Dalla letteratura

Nuove evidenze sulla relazione tra Alzheimer, diabete e obesità

Uno studio pubblicato di recente su JAMA Network Open ha fatto nuova luce sulla connessione tra la malattia di Alzheimer e il declino cognitivo negli adulti più anziani con diabete di tipo 2 e sovrappeso o obesità, identificando alcuni biomarcatori ematici che potrebbero predire il deterioramento in questa popolazione ad alto rischio1.

Lo studio ha utilizzato i dati dello studio Look AHEAD (Action for Health in Diabetes), uno studio osservazionale a lungo termine su adulti più anziani con diabete di tipo 2 e sovrappeso o obesità. I partecipanti sono stati sottoposti a valutazioni cognitive ed esami del sangue per misurare i livelli di vari biomarcatori ematici associati alla malattia di Alzheimer.

Una delle principali scoperte dello studio è stata che l’aumento dei livelli di due biomarcatori, la catena leggera dei neurofilamenti (NfL) e la proteina acida fibrillare gliale (GFAP) era fortemente associato al peggioramento della funzione cognitiva e a un aumento del rischio di sviluppare un deterioramento cognitivo lieve (MCI) o una probabile demenza. Questo è significativo perché l’MCI è spesso un precursore della malattia di Alzheimer e la diagnosi precoce è fondamentale per un intervento tempestivo.

I primi sintomi della malattia di Alzheimer possono essere sottili e spesso si sovrappongono al normale declino cognitivo legato all’età. Questi possono includere perdita di memoria che interferisce con la vita quotidiana, difficoltà nella pianificazione e nella risoluzione dei problemi, difficoltà nello svolgimento di compiti familiari e confusione con il tempo o il luogo. Con il progredire della patologia, le persone possono poi sperimentare cambiamenti nel comportamento, come sbalzi d’umore, agitazione e ritiro sociale.

Sebbene l’esatta causa della malattia di Alzheimer rimanga sconosciuta, si ritiene che una combinazione di fattori genetici, ambientali e dello stile di vita contribuisca al suo sviluppo. L’età è il fattore di rischio più significativo, con la maggior parte dei casi che si verificano in persone di età superiore ai 65 anni. Tuttavia, alcune condizioni croniche, come il diabete di tipo 2 e l’obesità, possono anche aumentare il rischio.

Il diabete di tipo 2 può avere un profondo impatto sul cervello, aumentando il rischio di ictus, patologie cerebrovascolari e declino cognitivo. La malattia può colpire vari organi, tra cui cuore, vasi sanguigni, reni, occhi e nervi. Quando i livelli glicemici sono costantemente elevati, può portare a gravi complicazioni, come malattie cardiache, eventi cardiovascolari, malattie renali e danni ai nervi.

L’obesità, poi, è un altro importante fattore di rischio per la malattia di Alzheimer, in quanto può contribuire allo sviluppo del diabete di tipo 2 e di altre condizioni croniche che influiscono sulla salute del cervello. Anche questa condizione può poi portare a una serie di problemi di salute, tra cui malattie cardiache, ictus, alcuni tipi di cancro e osteoartrite.

La fase terminale della malattia di Alzheimer è caratterizzata da grave declino cognitivo e deterioramento fisico. Le persone possono perdere la capacità di comunicare, deglutire e controllare le funzioni della vescica e dell’intestino. Possono anche diventare più suscettibili alle infezioni, che alla fine possono portare alla morte.

I risultati dello studio pubblicato su JAMA Network Open hanno quindi importanti implicazioni per la pratica clinica. Monitorando i livelli di NfL e GFAP negli adulti più anziani con diabete di tipo 2 e sovrappeso o obesità, i medici potrebbero identificare le persone ad alto rischio di declino cognitivo e intervenire precocemente per potenzialmente rallentare la progressione della malattia di Alzheimer. Sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere appieno la complessa interazione di fattori che contribuiscono alla demenza e per sviluppare efficaci strategie di prevenzione e trattamento.




Bibliografia

1. Mielke MM, Evans JK, Neiberg RH, et al. Alzheimer disease blood biomarkers and cognition among individuals with diabetes and overweight or obesity. JAMA Netw Open 2025; 8: e2458149.

