Nei restanti 16, effettuati in Olanda e Belgio e correlati al tema della Mma, era invece utilizzato un approccio analitico esistenziale.

In tutti gli studi i concetti-chiave nelle definizioni della sofferenza erano: “fatica o stanchezza di vivere” (tiredness/weariness of living - ToL/WoL) e “percezione di vita completata” (completed life - CL). Nella maggior parte di essi la sofferenza era correlata a un’ideazione suicidaria caratterizzata da minima intenzionalità, mentre solo in pochi altri è stata riscontrata una relazione incrementale tra ToL/WoL e desiderio di morire.

In Olanda la CL era descritta come «l’esperienza di persone per lo più molto anziane, che non vedono un futuro per sé stesse, la cui sofferenza è causata dalla previsione di dover continuare a vivere con una pessima qualità di vita, non dovuta a una malattia fisica o a un disturbo mentale e strettamente associata a un desiderio di morte»29. In Belgio la stessa definizione era invece adottata per definire la ToL/WoL30.

Una ricerca focalizzata sulla natura più autentica della sofferenza ha ricevuto comunque finora scarsa attenzione sia per la complessità del tema31 sia perché le discussioni si sono incentrate sugli argomenti etici e giuridici riguardanti la Mma32. Ne consegue che l’incertezza sul significato esatto da attribuire all’esperienza della ToL/WoL è in contrasto con l’uso scontato che se ne fa nel dibattito pubblico derivante dal senso comune.

In secondo luogo, nella ricerca sulla suicidalità, la ToL/WoL è solitamente descritta come «vita che non vale più la pena di essere vissuta»33. In questa accezione, il fenomeno non è attribuito a una particolare età della vita o a uno stato di malattia, e il desiderio di morire è considerato come uno stadio che richiede un ulteriore impulso perché l’intenzione suicidaria si concretizzi.

In generale, è possibile affermare che nella letteratura sulla suicidalità non vi è traccia di una specifica area di ricerca finalizzata a una formulazione teorica della ToL/WoL34.

Un’ulteriore revisione sistematica della letteratura35, effettuata applicando la metodologia di analisi concettuale, ha identificato cinque componenti centrali nell’esperienza della ToL/WoL: il tedium vitae (noia per la vita - boredom with life)36,37; l’avversione nei confronti della vita (aversion towards life)38,39; la perdita di significato (meaninglessness)40-42; la stanchezza di vivere (fatigue)43; la mancanza di connessione col mondo/solitudine (connectedness/loneliness)44,45 (tabella 2).




Queste componenti erano poi sottoposte alla valutazione dei contenuti da parte di un panel di esperti. Si ritiene oggi che le diverse componenti della ToL/WoL interagiscano per lo più tra loro e debbano essere tutte presenti ai fini di una sua corretta diagnosi, pur potendo alcune di esse risultare più evidenti di altre in relazione a fattori individuali e/o contestuali46. La ToL/WoL dovrebbe poi essere sempre distinta da eventuali confondenti come la depressione47.

I determinanti della sofferenza

La sofferenza esistenziale, la Mma e il suicidio

Esistono prove ormai consolidate circa la possibilità che la richiesta di Mma, così come l’ideazione, il tentativo e il compimento del suicidio, possano maturare in una condizione di sofferenza “esistenziale” (existential suffering), non associabile né a un disturbo mentale48 né a una inguaribile patologia d’organo. Si tratta di una perdurante esperienza emotiva introspettiva, caratterizzata dalla percezione di forti sentimenti negativi che riguardano sia il Sé sia il mondo circostante.

Sono state dimostrate differenti soglie individuali di sopportazione della sofferenza esistenziale49; così, le persone che la sperimentano possono convivere con questo tratto psicologico limitando la pulsione di morte ai soli episodi ideativi tramite adeguati meccanismi di resilienza50.

Questo equilibrio, la cui solidità è indipendente dalla durata, può rompersi in rapporto a una vulnerabilità propria dell’individuo51 o a eventi esterni a contenuto stressogeno52 o alla loro interazione (stress-vulnerability model)53. La sintonia con il contesto relazionale di riferimento viene progressivamente meno, mentre vanno maturando la consapevolezza interiore che la vita è ormai priva di significato, un penoso senso di solitudine e uno stato di inabilitante disperazione54. In questa fase si possono sviluppare sia la stanchezza di vivere sia la percezione di aver completato la propria esistenza.

La tipologia esistenziale della sofferenza può manifestarsi anche nell’ambito delle altre sue tre dimensioni antropologiche: 1) quella fisica, correlata al dolore generato da una malattia inguaribile; 2) quella psicologica, indotta per esempio dalla perdita di qualcuno considerato essenziale per rendere l’esistenza realizzata ed equilibrata (per es., un lutto) o un disturbo mentale che, senza alterare la capacità, può generare grande sofferenza (per es., il disturbo bipolare); 3) quella “dinamica” che può emergere e accompagnare la persona mentre interagisce con gli eventi del mondo (per es., l’esperienza della guerra, la perdita del lavoro o della propria casa, un dissesto economico)55.

La sofferenza esistenziale è dunque legata alla concatenazione delle emozioni negative, percepite come distruttive, suscitate dagli eventi cruciali che possono caratterizzare queste tre fondamentali dimensioni.

Nella prospettiva analitica esistenziale56 si può quindi definire la sofferenza come la percezione, sul piano emozionale, che qualcosa di vitale importanza del proprio Sé è andato irrimediabilmente distrutto.

Le successive emozioni suscitate da questa percezione risulteranno decisive nello sviluppo della sofferenza e delle sue eventuali conseguenze.

Si assiste così al progressivo coinvolgimento delle quattro dimensioni esistenziali57: 1) il mondo e le sue situazioni; 2) la propria vita e la propria forza; 3) la propria identità e il rapporto con gli altri; 4) la capacità di soddisfare i propri bisogni nelle diverse situazioni e di gestire l’orizzonte della propria vita.

La compromissione della prima dimensione porta alla sensazione di non essere in grado di integrare e superare le criticità della vita. Ne risultano insicurezza e ansia.

