Linfoma diffuso a grandi cellule in seconda linea

Alessandro Broccoli1,2, Pier Luigi Zinzani1,2

1Irccs Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, Istituto di Ematologia “L. e A. Seràgnoli”, Bologna; 2Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche, Università di Bologna.

Pervenuto il 7 gennaio 2025. Non sottoposto a revisione critica esterna alla redazione della rivista.

Introduzione

La seconda serie di tre casi clinici sul linfoma diffuso a grandi cellule pubblicata sul numero di febbraio di Recenti Progressi in Medicina prende in esame l’utilizzo della terapia con cellule T a recettore chimerico (chimeric antigen receptor T-cells - CAR-T) in pazienti affetti da linfoma diffuso a grandi cellule e linfoma ad alto grado (high-grade B-cell lymphoma - HGBCL) come trattamento di seconda linea. Il razionale d’impiego della terapia CAR-T in questa tipologia di pazienti è basato sulla prognosi particolarmente severa che essi presentano allorquando la malattia risulta refrattaria alla terapia di prima linea o mostra una ricaduta precoce, entro 12 mesi dall’ottenimento di un’iniziale risposta completa.

A fronte del fallimento della prima linea di trattamento nell’ambito dei linfomi a grandi cellule, ci si è storicamente sempre indirizzati verso la messa in atto di una strategia di salvataggio che contemplasse una terapia antiblastica ad alte dosi seguita dall’infusione delle cellule staminali emopoietiche autologhe. Tale strategia risulta tuttavia funzionale solo in una percentuale di casi particolarmente contenuta rispetto al totale dei pazienti che ricadono precocemente dopo la prima linea, o risultano refrattari a essa, almeno per tre motivi:

almeno la metà dei pazienti ricaduti o refrattari dopo la prima linea di trattamento non è candidabile a una terapia mieloablativa per via dell’età o delle comorbilità;

almeno la metà dei pazienti effettivamente candidabili a trapianto autologo non ottiene la risposta completa dopo la chemioterapia di salvataggio con regimi contenenti ifosfamide o platino1, di fatto non giungendo a soddisfare il requisito essenziale per effettuare la procedura trapiantologica;

della quota di pazienti effettivamente sottoposti a trapianto autologo, approssimativamente soltanto il 50% circa riesce a mantenere nel tempo una risposta completa duratura, potendo in tal senso aspirare a una completa guarigione.

Sinteticamente, dunque, su 100 pazienti che ricadono o sono refrattari alla prima linea di terapia (pur considerando, tuttavia, che almeno il 50-60% dei pazienti con un’iniziale diagnosi di linfoma diffuso a grandi cellule sottoposti a chemioimmunoterapia standard secondo schema R-CHOP ottengono e mantengono nel tempo la risposta completa2), solamente circa 10 di essi otterranno una remissione completa di lunga durata dopo trapianto autologo.

Non è facile stabilire a priori le caratteristiche cliniche o biologiche predittive di una peggiore risposta (o mancata risposta) alla terapia di salvataggio. Tuttavia, è logico pensare che in pazienti con una malattia refrattaria alla terapia di prima linea (che si configurano pertanto come dei chemio-refrattari primari), analogamente a coloro che manifestano una rapida ricaduta (convenzionalmente entro pochi mesi, fino a un anno) dopo l’ottenimento di una documentata risposta completa, possa manifestarsi l’inefficacia sia di una seconda linea di chemioterapia sia del trapianto autologo, sebbene basati sull’utilizzo di agenti antiblastici non impiegati in precedenza e sulla messa in atto di regimi a dosaggio sovramassimale1,3. A ciò si aggiungono i pazienti con caratteristiche di alto rischio di malattia fin dall’esordio, tra cui l’iperespressione di MYC (intesa sia come linfoma doppio espressore di MYC e BCL2 in immunoistochimica, sia come linfoma doppio- o triplo-hit, caratterizzato cioè da riarrangiamenti dei geni MYC e BCL2 stessi)4 e un International Prognostic Index (IPI) intermedio-alto o elevato (punteggio 3, 4 e 5)5.

Studi clinici di fase 3

Tali limitazioni alla terapia sovramassimale e al trapianto autologo hanno da sempre portato alla ricerca di strategie alternative da impiegare nei contesti di malattia a più alto rischio o nel caso in cui il percorso trapiantologico risultasse non perseguibile.