Fabio Ambrosino

in collaborazione con Neuroinfo

Un semplice sostituto del sale può ridurre recidive di ictus e mortalità

Sono stati pubblicati di recente su JAMA Cardiology i risultati dello studio SSaSS (Salt Substitute and Stroke Study) che mostrano che l’uso di un sostituto del sale può ridurre significativamente il rischio di recidiva e mortalità nei pazienti con una storia di ictus1. Lo studio è stato condotto nelle aree rurali della Cina settentrionale, una regione con un’alta prevalenza di ictus e un elevato consumo di sodio.

Lijing L. Yan, professoressa alla Duke Kunshan University con una vasta esperienza nella ricerca nell’ambito della prevenzione delle malattie croniche, ha guidato un team che includeva ricercatori di varie istituzioni in Cina e Australia. Questi si sono concentrati su un gruppo di oltre 15.000 partecipanti con una storia di ictus, una popolazione ad alto rischio di eventi ricorrenti.

Lo studio mirava a determinare se la sostituzione del sale normale (100% cloruro di sodio) con un sostituto del sale (75% cloruro di sodio e 25% cloruro di potassio) potesse ridurre il rischio di recidiva di ictus e morte in questi pazienti. Questo approccio si basava su ricerche precedenti che avevano dimostrato che la riduzione dell’assunzione di sodio e l’aumento dell’assunzione di potassio possono abbassare la pressione sanguigna, un importante fattore di rischio per l’ictus2.




I risultati hanno messo in evidenza una riduzione del 14% del rischio relativo di recidiva di ictus e una del 12% della mortalità nel gruppo che utilizzava il sostituto del sale. Questi benefici sono stati osservati in diversi sottogruppi di pazienti, indipendentemente da età, sesso o altre condizioni di salute.

Lo studio, sottolineano gli autori, ha implicazioni significative per la pratica clinica. Fornisce una forte evidenza che la sostituzione del sale costituisce una strategia sicura ed efficace per la prevenzione secondaria dell’ictus. Semplicemente passando a un sostituto del sale, i pazienti con una storia di ictus possono ridurre significativamente il rischio di eventi futuri e migliorare le loro possibilità di sopravvivenza.

I risultati di questo studio sono particolarmente rilevanti per le regioni con un elevato consumo di sodio e un accesso limitato alle risorse sanitarie, come le aree rurali della Cina. I sostituti del sale offrono un intervento a basso costo, pratico e scalabile che può essere facilmente implementato in questi contesti.

Come sottolineato in un editoriale di Daniel W. Jones, Brent M. Egan e Daniel Thomas Lackland, i risultati dello studio SSaSS, insieme ad altre evidenze crescenti, potrebbero rappresentare un punto di svolta verso l’adozione di politiche obbligatorie per la riduzione del sodio negli alimenti3. Questo a sua volta potrebbe portare a un cambiamento significativo nella prevenzione e gestione delle malattie cardiovascolari a livello globale, proprio come è avvenuto in passato con le politiche di riduzione del colesterolo.




Bibliografia

1. Ding X, Zhang X, Huang L, et al. Salt substitution and recurrent stroke and death: a randomized clinical trial. JAMA Cardiol 2025: e245417.

2. Neal B, Wu F, Feng X, et al. Effect of salt substitution on cardiovascular events and death. N Eng J Med 2021; 385: 1067-77.

3. Jones DW, Egan BM, Lackland DT. Dietary sodium- and potassium-enriched salt substitutes – The tipping point? JAMA Cardiol 2025; doi: 10.1001/jamacardio.2024.5430.

Fabio Ambrosino

in collaborazione con Cardioinfo

AI per supportare il processo decisionale clinico in oncologia, ci siamo?

Integrare i dati provenienti da anamnesi, valori di laboratorio, imaging e analisi genetiche e sottoporli alla valutazione di un tool di intelligenza artificiale (AI) per supportare il processo decisionale clinico è possibile e potrebbe rivelarsi uno strumento molto prezioso nei prossimi anni. Lo sostiene uno studio pubblicato su Nature Cancer1.