La crisi della seconda dimensione incide sulla capacità di relazionarsi agli altri e di godere delle esperienze piacevoli o di ciò che è caro o prezioso nella propria vita, di ricercare e sperimentare cambiamenti. Ne consegue una perdita di vitalità cui si accompagnano lacerazioni interiori e sensi di colpa per la propria condizione, che possono sfociare nella depressione e nella percezione di non essere più in grado di vivere in queste condizioni.

La compromissione della terza dimensione è legata alla sensazione di non conoscere più sé stessi e a sentimenti di alienazione. La fase ultima di questa forma di sofferenza esistenziale consiste in un blocco della capacità di dialogo interiore e con gli altri. La persona sperimenta così l’assenza di emozioni, una sostanziale solitudine (loneliness)58, la disconnessione dalla vita (connectedness)59 e infine la noia (boredom with life) e la fatica del vivere (fatigue)60.

Con il coinvolgimento della quarta dimensione, la persona non è più capace di immaginare (e di immaginarsi in) un contesto più ampio proiettandosi nel futuro. Il risultato ultimo è la percezione di un “vuoto interiore”61. Non esistono più contenuti che possano fornire un orientamento alla vita per renderla degna di essere vissuta e ogni speranza viene meno (hopelessness)62. La vita perde così di significato (meaninglessness)63 potendosi maturare nei suoi confronti una vera e propria avversione (aversion towards life).

Scontando i limiti propri di ogni schematizzazione, la tabella 3 sintetizza, per ciascuna delle quattro dimensioni sopra citate, una descrizione dei principali costrutti della sofferenza esistenziale e delle loro più frequenti manifestazioni59.




L’idea della propria morte come soluzione liberatoria può presentarsi in una qualsiasi di queste condizioni, anche se è al compimento dell’intero percorso che più facilmente la sofferenza esistenziale può trasformarsi in quello che in suicidologia è definito “dolore mentale insopportabile” (psychache)64, nel cui ambito possono prendere corpo la richiesta di Mma65 o l’ideazione suicidaria66. Una volontà di morire quindi che, resasi indipendente dalla sua causa primigenia, ha assunto un’autonoma fisionomia trasformandosi in decisione lucidamente funzionale all’abolizione di una sofferenza psicologica ormai immedicabile67; la morte diviene così l’unica via di fuga (escape).

In questa diversa prospettiva, la volontà di morire rappresenta l’esito di un’esperienza dolorosa di vita – non più epifenomeno di una categoria nosologica psichica o fisica – che si compie in un mondo interiore68, «nel silenzio del cuore, come una grande opera d’arte» scrive Albert Camus69.

I disturbi mentali, la Mma e il suicidio

Numerosi studi dimostrano che l’atto suicidario è frequentemente preceduto da una storia di disturbi psichici, in particolare correlati alla sfera della depressione maggiore70,71. Il tema della Mma in persone con disturbi mentali solleva pertanto complesse questioni72 che si possono sintetizzare in cinque aree di problematicità: 1) la correlazione tra i disturbi mentali e il suicidio; 2) l’integrità della capacità decisionale (quanto la decisione di porre fine alla propria vita sia una scelta autonoma e consapevole); 3) la stabilità della decisione nel tempo (nelle persone con disturbi mentali questa decisione può oscillare molto); 4) la difficoltà di valutare la sofferenza insopportabile nelle persone con disturbi mentali; 5) la difficoltà di stabilire se e quanto il disturbo mentale sia resistente al trattamento. Pertanto, nella gran parte delle normative vigenti, tutte le persone con disturbi mentali sono escluse dalle procedure di Mma, indipendentemente dalla loro capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. In questo modo, anche alle persone in cui il disturbo mentale convive con una piena capacità si nega il diritto di porre fine alla propria vita con un’adeguata assistenza sanitaria.

La prospettiva paternalista: chi decide cosa?

Per sostenere che le persone con disturbi mentali non dovrebbero mai essere ammesse alle procedure di Mma si afferma che il disturbo mentale può inficiare la loro capacità di prendere decisioni libere e consapevoli rendendo inaffidabile la richiesta stessa di Mma. Queste persone sono perciò definite “vulnerabili”.

L’orientamento generale quindi è che coloro che sono affetti da disturbi mentali, senza altre patologie, provino ogni trattamento disponibile o aspettino che venga sviluppata una nuova e più efficace cura. Questi percorsi implicano però un protrarsi della sofferenza che può indurre la persona a concludere la propria vita autonomamente, spesso con modalità raccapriccianti e indignitose73-75.

In prospettiva etica queste argomentazioni chiamano in causa il paternalismo.

Il paternalismo in medicina trova giustificazione nel principio di beneficenza. I medici mirano dunque a ottenere per i malati quello che, secondo una valutazione clinica, è il maggior beneficio possibile. La formula usata è: “come farebbe un buon padre di famiglia”.

Quando invece i medici e i giuristi sostengono che le persone con disturbi mentali non devono accedere alle procedure di Mma in nome del loro migliore interesse senza neppure distinguere tra capacità e incapacità, allora devono giustificare qualcosa più del paternalismo, perché stanno volutamente ignorando le scelte di quelle persone. In sintesi, sono i medici e i giuristi che di fatto decidono ciò che è bene e giusto per quell’individuo.

In una condizione di pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione, sarebbe necessario che i paternalisti dimostrassero in modo convincente che, ignorare la richiesta di accedere a una procedura di Mma di una persona con disturbi mentali ma capace, è sempre la decisione migliore. Al contrario, ci sono buone ragioni per dubitare della validità delle analisi esistenti a supporto delle preoccupazioni sugli abusi nei confronti delle persone definite vulnerabili76. A questo proposito, vengono chiamati in causa possibili errori di valutazione riguardo all’ammissione alle procedure di Mma, ma questi sono possibili per qualsiasi persona, sia con disturbo mentale sia con una malattia terminale77.

In merito all’approccio giuridico al tema dei criteri di inclusione o esclusione dalle procedure di Mma, una risposta più appropriata a queste preoccupazioni dovrebbe comportare non solo l’implementazione di rigorose salvaguardie nel processo di valutazione dell’idoneità e della capacità, ma anche un cambio di paradigma che mettesse al centro la sofferenza invece della diagnosi.