Stanti i risultati ottenuti con la terapia CAR-T in pazienti con linfoma diffuso a grandi cellule trattati in terza linea (e oltre), sono stati condotti tre studi clinici di fase 3 in cui pazienti che avevano fallito la prima linea di trattamento – configurandosi come refrattari, vale a dire non in grado di ottenere una risposta completa, o ricaduti entro i primi 12 mesi – venivano randomizzati a ricevere una chemioterapia di salvataggio seguita da un regime di condizionamento e dalla reinfusione delle cellule staminali emopoietiche autologhe (braccio di controllo) o all’infusione di cellule CAR-T autologhe (braccio sperimentale)6-8. I tre studi in questione, a disegno sostanzialmente analogo, hanno preso in esame i tre costrutti CAR-T disponibili: axicabtagene ciloleucel (axi-cel; studio ­ZUMA-7)6, tisagenlecleucel (tisa-cel; studio BELINDA)7, lisocabtagene maraleucel (liso-cel; studio TRANSFORM)8. Stabilita la sopravvivenza libera da eventi (event-free survival - EFS) come endpoint primario in ciascuno studio, la terapia di seconda linea con axi-cel e liso-cel ha dimostrato un miglioramento della EFS rispetto al trattamento con chemioterapia di salvataggio e trapianto autologo nei pazienti con malattia ricaduta o refrattaria6,8. Nello studio che ha impiegato tisa-cel, invece, tale differenza tra i due bracci di trattamento non è risultata statisticamente significativa7. Sia axi-cel sia liso-cel, inoltre, hanno dimostrato un significativo impatto migliorativo della prognosi in termini di sopravvivenza libera da progressione6,8; axi-cel ha mostrato un significativo impatto in termini di sopravvivenza globale9. Per quanto riguarda axi-cel, in particolare, è stato possibile documentare una sopravvivenza libera da progressione a 4 anni attorno al 42% e una sopravvivenza globale sempre a 4 anni del 55%, anche quest’ultima significativamente superiore da un punto di vista statistico a quanto documentabile per i pazienti sottoposti a trapianto autologo9. I risultati di questo studio sono stati replicati, sebbene con follow-up più brevi, in almeno due ampie esperienze di reale pratica clinica (tabella 1)10,11.




Casi clinici

Come evidenziano molto bene i casi clinici presentati in questa seconda serie12-14, al fine di cogliere appieno il beneficio che la terapia CAR-T è in grado di apportare ai pazienti refrattari alla prima linea o ricaduti entro 12 mesi dall’ottenimento di una risposta completa, è necessario mettere in pratica:

un attento monitoraggio dell’andamento della terapia di induzione, identificando già alla diagnosi i pazienti per i quali la prognosi è prevedibilmente peggiore (in termini di IPI, istologia, alterazioni molecolari) e prendendo sempre in considerazione una valutazione precoce della risposta in corso di terapia, sia rilevando scrupolosamente segni clinici o sintomi sospetti per progressione o mancata risposta, sia eseguendo un’adeguata valutazione per immagini, meglio in assoluto utilizzando la tomografia per emittenti di positroni (Pet)12;

un’accurata ristadiazione post-terapia, sempre comprensiva di uno studio Pet finalizzato a stabilire la qualità della risposta, tenuto conto che il fallimento nell’ottenere una risposta completa metabolica (vale a dire il raggiungimento di una risposta parziale, di una stabilità di malattia o una condizione di progressione di malattia) configura la necessità di indirizzare il paziente verso un trattamento che contempli l’approccio CAR-T13;

un’approfondita valutazione del paziente nel corso del follow-up post-induzione nel momento in cui ottiene la risposta completa metabolica, ancora una volta prestando particolare attenzione a tutti gli elementi clinici che possano indirizzare verso una ripresa di malattia, considerando l’integrazione dell’imprescindibile valutazione anamnestica e clinico-laboratoristica con un’affidabile metodica di diagnostica per immagini: in tempo utile, approssimandosi il termine del primo anno di follow-up, per un’eventuale messa in atto di un percorso di terapia con CAR-T (qualora necessaria) entro i 12 mesi dall’ottenimento della risposta completa. In quest’ottica, potrebbe apparire giustificata anche una ristadiazione basata sulla ripetizione di un esame Pet in corso di follow-up, al fine di cogliere anche solo un’iniziale ripresa di malattia che, per tali sue caratteristiche, potrebbe risultare ancora del tutto asintomatica14.

La presa in esame di tutti questi aspetti nei momenti opportuni permette al clinico di focalizzare al meglio la propria attenzione sui passaggi più critici della storia terapeutica e sugli elementi clinici più salienti del paziente con DLBCL che sta seguendo, favorendo l’ottimizzazione temporale – e conseguentemente anche gestionale – del percorso terapeutico attraverso la precoce identificazione dei casi più difficili e il rapido indirizzamento verso un Centro ematologico qualificato per la terapia CAR-T. Il costante dialogo tra il centro a cui inizialmente afferisce il paziente (referral) e il centro hub, così ben descritto nelle sue fasi e nelle sue implicazioni pratiche dai casi clinici proposti, risulta fondamentale alla migliore riuscita del percorso terapeutico15.

Conflitto di interessi: gli autori hanno percepito diritti d’autore da Il Pensiero Scientifico Editore – soggetto portatore di interessi commerciali in ambito medico scientifico.

Acknowledgements: l’open access del documento è stato reso possibile grazie al contributo non condizionante di Gilead.

Bibliografia

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