La medicina personalizzata mira ad adattare i trattamenti ai singoli pazienti. Finora, questo è stato fatto utilizzando un piccolo numero di parametri per prevedere il decorso di una malattia. Tuttavia, questi pochi parametri spesso non sono sufficienti per comprendere la complessità di malattie come il cancro. Un team di ricercatori di University of Duisburg-Essen, University Hospital Essen (AöR), Ludwig-Maximilians-University Munich, Freie Universität Berlin, Technical University of Berlin e Berlin Institute for the Foundations of Learning and Data (BIFOLD) ha sviluppato un nuovo approccio a questo problema utilizzando l’AI.




Utilizzando i dati dell’infrastruttura informatica ospedaliera dell’AöR, i ricercatori hanno addestrato il tool AI con i dati di oltre 15.000 pazienti affetti da un totale di 38 diversi tumori solidi. È stata esaminata l’interazione di 350 parametri, tra cui dati clinici, valori di laboratorio, dati provenienti da procedure di imaging e profili genetici del tumore. «Abbiamo identificato i fattori chiave che rappresentano la maggior parte dei processi decisionali della rete neurale, nonché un gran numero di interazioni prognosticamente rilevanti tra i parametri», spiega Julius Keyl dell’Institute for Artificial Intelligence in Medicine (IKIM) dell’AöR. Il modello di AI è stato poi testato con successo sui dati di oltre 3.000 pazienti affetti da tumore del polmone per convalidare le interazioni identificate. L’AI combina i dati e calcola una prognosi complessiva per ogni singolo paziente. Il modello rende le sue decisioni trasparenti ai medici mostrando come ogni parametro abbia contribuito alla prognosi.

«Sebbene nella medicina moderna siano disponibili grandi quantità di dati clinici, la promessa di una medicina veramente personalizzata rimane spesso disattesa», afferma Jens Kleesiek dell’IKIM dell’AöR e del German Cancer Consortium (DKTK). Attualmente la pratica clinica oncologica utilizza sistemi di valutazione piuttosto rigidi, come la classificazione degli stadi tumorali, che tengono poco conto delle differenze individuali come il sesso, lo stato nutrizionale o le comorbilità. «Le moderne tecnologie AI, in particolare l’intelligenza artificiale spiegabile (xAI), possono essere utilizzate per decifrare queste complesse interrelazioni e personalizzare la medicina oncologica in misura molto maggiore», spiega Frederick Klauschen, Direttore dell’Istituto di Patologia della LMU e leader del gruppo di ricerca presso il BIFOLD, dove questo approccio è stato sviluppato. «I nostri risultati dimostrano il potenziale dell’intelligenza artificiale nell’esaminare i dati clinici non in modo isolato, ma nel loro contesto, per rivalutarli e quindi consentire una terapia oncologica personalizzata e basata sui dati». Un tool AI come questo potrebbe essere utilizzato anche in casi di emergenza, in cui è fondamentale essere in grado di valutare i parametri diagnostici nella loro interezza il più rapidamente possibile. I ricercatori mirano anche a scoprire complesse interrelazioni tra i tumori, che finora non sono state individuate con i metodi statistici convenzionali. «Ora disponiamo delle condizioni ideali per compiere il passo successivo: dimostrare il reale beneficio della nostra tecnologia per i pazienti nell’ambito di studi clinici», aggiunge Martin Schuler, Direttore del Dipartimento di Oncologia Medica dell’AöR.




Bibliografia

1. Keyl J, Keyl P, Montavon G, et al. Decoding pan-cancer treatment outcomes using multimodal real-world data and explainable artificial intelligence. Nat Cancer 2025; doi: 10.1038/s43018-024-00891-1.

David Frati

in collaborazione con Oncoinfo

Common Sense Oncology: perché i risultati contino

Continua l’impegno del gruppo di Common Sense Oncology volto a un ripensamento complessivo dell’architettura, anche metodologica, degli studi clinici in oncologia. Un recente contributo del gruppo, pubblicato su Lancet Oncology1, propone un elenco di principi chiave per la corretta progettazione, l’analisi e la pubblicazione di studi clinici randomizzati di fase 3 (RCT). L’obiettivo è garantire che i risultati ottenuti siano scientificamente solidi e, insieme, rilevanti per i pazienti.