Al tema del paternalismo è collegato anche quello della speranza come argomento per distinguere la sofferenza esistenziale e quella del disturbo mentale da quella per una malattia d’organo irreversibile.

Il suicidio è spesso descritto come un evento tragico, mentre la Mma è considerata come promozione della dignità e della realizzazione della volontà di una persona.

Queste diverse interpretazioni si basano anche sulla speranza che caratterizza i due contesti: un suicidio appare tragico perché ci sarebbe stato ancora tanto da sperare nella vita del suicida, mentre la Mma per un malato terminale abbrevia una vita in cui ogni speranza è già perduta.

Queste differenze giustificano un diverso trattamento dei due tipi di sofferenza nelle richieste di Mma? Da questa derivano altre due domande: qual è la soglia per definire la disperazione sufficiente a giustificare la richiesta di Mma? Chi dovrebbe decidere se la soglia è stata o no raggiunta?

I Paesi che consentono la Mma rispondono alla prima domanda in modi diversi.

Il fatto che in Olanda78 e in Canada79 si discuta se legalizzare la Mma anche per coloro che sono stanchi di vivere mentre negli Usa i sistemi legislativi degli Stati che hanno legalizzato la Mma richiedono che la condizione di malattia terminale abbia anche una prognosi sfavorevole entro sei mesi (tabella 1), suggerisce che, in generale, ci sia poco accordo su quale debba essere la “quantità sufficiente di disperazione” da certificare prima di consentire la Mma. Può essere che “quantificare la disperazione” sia più difficile nei casi di sofferenza psicologica rispetto a quella fisica, perché comunque nei casi di malattia terminale l’inutilità della speranza sembra più netta. La speranza, tuttavia, non è difficile da determinare solo in psichiatria; anche in oncologia, per esempio, c’è sempre un altro trial di chemioterapia da tentare.

La seconda domanda – chi dovrebbe decidere quando è stato raggiunto un “sufficiente” grado di disperazione da giustificare la fine di una vita? – è forse più rilevante. Per coloro che considerano la sofferenza psicologica idonea a generare una disperazione tale da giustificare la Mma, è la persona stessa che sta soffrendo che dovrebbe rispondere. «Quando sai di essere in una situazione terribile e la scienza non ha ancora una risposta terapeutica al tuo problema, dovresti essere tu a decidere quando ne hai abbastanza»80. Per coloro che non considerano la sofferenza psicologica come una giustificazione per ottenere la Mma, la valutazione del medico è fondamentale.

Così, piuttosto che affidare tutta la decisione alla persona che sta soffrendo o al medico, sembra più ragionevole e meglio allineato ai requisiti alla base dell’accesso alla Mma che entrambi siano coinvolti. In questo senso, un gruppo collaborativo di psichiatri in Canada raccomanda una «esplorazione intersoggettiva della sofferenza» tra la persona e il medico per determinare se la sofferenza psicologica giustifichi la Mma81.

La qualità di vita e la refrattarietà ai trattamenti

Nella cultura occidentale, fino a poco tempo fa, la difficile decisione sull’accettabilità della qualità di una vita era spesso demandata ai medici. Oggi l’autodeterminazione della persona malata è uno dei principi fondanti dell’etica clinica e le persone malate sono sempre più spesso incoraggiate a spiegare cosa significhi per loro “qualità della vita”82.

D’altronde, quando la sofferenza finisce per occupare l’intero orizzonte temporale della persona malata, chi altro se non la persona stessa potrebbe valutarne le ripercussioni sulla qualità della sua vita?

Un pregiudizio insito negli argomenti avanzati dai sostenitori del diritto di accesso alla Mma per coloro che sono affetti da malattie terminali, ma non per coloro che sono portatori di un disturbo mentale, consiste nel fatto che la sofferenza dei primi è ritenuta “più grave” di quella dei secondi; per conseguenza, anche la loro qualità di vita può essere considerata peggiore. In realtà, è stato dimostrato che l’intensità della sofferenza in caso di gravi disturbi mentali può essere pari o addirittura superiore a quella generata dalle malattie organiche più gravi83; pertanto, l’assenza o la presenza di una lesione organica evidente non permette di fare raffronti sull’intensità della sofferenza. In ultimo, non vi è motivo di pensare che la valutazione della qualità di vita espressa da persone con disturbi mentali sia meno affidabile della valutazione che altre persone danno della propria84.

Circa la refrattarietà ai trattamenti, sebbene sia impossibile prevederla con certezza85, le persone con disturbo mentale dovrebbero avere il diritto di esprimere il proprio punto di vista sull’opportunità di intraprendere o continuare i trattamenti sulla base delle migliori prove disponibili al momento della decisione.

D’altra parte, i disturbi mentali più gravi sono spesso irreversibili86. Nel caso della depressione maggiore, lo studio STAR*D condotto dal National institute of mental health (Nimh) ha indicato che più del 30% delle persone affette non ha risposto a sperimentazioni farmacologiche sequenziali, mentre il 70% di coloro che invece hanno risposto ha avuto una ricaduta entro un anno87.

Le persone che falliscono ripetute sperimentazioni farmacologiche, l’ospedalizzazione e la psicoterapia a volte ricorrono a trattamenti neurostimolanti, come la terapia elettroconvulsiva (Tec), la stimolazione magnetica transcranica (Tms) o la stimolazione cerebrale profonda (Scp), tutti in certa misura efficaci, ma mai nel 100% dei casi. Uno studio recente che ha esaminato diversi tipi di Tec ha indicato percentuali di risposta tra il 55% e il 64%88; la risposta alla Tms è stata del 29% in una recente meta-analisi89 mentre la Scp può raggiungere una risposta a 6 mesi pari al 48% dei casi, che cala al 29% a 12 mesi90. In ultimo, la percentuale di risposta dopo la capsulotomia è pari solo al 50%91.

Pertanto, sono più che giustificati coloro che hanno subito per molti anni tentativi di cura senza esito quando ritengono improbabile la guarigione o quando si rifiutano di aspettare progressi scientifici mentre sperimentano una sofferenza intollerabile.

La possibilità di nuovi e migliori trattamenti derivanti dalla ricerca porta alla cautela il legislatore e i medici e dovrebbe indurre le persone capaci con disturbi mentali a considerare questa chance nel loro processo decisionale; tuttavia, non ci sono neppure solide ragioni per costringere queste persone ad aspettare indefinitamente.

Una concezione più ampia di “malattia terminale” potrebbe poi essere applicata al disturbo mentale incorporando una prognosi sfavorevole condizionata dalla refrattarietà ai trattamenti e una futilità qualitativa, cioè uno stato in cui i risultati del trattamento non si traducono in un miglioramento della funzionalità complessiva e non sono allineati con gli obiettivi della persona con disturbo mentale92. Questo approccio potrebbe includere anche concetti quali la qualità della vita e la dignità così come giudicati dalla persona interessata93.

In ultimo, se ai malati terminali è consentito rifiutare trattamenti che potrebbero altrimenti prolungare la loro vita, è giusto applicare standard diversi a persone capaci con un disturbo mentale refrattario?

Suicidio medicalmente assistito e atto suicidario: una precisazione non solo semantica

Affrontare la questione terminologica (suicidio medicalmente assistito vs suicidio) permette di introdurre i concetti che sono anche alla base del diverso modo di guardare in ambito medico e giuridico alla richiesta di Mma quando provenga da una persona affetta da una malattia cronica terminale e quando invece sia avanzata da una persona affetta da un disturbo mentale o da una sofferenza esistenziale.

Una parte della psichiatria, specialmente della suicidologia, sostiene che la Mma non ha nulla a che vedere con l’atto suicidario e quindi la parola “suicidio” non dovrebbe essere utilizzata per la procedura del Sma essendo preferibili altre dizioni (per es., “aiuto medico a morire”)94.

In particolare, da un punto di vista clinico, due diverse denominazioni dovrebbero essere usate per evidenziare le differenze tra l’esperienza di coloro che scelgono di morire a causa di una sofferenza a genesi esclusivamente psichica e quella delle persone che, affette da una malattia terminale, intendono abbreviare il processo di una morte inevitabile. L’obiettivo primario in questo caso non è porre fine a una vita che altrimenti potrebbe continuare, come nel caso del suicidio – ciò che rende sicuramente diversa la sofferenza esclusivamente psichica dalla sofferenza causata da una malattia terminale è l’orizzonte temporale, o meglio, la speranza di vita –, ma anticipare un esito scontato e imminente scegliendo una più dignitosa e rapida conclusione. In sintesi, la persona affetta da una malattia terminale, scegliendo la Mma, starebbe solo partecipando a un atto finalizzato ad abbreviare la sua agonia perché sarà la malattia a causarne la morte entro un tempo ragionevolmente breve. Secondo alcuni, il Sma incontrerebbe poi meno ostilità se non fosse sottoposto alla stessa censura sociale del suicidio a causa dell’uso dello stesso termine95.

Le ragioni a supporto della distinzione terminologica e dei significati a essa sottesi si fondano, nel caso della malattia cronica terminale, sull’appropriatezza clinica e sulla giustificabilità morale della scelta di morire tramite Mma, sull’esistenza di adeguate tutele legislative, ma soprattutto sulla conservata capacità di intendere e di volere della persona richiedente, quindi di prendere decisioni libere e consapevoli96. Nel caso del suicidio, proprio per la forte correlazione tra questo e i disturbi psichici97,98, specialmente quelli refrattari ai trattamenti99, le ragioni della distinzione sono basate sulla capacità che, se ritenuta ridotta o assente, determinerebbe una condizione di vulnerabilità100 meritevole di protezione, come già accennato. Queste argomentazioni giustificherebbero non solo la posizione contraria all’uso del termine “suicidio” per definire la procedura di Sma, ma anche il diniego all’accesso a entrambe le procedure di Mma per le persone con disturbi mentali.

Pur tenendo in considerazione le ragioni addotte per sostenere che il Sma e il suicidio differiscono101, dovremmo essere cauti prima di concludere che i due termini non hanno nulla in comune.

Se da un punto di vista scientifico può apparire arbitrario spiegare le dinamiche psicologiche delle richieste di Mma usando tout court le teorie con le quali la suicidologia spiega l’ideazione suicidaria, è pur vero che le somiglianze dei processi mentali che portano alle due differenti opzioni sono sorprendenti:

«La morte era la cosa più sensata per me. Non la vedevo come una follia o una scelta facile. La decisione mi pesava molto ma era la cosa migliore che potessi fare per le persone che amo e che mi amano ancora oggi. Le stavo tormentando, ed io stesso ero tormentato dal fatto di essere diventato un peso per loro e allo stesso tempo di sentirmi ormai irrimediabilmente distante da loro. Vedevo la mia morte come un modo per dare pace a loro e a me»102.

«Sto creando continuamente disagi alle persone che si prendono cura di me. Non voglio essere così. Non mi piace, non mi piace e non voglio. Preferisco morire»103.

Queste due testimonianze, la prima offerta da una persona che ha tentato il suicidio per un disturbo mentale intollerabile, e la seconda di un’altra con diagnosi di Aids che ha chiesto la Mma, evidenziano l’importanza che Joiner ha attribuito a due costrutti (interpersonal theory of suicide)104 – la percezione di sé come peso che grava su altri (perceived burdensomeness) e la frustrazione per non sentirsi più parte della propria rete di prossimità (thwarted belongingness) – nella genesi della sofferenza che, nello specifico dei due casi riportati, ha determinato il tentativo di suicidio nel primo e la richiesta di Mma nel secondo.

Klonsky spiega la progressione in tre step (three steps theory - 3ST)105 dall’ideazione suicidaria al compimento del suicidio tramite quattro fattori che agiscono indipendentemente dalle cause che ne determinano la comparsa: 1) sofferenza (suffering); 2) perdita di ogni speranza (hopelessness); 3) mancanza di connessione col mondo (connectedness); 4) capacità di vincere l’istinto di sopravvivenza (survival instinct overcoming). Questi fattori rientrano nelle quattro macrocategorie che costituiscono i determinanti della sofferenza esistenziale già analizzate.

Shneidman afferma che nella genesi dell’ideazione di morte ciò che conta è l’intensità della sofferenza (psychache), non la causa che l’ha determinata106.