Tra le raccomandazioni principali, gli autori sottolineano che il trattamento di controllo dovrebbe sempre rappresentare lo standard di cura più avanzato. Inoltre, l’endpoint primario preferibile resta la sopravvivenza globale o un surrogato validato, mentre la qualità della vita correlata alla salute dovrebbe rientrare almeno come endpoint secondario. Un aspetto cruciale è la comunicazione chiara dei benefici assoluti, come la differenza tra i gruppi nella sopravvivenza mediana o nella percentuale di pazienti vivi dopo un periodo predefinito. Le eventuali tossicità devono essere descritte in modo oggettivo, evitando toni che ne minimizzino l’importanza.

Inoltre, gli studi dovrebbero essere progettati per individuare differenze clinicamente significative e non solo statisticamente rilevanti. In altri termini, una misura assoluta del beneficio, come la differenza tra i gruppi nei tempi mediani di sopravvivenza globale o nella proporzione di pazienti sopravvissuti a un tempo predefinito. I pazienti del gruppo di controllo dovrebbero avere accesso a trattamenti sperimentali già dimostratisi efficaci in stadi più avanzati della malattia. Infine, i risultati dovrebbero essere corredati da un ampio sommario scritto non in “medichese”, in modo da risultare comprensibile anche al pubblico laico.

Queste linee di indirizzo delineate da Bishal Gyawali e compagni costituiscono un ulteriore contributo per migliorare la qualità degli RCT oncologici, coinvolgendo ricercatori, revisori, enti regolatori e comitati di valutazione sanitaria. L’auspicio è che tali principi stimolino ovunque, anche in Italia, dove la questione è molto sentita, un dibattito costruttivo, promuovendo una maggiore trasparenza e una crescente utilità degli studi clinici per i pazienti oncologici.




Bibliografia

1. Gyawali B, Eisenhauer EA, van der Graaf W, et al. Common Sense Oncology principles for the design, analysis, and reporting of phase 3 randomised clinical trials. Lancet Oncol 2025; 26: e80-e89.

Luciano De Fiore

in collaborazione con Oncoinfo

Coinvolgere le comunità per cure palliative più umane e sostenibili

In un’epoca in cui l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle malattie croniche pongono sfide crescenti ai sistemi sanitari di tutto il mondo, la ricerca di modelli di cura innovativi e sostenibili è più urgente che mai.

Nasce in questo contesto il progetto InVITA, attivo nella provincia di Reggio Emilia, che si pone l’obiettivo ambizioso di costruire una nuova rete di assistenza basata sul concetto di caring community, dove il tessuto sociale si fa protagonista nel supporto alle persone affette da malattie inguaribili e alle loro famiglie. Il 31 gennaio si è tenuto presso la Sala Civica di Albinea un convegno che ha fatto il punto sul progetto, riportando le informazioni raccolte sui bisogni e le risorse del territorio e valutando le possibili azioni da mettere in campo in futuro.

L’incontro ha visto anche la partecipazione di Samar M. Aoun della Western Australia University, ricercatrice di fama internazionale che, in collegamento dall’Australia, ha presentato un modello innovativo di cure palliative basato sulla partecipazione attiva della comunità (Community Led Model).

In generale, nell’ambito delle cure palliative una caring community (o compassionate community) può essere definita come una comunità che si impegna attivamente a sostenere le persone affette da malattie inguaribili e le loro famiglie, integrando il supporto medico professionale con una rete di aiuto informale e solidale.

Questa rete è composta da volontari, organizzazioni civiche, gruppi di supporto, vicini di casa e altri membri della comunità che offrono compagnia, assistenza pratica, supporto emotivo e aiuto nella gestione delle attività quotidiane. L’obiettivo è quello di creare un ambiente in cui i malati si sentano accolti, ascoltati e supportati, non solo dal punto di vista medico, ma anche umano e sociale, migliorando così la loro qualità di vita e quella dei loro cari.

Il supporto della comunità di appartenenza è infatti un elemento centrale nel percorso di fine vita. Aoun ha introdotto la sua presentazione con un dato significativo: le persone affette da malattie terminali trascorrono solo il 5% del loro tempo con personale sanitario qualificato, mentre il restante 95% è condiviso con la comunità di appartenenza.