Una volta appurato che la sofferenza costituisce il movente fondamentale della decisione di porre fine alla propria vita sia nel caso di chi richiede la Mma sia di chi sceglie di suicidarsi, perché per definire i criteri di ammissione alle procedure di Mma si attribuisce un’importanza esclusiva alle cause di quella stessa sofferenza invece di sondarne la complessità?

La natura diversa delle cause che determinano gli stessi temi di sofferenza giustifica anche che si accettino differenze nel modo in cui dovremmo rispondere a essa?

Nel 1994, la Corte suprema olandese, per esempio, ha sostenuto che «la gravità della sofferenza del paziente non dipende dalla causa della sofferenza», respingendo così una distinzione tra sofferenza fisica e sofferenza psicologica come base per definire legittime o illegittime le richieste di eutanasia107.

Come riconosciuto da quella Corte, insistere sul fatto che morire a causa della sofferenza indotta da una malattia irreversibile in fase terminale è “più legittimo” che morire in conseguenza di una sofferenza esistenziale o indotta da un disturbo mentale è una mera questione di principio.

L’approccio scientifico: la speciale condizione di vulnerabilità

La citata correlazione tra disturbo mentale e suicidio, per quanto forte, non implica, come già detto, che tutte le persone affette da un disturbo mentale compiano un atto suicidario108. In una coorte di 176.347 individui nati tra il 1955 e il 1991 e seguiti per 15 anni fino al 2006 dal loro primo contatto con i servizi di salute mentale, l’incidenza di suicidio negli uomini affetti da schizofrenia era pari al 4,1% (AR 6,55; 95%CI 5,85-7,34), in quelli affetti da disturbo bipolare era pari al 3,7% (AR 7,77; 95%CI 6,01-10,01), in quelli con diagnosi di disturbo unipolare era pari al 2,4% (AR 6,67; 5,72-7,78); nelle donne, l’incidenza di suicidio in caso di schizofrenia, disturbo bipolare e unipolare era pari rispettivamente al 2,8% (AR 4,91 95%CI 4,03-5.98), al 2,3% (AR 4,78 95%CI 3,48-6,56) e all’1% (3,77 95%CI 3,05-4,66)109. Una meta-analisi condotta su 27 studi ha poi evidenziato che persone affette da disturbo bipolare avevano un rischio di compiere il suicidio nel corso della loro vita pari al 6%110.

Per contro, un disturbo mentale non è necessariamente presente in ogni caso di suicidio.

Come già visto nel caso della sofferenza esistenziale, il suicidio è infatti un fenomeno complesso la cui realizzazione richiede l’interazione di un insieme di fattori correlati anche a esperienze di vita stressanti (disastri economici, gravi lutti, eventi bellici, etc.)111.

D’altra parte, non tutte le persone con disturbi mentali sono, per definizione, nella condizione di non poter decidere per sé stesse112,113. In Europa, le persone con disturbi mentali cui è stata concessa l’E per una incoercibile sofferenza psicologica sono state considerate capaci di esprimere un valido consenso alla procedura114. In uno studio in cui la capacità era valutata tramite McCAT-T (McArthur Competence Assessment Tool for Treatment115), l’80% delle persone ospedalizzate e con problemi psichici ha acconsentito consapevolmente a trattamenti medici o chirurgici nonché alla partecipazione a trial di ricerca clinica esprimendo un valido consenso informato116. Ovviamente la capacità varia in base alla diagnosi. In un altro studio in cui è stato pure utilizzato il McCAT-T, solo il 4% delle persone con un disturbo della personalità e il 31% di quelle che erano affette da grave depressione unipolare era privo di capacità decisionale117, mentre questa condizione si accertava nell’80% delle persone con psicosi acuta dovuta a schizofrenia. Gli studi citati hanno valutato la capacità in persone ricoverate; è plausibile che, nelle persone in cura ambulatoriale, la capacità sia probabilmente presente, proprio per le loro caratteristiche cliniche, in una percentuale molto più elevata sebbene manchino studi in merito.

Disponiamo poi di solide prove riguardo al fatto che una depressione maggiore che risponde con i tipici sintomi ai relativi criteri diagnostici è spesso presente anche in coloro che si trovano alla fine della vita a causa di patologie croniche terminali118,119. I dati relativi agli Stati dell’Oregon e di Washington120 mostrano che solo una minima percentuale (≤5%) dei richiedenti il Sma è stata candidata a una valutazione psichiatrica. Quest’ultimo dato assume ancora più rilevanza se si considera che la maggioranza delle persone che sceglie il Sma è malata di cancro e che la depressione maggiore è una comorbilità che colpisce tra il 30% e il 50% di questi pazienti121,122. La capacità dovrebbe pertanto essere sempre valutata su base individuale.

Così, pur ammettendo che la vulnerabilità come sopra descritta è in grado di fornire un’immagine fedele della realtà di vita di alcune persone con disturbo mentale, un divieto indiscriminato di accesso alla Mma per queste persone costituisce una posizione indifendibile sul piano scientifico.

Va sottolineato a questo proposito che, dopo anni di sforzi per superare lo stigma sociale della cosiddetta “malattia mentale” – «[…] la follia è un’affezione cerebrale cronica caratterizzata dal disordine della sensibilità, dell’intelligenza e della volontà […] e pertanto tutti questi malati sono incapaci di controllare la propria vita»123 –, si è raggiunto un ampio accordo riguardo al fatto che le valutazioni, pur necessarie, sulla capacità di queste persone dovrebbero essere effettuate caso per caso e non sulla base di un arcaico pregiudizio124,125. In questo senso, la letteratura scientifica dimostra che l’attribuzione acritica del carattere di vulnerabilità alle persone con disturbi psichici aumenta lo stigma sociale che, a sua volta, riduce le prospettive di miglioramento del disturbo ancorché trattato con appropriate terapie farmacologiche126.

È paradossale che una simile generalizzazione sia sancita di fatto nella maggior parte delle leggi promulgate fino a oggi sulla Mma, facendo sì che proprio il diritto finisca per rinforzare quello stigma sociale che si vuole combattere.

Contrastare lo stigma significa invece dare anche a queste persone maggiore consapevolezza di sé e, conseguentemente, maggiore controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni private sia nella vita sociale.

A questo proposito è utile richiamare qui l’istituto delle disposizioni anticipate psichiatriche (Dap) – “the Ulysses contract” – il cui uso è divenuto legale dopo l’approvazione nel 1990 del Patient Self-Determination Act da parte del Congresso Usa. Le Dap incentivano l’empowerment e quindi l’autonomia della persona con disturbo mentale, consentendole di esprimere le preferenze future di trattamento nel caso in cui, proprio a causa del suo disturbo, perda la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli127.

Uno studio condotto negli Usa nel 2006 ha dimostrato che una proporzione variabile tra il 65% e il 77% di persone con disturbo mentale che hanno riferito di aver subito una grande pressione per sottoporsi a terapie farmacologiche contro la loro volontà o che sono state sottoposte a trattamento obbligatorio o che avevano una storia di violenza auto-diretta o tendenze suicide avevano maggiori probabilità di redigere una Dap rispetto a coloro che non avevano esperienze simili128.

Possiamo così concludere che se da un lato è giusto porre in essere attente misure di salvaguardia laddove si intenda consentire la Mma alle persone affette da disturbi mentali, dall’altro è ingiustificato escludere tutte le persone che richiedono accesso alle procedure di Mma per disturbo mentale ritenendole arbitrariamente prive della capacità di prendere decisioni libere e consapevoli in merito alla loro vita128-131.

L’approccio scientifico: disturbo mentale o organico?

Nella letteratura scientifica e nella pratica clinica, i disturbi psichici sono stati definiti in opposizione ai disturbi organici non potendosene dimostrare l’origine somatica.

L’acquisizione che emerge dalle neuroscienze oggi è che l’encefalo è coinvolto, con alterazioni evidenziabili e riproducibili, in disturbi riguardanti le sue funzioni cognitive, percettive, motivazionali o sociali132-136.

L’evoluzione del neuroimaging applicato allo studio dei disturbi mentali (ENIGMA consortium)137 e i recenti progressi della genetica e dell’epigenetica hanno fornito nuove conoscenze sull’eziologia, la fisiopatologia, la diagnosi e il trattamento di questi disturbi che possono essere utilizzate per classificarli, prevederne la risposta al trattamento e sviluppare nuove terapie138-142. Questi disturbi, per molti dei quali oggi è dimostrata l’esistenza di caratteristiche radiologiche encefaliche sottili ma misurabili e riproducibili, devono essere considerati come il risultato di alterazioni funzionali dei sistemi cerebrali con sintomi plasmati da esperienze evolutive e sociali.

Pertanto è possibile oggi visualizzare modelli di attività di specifici circuiti neuronali in definite regioni dell’encefalo associati all’esperienza mentale sia normale che anormale. È così che, pur in assenza di una vera e propria lesione strutturale evidente, si sono potute identificare precise anomalie funzionali in un’ampia gamma di disturbi, dalla schizofrenia alla depressione maggiore. Quest’ultima costituisce una condizione eterogenea con diversi sintomi e diverse risposte al trattamento che, se associata a un disturbo d’ansia generalizzato, non risponde al trattamento di prima linea nel 50% dei casi. In uno studio su 801 persone affette da questa associazione, sono stati evidenziati sei circuiti cerebrali che identificano sei biotipi clinicamente distinti di depressione e ansia definiti da profili specifici di disfunzione143. Questi biotipi predicono la risposta a diversi interventi farmacologici o comportamentali permettendo di attuare trattamenti ritagliati sul disturbo specifico del singolo. In un altro studio144 la Rmn funzionale ha fornito la prova delle basi neurali delle allucinazioni evidenziando l’associazione del sintomo allucinatorio dei pazienti schizofrenici con l’iperattivazione della corteccia sensoriale corrispondente a quel sintomo.

Numerose prove hanno poi evidenziato il ruolo della genetica e dell’epigenetica – termine usato per descrivere tutte quelle modificazioni ereditabili che variano il fenotipo (l’espressione genica) pur non alterando il genotipo (la sequenza del Dna145) – nel determinismo di una serie di disturbi psichici.

Gli studi tradizionali sull’ereditarietà familiare146-149 e sui gemelli150-153 hanno confermato l’ereditarietà della schizofrenia e del disturbo affettivo bipolare. Esistono anche prove emergenti di un overlapping tra questi disturbi. Infatti, tra i diversi loci di suscettibilità identificati per la schizofrenia almeno uno è anche un gene di suscettibilità per il disturbo bipolare.

Grazie al progetto “genoma umano”154 e alle nuove tecnologie di analisi (Genome-wide association studies - Gwas) si sono potute ottenere informazioni relative alla biologia e alla genetica alla base di questi disturbi155-158. Questi lavori hanno indicato che molti geni non sono specifici per singoli disturbi ma comuni per la schizofrenia159, il disturbo bipolare160, la depressione maggiore161 e l’autismo162. Ciò suggerisce che le fasi iniziali di questi disturbi possono essere polivalenti163. Studi più recenti sulla variazione genetica strutturale hanno poi fornito le prove molecolari della natura poligenica del rischio di insorgenza di disturbi psichici coinvolgendo molti alleli comuni con effetti molto piccoli quando analizzati singolamente, ma significativi, se considerati in associazione164.

Gli studi sull’epigenetica hanno permesso di comprendere il ruolo di trigger che determinate esperienze di vita possono svolgere nel determinismo dei disturbi psichici165-167 (per es., perché circostanze stressanti distruggono la capacità di sperare e la resilienza in un individuo e “costruiscono il carattere” in un altro?).

La difficoltà di esplorare i meccanismi delle interazioni gene-ambiente sta nel fatto che per i disturbi mentali il fattore scatenante può essere rappresentato da esperienze psico-sociali, l’esposizione può avere un impatto solo in fasi specifiche dello sviluppo e gli effetti possono essere limitati a una gamma ristretta di cellule del cervello. La difficoltà maggiore per questi studi consiste quindi nella varietà delle risposte individuali.