Le evidenze scientifiche mostrano poi che la presenza di relazioni sociali fondate sulla reciprocità e l’ascolto impattano positivamente sulla salute. «Le persone che hanno forti relazioni sociali – ha spiegato Aoun – hanno un fattore di protezione contro la mortalità maggiore rispetto a quelle che riducono il fumo, la pressione sanguigna, migliorano l’esercizio fisico o riducono il BMI».

La ricercatrice della Western Australia University ha quindi presentato il programma “Compassionate Connector”, un’iniziativa da lei promossa nell’Australia Occidentale che prevede la formazione di volontari – chiamati “connectors” – per fornire supporto pratico ed emotivo ai malati terminali e alle loro famiglie. Questi volontari, ha spiegato, sono formati per «diagnosticare la sofferenza, non le malattie».

Il programma ha ottenuto risultati significativi, tra cui un aumento della connessione sociale, una riduzione dell’isolamento e un miglioramento nella gestione delle attività quotidiane1. Un aspetto importante è poi rappresentato dal significativo risparmio economico che ne è derivato. L’adozione del progetto è infatti risultata associata a una riduzione delle ospedalizzazioni, dei giorni di ricovero e degli accessi al pronto soccorso2. «Quanto ha risparmiato il servizio sanitario? Circa mezzo milione ogni sei mesi», ha riferito Aoun.

In conclusione, Aoun ha ribadito l’importanza della collaborazione tra operatori sanitari, istituzioni e comunità per la costruzione di un modello di cure palliative più compassionevole e sostenibile. «Per mantenere un cambiamento di sistema – ha sottolineato – sono necessarie cure palliative specialistiche e generaliste, organizzazioni civiche e reti comunitarie. Tutti devono collaborare per creare un sistema di cure di fine vita efficace, conveniente e sostenibile».

Il progetto InVITA, primo in Italia ad avviare la creazione di una caring community, si pone come un laboratorio di innovazione sociale, pronto a sperimentare e implementare questo modello nel territorio di Reggio Emilia. L’obiettivo è ambizioso: costruire un sistema di cure di fine vita più umano, sostenibile e profondamente radicato nel tessuto sociale, in cui la compassione e la solidarietà diventino parte integrante del percorso di cura.




Bibliografia

1. Aoun SM, Richmond R, Gunton K, et al. The Compassionate Communities Connectors model for end-of-life care: implementation and evaluation. Palliat Care Soc Pract 2022; 16: 26323524221139655.

2. Aoun SM, Bear N, Rumbold B. The Compassionate Communities Connectors program: effect on healthcare usage. Palliat Care Soc Pract 2023; 17: 26323524231205323.

Fabio Ambrosino

in collaborazione con InMedicina

L’influenza di età e sesso sul trattamento dei pazienti con diabete di tipo 2

Le risposte ai farmaci per il diabete di tipo 2 cambiano in base all’età e al sesso biologico del paziente che riceve il trattamento? Una network meta-analysis, pubblicata di recente sul JAMA, ha affrontato questa domanda di ricerca integrando le evidenze a oggi disponibili1.

Negli ultimi vent’anni, fra i trattamenti per il diabete di tipo 2 si è assestata l’efficacia degli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT2) e degli agonisti del recettore del glucagone peptide-1 (GLP-1) nel migliorare gli esiti cardiovascolari e renali, con un uso diffuso nella pratica clinica e la loro inclusione nelle linee guida. Tuttavia, la possibilità che gli effetti delle terapie possano differire a seconda delle caratteristiche dei partecipanti ha portato Peter Hanlon, University of Glasgow, e colleghi a interrogarsi sull’applicazione dei risultati agli anziani e le donne, fasce di popolazione solitamente poco rappresentate negli studi.

Secondo la meta-analisi, gli inibitori SGLT2 sarebbero più validi nella protezione cardiovascolare per le persone anziane, nonostante una minore efficacia nel ridurre i livelli di emoglobina A1c, mentre gli agonisti GLP-1 mostrerebbero migliori risultati nei pazienti più giovani. Non sono state trovate grandi differenze nell’efficacia di questi farmaci basate sul sesso, a parte una potenziale minore efficacia degli inibitori DPP4 nei pazienti di sesso maschile.