In ultimo, ricerche condotte nell’ambito della biologia molecolare hanno permesso di comprendere meglio le complesse associazioni tra elaborazione del dolore, emozioni e suicidalità.

Mentre alcuni studi avevano già mostrato una sovrapposizione significativa dei sistemi neurali che mediano le componenti emotive e fisiche del dolore168, altri studi hanno dimostrato che il sistema oppioide endogeno partecipa all’elaborazione delle emozioni umane169 e alla neurobiologia della depressione170. Inoltre, le esperienze di rifiuto sociale o separazione, comuni eventi di vita che possono precedere l’insorgenza della depressione171 e il comportamento suicida172, sembrano attivare la rete cerebrale che influenza la componente affettivo-sensoriale dell’elaborazione della sofferenza173, suggerendo che un ridotto tono dell’attività oppioide sia associato a disforia e comportamento suicida nelle persone con disturbo borderline di personalità174. Un promettente studio randomizzato controllato sul potenziale effetto della buprenorfina a basso dosaggio sull’ideazione suicidaria nelle persone con depressione175 ha riacceso infine l’interesse per la relazione tra sofferenza esistenziale e tendenza al suicidio176.

L’uso di una dicotomia organico/psichico contribuisce al mantenimento della discriminazione e dello stigma affrontati dalle persone che vivono con il disturbo mentale. Nella prospettiva fornita da questa revisione di letteratura, il mantenimento di tale dicotomia anche ai fini di una definizione dei criteri di accesso alla Mma è scientificamente infondato, clinicamente ingiustificato, lesivo della dignità delle persone colpite e delle loro famiglie.

Le malattie cronico-degenerative, il suicidio e la Mma

Le malattie degenerative irreversibili costituiscono un determinante fondamentale dell’atto suicidario aumentandone cumulativamente il rischio fino a quattro volte rispetto alla popolazione generale177,178. Un approccio analitico evidenzia che il cancro rappresenta la condizione patologica più spesso in causa179,180, seguito dalle insufficienze funzionali croniche mono- o multi-organiche (cardiaca181,182, respiratoria183,184, renale185), dalle malattie neurologiche186, dal diabete mellito187. La tabella 4 mostra i risultati di sei meta-analisi riguardanti il rischio di suicidio per ciascuna malattia esaminata; per cinque di queste è riportata anche la variazione del rischio entro e dopo sei mesi dalla diagnosi.




Queste patologie, in funzione della loro irreversibilità, del loro progressivo aggravamento punteggiato da riacutizzazioni e da un costante peggioramento della qualità di vita con dipendenza dai caregiver spesso completa, costringono il malato a confrontarsi, prima o poi, con l’idea della propria morte. Ne risulta una modificazione più o meno graduale del suo profilo psicologico. Compaiono allora i costrutti propri della sofferenza esistenziale188 – stanchezza del vivere, percezione della vita come priva di senso e di futuro, perdita di dignità e di speranza, sensazione di sconfitta e intrappolamento, solitudine e isolamento dalla propria rete di prossimità, perdita del senso di appartenenza, percezione di sé come di un peso – che possono giocare un ruolo rilevante nella visione della morte come “via di fuga” (escape) da una condizione divenuta insopportabile, e, quindi, anche nella genesi dell’ideazione suicidaria fino al compimento del suicidio o della richiesta di Mma189,190. Una simile condizione rende conto di una complessità globale che non può risolversi, nel caso della richiesta di Mma, nella mera definizione del danno biologico.

Solo un approccio basato sull’intera dimensione psico-fisica della persona malata permetterà dunque di comprendere che la richiesta di Mma ha origini articolate che includono certamente fattori inerenti alla malattia, ma che questi hanno soltanto una funzione di trigger191.

La tabella 5 mostra la distribuzione per patologia e luogo di decesso delle persone malate ammesse alla procedura di Mma (Sma e/o E) secondo i rapporti annuali redatti in Olanda e Canada192,193.




È interessante notare che entrambi i rapporti confermano, in linea con gli anni precedenti, che la causa di sofferenza più citata da coloro che hanno fatto richiesta di Mma non era il timore di un inadeguato controllo del sintomo dolore, pure presente nelle due statistiche, ma la perdita della capacità di impegnarsi in attività significative seguita dalla perdita della capacità di svolgere le attività della vita quotidiana, il timore di perdere la propria dignità, la percezione di essere divenuti un peso per i propri familiari, la solitudine e l’isolamento, il distress emotivo.

Va poi sottolineato che, contrariamente alle posizioni ufficialmente assunte in merito alla Mma dalle istituzioni nazionali e internazionali più rappresentative nell’ambito della disciplina di cure palliative194, le procedure di Mma in Olanda e in Canada erano effettuate in hospice in una percentuale rispettivamente del 7,7% e del 20,8%. In particolare, in Canada, il 77,6% di coloro che avevano avuto accesso alla Mma riceveva contemporaneamente le cure palliative195. Questi dati dimostrano che le cure palliative, per quanto di elevata qualità nei Paesi in questione196 e di fondamentale importanza nel percorso clinico-assistenziale alla fine della vita, non sempre risolvono il problema della sofferenza insopportabile e del conseguente desiderio di accelerare la morte.

Discussione (oltre le cause)

L’analisi della letteratura disponibile fin qui condotta ha permesso di comprendere che la sofferenza insopportabile, fisica e/o psichica, generata esclusivamente da una malattia irreversibile a prognosi infausta, quando usata come esclusivo criterio di ammissione alle procedure di Mma, è priva dei necessari fondamenti scientifici e perciò non chiarisce dove si collochi la linea di demarcazione tra coloro che dovrebbero avere il diritto di accedervi e quelli che non dovrebbero averlo.

Eppure, seguendo la più tradizionale visione meccanicistico-riduzionista della medicina d’organo, la biografia della persona che chiede la Mma poiché affetta da una sofferenza psichica (esistenziale o originante da un disturbo mentale) e i contenuti di quella sofferenza che sostanziano la complessità della sua condizione sono ignorati proprio nel momento di maggiore fragilità.

È infatti sull’entità del danno biologico, l’unica prova ritenuta accettabile in quanto tangibile, che si accentra l’attenzione dei legislatori riducendo la complessità dell’indagine sul caso di un essere umano a una mera verifica burocratica.