Nella meta-analisi sono stati presi in considerazione studi clinici randomizzati che valutavano l’efficacia degli inibitori SGLT2, degli agonisti del recettore GLP-1 o degli inibitori DPP4 per ridurre HbA1c o sugli eventi cardiovascolari avversi maggiori (MACE) – rispetto a un placebo o a un comparatore attivo – in adulti (età pari o superiore a 18 anni) con diagnosi di diabete di tipo 2.

I ricercatori hanno incluso 601 studi nella meta-analisi di rete. Di questi, 498 garantivano l’accesso solamente a dati aggregati (303.311 partecipanti) e 103 contenevano dati di singoli partecipanti (quindi 92.182 pazienti). Inoltre, sul totale degli studi, 592 (309.503 partecipanti, 42,3% di sesso femminile; età media 58,9 anni) riportavano l’emoglobina A1c, mentre 23 (168.489 partecipanti, 35,3% di sesso femminile; età media 64 anni) segnalavano eventi cardiovascolari avversi maggiori. Inoltre, sono stati ottenuti i dati di singoli partecipanti per 103 studi (tutti e 103 hanno riportato HbA1c, solo 6 MACE).

L’uso degli inibitori SGLT2 – rispetto al placebo – è stato associato a una minore riduzione di HbA1c con l’aumentare dell’età per quanto riguarda la monoterapia (riduzione assoluta [AR], 0,24% [95% intervallo di credibilità (CrI), da 0,10% a 0,38%] per ogni incremento di età di 30 anni), per la duplice terapia (AR, 0,17% [95% CrI, da 0,10% a 0,24%]) e per la triplice terapia (AR, 0,25% [95% CrI, da 0,20% a 0,30%]).

L’uso degli agonisti del recettore del GLP-1 è stato associato a una maggiore riduzione dell’HbA1c con l’aumentare dell’età per la monoterapia (AR, -0,18% [95% CrI, da -0,31% a -0,05%] per ogni incremento di età di 30 anni) e per la duplice terapia (AR, -0,24% [95% CrI, da -0,40% a -0,07%]), ma non per la triplice terapia (AR, 0,04% [95% CrI, da -0,02% a 0,11%]).

L’uso degli inibitori della DPP4 è stato associato a una riduzione dell’HbA1c leggermente migliore negli anziani per la duplice terapia (AR, -0,09% [95% CrI, da -0,15% a -0,03%] per ogni incremento di età di 30 anni), ma non per la monoterapia (AR, -0,08% [95% CrI, da -0,18% a 0,01%]) o la triplice terapia (AR, -0,01% [95% CrI, da -0,06% a 0,05%]).

Per quanto riguarda gli eventi cardiovascolari avversi maggiori, l’uso degli inibitori della DPP4 è risultato meno efficace nei partecipanti di sesso maschile (HR, 1,65 [95% CrI, 1,25-2,21]), anche se questa associazione si è attenuata facendo analisi per sottogruppi più approfondite. Non c’è stata invece evidenza di un’interazione sesso/trattamento per gli agonisti del recettore GLP-1 (HR, 1,17 [95% CrI, 0,87-1,58] per maschi vs femmine) o per gli inibitori SGLT2 (HR, 0,95 [95% CrI, 0,86-1,06] per maschi vs femmine).

I ricercatori hanno riconosciuto diverse limitazioni per questa meta-analisi di rete: una delle principali è la bassa disponibilità di dati dei singoli partecipanti (il 17% sul totale di quelli inclusi nell’analisi). Inoltre, lo studio non ha presentato i rischi assoluti degli eventi cardiovascolari maggiori, il che rende difficile valutare l’impatto reale dei trattamenti in popolazioni diverse. Infine, è importante notare che lo studio potrebbe non essere generalizzabile a persone anziane (oltre gli 80 anni) o fragili, poiché sottorappresentati negli studi. L’effetto dell’età sull’efficacia del trattamento potrebbe essere influenzato da altre caratteristiche e fattori che non sono stati misurati in questo studio, anche per via di alcune limitazioni del software.




Bibliografia

1. Hanlon P, Butterly E, Wei L, et al. Age and sex differences in efficacy of treatments for Type 2 Diabetes: a network meta-analysis. JAMA 2025; e2427402.

Andrea Calignano

in collaborazione con Cardioinfo