Come è stato dimostrato, la sofferenza, nel momento in cui vince la resilienza e l’autoconservazione per divenire il potente motore della decisione intima e irrimediabile di darsi la morte, si autonomizza dalla tipologia e dalla natura delle sue cause, articolandosi in costrutti, processi e percorsi psichici simili, indipendenti ormai dalle sue motivazioni prime (figura 2).




Edwin Shneidman scrive a questo proposito: «[…] La sofferenza mentale è causata da un’angoscia, una ferita, una rottura, un tormento […] per vergogna, o senso di colpa, o umiliazione, o fallimento o qualsiasi altra cosa […]. La sua realtà è introspettivamente innegabile. Il desiderio di morire si avvera quando la sofferenza diviene insopportabile […]»197. Essa riguarda quindi una condizione del vivere distinta da altri stati emozionali negativi come la depressione o altre costellazioni di sintomi e, proprio come il costrutto del benessere si estende oltre l’umore positivo, il costrutto della sofferenza psichica è più ampio della somma dei costrutti associati al disagio emotivo49.

Così, se la vita interiore di tre ipotetiche persone colpite da una grave malattia cronico-degenerativa la prima, da una depressione bipolare la seconda e da una tragica esperienza di vita la terza, finisce per incentrarsi su una dimensione di intollerabile sofferenza la cui entità, i cui costrutti e percorsi psichici sono gli stessi per tutte e tre e morire diviene per tutte e tre l’unica via d’uscita, come potremo accettare di accordare solo alla prima il diritto di accedere alla Mma?

Possiamo accettare che invece di aiutare una persona a morire in modo dignitoso questa sia costretta a togliersi la vita spesso brutalmente?

Alcuni psichiatri contrari alla Mma per coloro che, pur con intatta capacità, sono affetti da un disturbo mentale hanno sostenuto che per queste persone non è necessario accedervi potendo porre fine alla propria vita di loro spontanea volontà. Come afferma Maher: «Se accettassimo la Mma per i nostri pazienti, il medico finirebbe per essere la versione disinfettata di una pistola…»198.

Tuttavia, è difficile prendere per buona la preoccupazione per persone affette da sofferenza intollerabile correlata a un disturbo psichico etichettate come vulnerabili e poi accettare che ricorrano a metodi di suicidio raccapriccianti.

La gestione della sofferenza esistenziale, d’altra parte, quando proposta come ragione per accedere alla Mma, richiede anch’essa un approccio multidisciplinare fondato sul supporto psicologico, sul rispetto, sulla presenza, sull’ascolto non giudicante, sulla comprensione dei processi psichici oltre che delle sue cause.

Questa gestione è resa comunque complessa dalla messa in discussione diretta della universale concezione positiva della vita, da cui discende l’implicito corollario per il quale, oltre a un diritto alla vita, vi è anche un dovere di vivere. Condizione preliminare e indispensabile per ammettere la Mma nella sofferenza esistenziale è infatti che da un punto di vista morale e giuridico si possa accettare che il problema non è tanto se ci sia un diritto a morire, ma, appunto, se ci sia un dovere di continuare a vivere. Non si dovrebbe in sostanza far ricadere sull’individuo che vuole morire l’onere di dimostrare di avere tale diritto, ma, al contrario, si dovrebbe concordare che siano coloro che gli impediscono di morire mediante la Mma a dover dimostrare che egli ha il dovere di vivere in una condizione di sofferenza divenuta per lui intollerabile.

Conclusioni

Il diritto, la medicina e lo Stato si sono a lungo sostituiti alle persone con disturbi mentali o afflitte da una sofferenza esistenziale, ritenendo di poter prendere decisioni nel loro migliore interesse nel primo caso e, nel secondo, considerando la sofferenza privata di una singola persona materia di nessun interesse collettivo.

Il dibattito sulla Mma evidenzia quanto ancora la cultura occidentale medica, giuridica e filosofica sia solidamente ancorata alla prospettiva paternalistica199.

Pertanto, numerose difficoltà caratterizzano la scelta dei criteri di ammissione alle procedure della Mma. Se si vuole affrontare il problema con onestà intellettuale, tutti gli interessati dovrebbero condividere, come prerequisito della discussione, l’evidenza secondo la quale non è scientificamente giustificabile l’esclusione di persone capaci, affette da una intollerabile sofferenza psicologica, sia essa esistenziale o legata a un disturbo psichico, dal beneficio di un intervento medico – le procedure di Mma – finalizzato a preservare l’autonomia e la dignità di chi soffre e, per questo, chiede di essere aiutato a morire. In alternativa, i decisori dovrebbero fornire “onestamente” altre giustificazioni sul piano argomentativo a tutti coloro che nella Mma sono coinvolti.

Quando una persona è chiaramente incapace di prendere decisioni libere e consapevoli riguardo alla sua stessa condizione, i suoi rappresentanti e i medici devono intervenire agendo nel suo migliore interesse.

La capacità però non può che essere determinata su base individuale e, quando riscontrata, dovrebbe garantire l’accesso alle procedure di Mma a tutti coloro che la richiedono, incentrando la decisione non sulla tipologia delle cause ma sul vissuto di sofferenza maturato dalla persona nel momento in cui chiede di essere aiutata a concludere la propria vita.

In Italia, a questo proposito, due aspetti sembrano cruciali sul piano operativo.

Coerentemente con il dettato della Carta costituzionale i decisori dovrebbero adottare misure legislative chiare e certe per proteggere il diritto all’autodeterminazione delle persone che chiedono la Mma. I medici dovrebbero comprendere che le trasformazioni culturali indotte dalla rivoluzione biomedica obbligano la deontologia a ridefinire il complesso insieme dei poteri, doveri e responsabilità che essi hanno in relazione ai diritti delle persone malate. Pertanto, continuare a operare con una logica paternalista significa non solo mantenere la relazione di cura in una condizione di asimmetria indignitosa per la persona malata, ma anche impedirle di decidere moralmente, ossia avere nella propria disponibilità, secondo la propria scala valoriale, la scelta del corso di azioni necessarie ad affrontare la propria sofferenza.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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