Dalla letteratura

Prevenzione primaria e secondaria del tumore della mammella in carcere: un progetto italiano

Prevenzione primaria e secondaria del tumore della mammella nelle carceri: un progetto-pilota portato avanti a Pontedera e Pisa è stato presentato alla 19th St. Gallen International Breast Cancer Conference 2025 di Vienna e ha mostrato risultati molto incoraggianti1.

Spiega Laura Roveda, responsabile della Breast Unit dell’Ospedale Lotti di Pontedera e coordinatrice del progetto: «Il carcinoma mammario è il tumore più frequente nelle donne ed è confermato che la prevenzione primaria (PP) e secondaria (SP) possono ridurre la mortalità. Purtroppo, a causa di una vita sregolata e spesso lontana dalla famiglia d’origine, per le donne detenute i percorsi di prevenzione sono solitamente frammentari o carenti. La nostra Breast Unit (BU) è impegnata a sottoporre le donne detenute a una sorveglianza regolare, in accordo con lo staff della Medicina penitenziaria presso la Casa Circondariale Don Bosco di Pisa».

Gli interventi di PP hanno previsto incontri educazionali (ogni 3 mesi in base al turnover delle donne) per informare sull’incidenza del tumore della mammella e sui fattori di rischio; lo staff della BU di Pontedera ha illustrato l’importanza di un corretto stile di vita per diminuire il rischio di tumore della mammella, così come l’importanza di una conoscenza approfondita della storia medica personale e familiare. Ha informato le donne anche sullo screening con Mammografia (MM), le ha educate a riconoscere i segni e i sintomi del tumore della mammella mostrando in dettaglio la tecnica di auto sorveglianza attraverso l’ispezione e l’esame palpatorio della mammella. Sono state programmate valutazioni cliniche complete per formulare profili di rischio individuali e programmi di sorveglianza personalizzati. Le ulteriori indagini necessarie (MM, RM, biopsia, ecc.) e gli interventi chirurgici sono stati eseguiti dai professionisti della BU dopo il trasferimento delle donne (scortate dalla Polizia Penitenziaria) dal carcere all’ospedale.




Da aprile a novembre 2024 si sono tenuti 2 incontri formativi con una buona partecipazione spontanea (oltre l’80%). Sessanta donne (età media 40-55 anni) sono state invitate per una valutazione clinica completa: 3 di loro hanno rifiutato la visita. La maggior parte delle donne presentava molteplici fattori di rischio (età, fumo abituale, scarsa attività fisica, obesità, storia di dipendenze, ecc.), non era in grado di riferire in modo esauriente la storia clinica familiare e non aderiva regolarmente allo screening mammografico, che è stato programmato per le donne asintomatiche secondo i regolari programmi di prevenzione. Ulteriori indagini sono state eseguite in caso di sintomi o anomalie cliniche: 1 donna è stata sottoposta a chirurgia conservativa per una cicatrice radiale B3, 2 donne sono state indirizzate alla consulenza genetica e testate per la mutazione BRCA.

Le donne si sono dette globalmente molto soddisfatte del programma di sorveglianza. In media, le donne detenute presentavano un profilo di rischio elevato per il tumore della mammella e una scarsa sorveglianza precedente, ma sono state liete di essere informate sulla prevenzione e di sottoporsi a una valutazione clinica completa. Pertanto, il periodo in carcere può essere considerato un’ottima opportunità per informare le donne sulla PP e riportarle a una regolare SP.




Bibliografia

1. Roveda L, Coli V, Melis BM, Pitzalis E. P 144: risk factors, prevention and diagnosis of Breast Cancer (BC) among imprisoned women. The Breast 2025; 80: 104000.

David Frati

in collaborazione con OncoInfo

Statine e incidenza del carcinoma epatocellulare

Un nuovo studio pubblicato su JAMA Internal Medicine e condotto da Jonggi Choi et al. dell’Harvard Medical School di Boston ha analizzato l’associazione tra il consumo di statine e la progressione della fibrosi epatica, nonché l’incidenza di carcinoma epatocellulare e la scompenso epatico in una vasta coorte di pazienti con malattia epatica cronica1.

La ricerca ha incluso dati di oltre 16.500 pazienti con malattia epatica cronica, di età pari o superiore ai 40 anni, registrati tra il 2000 e il 2023. I soggetti sono stati suddivisi in due gruppi: utilizzatori e non utilizzatori di statine. Il parametro chiave utilizzato per valutare la progressione della fibrosi epatica è stato il punteggio Fibrosis-4 (FIB-4), che classifica i pazienti in gruppi a basso, intermedio e alto rischio di fibrosi avanzata. L’obiettivo primario dello studio era determinare se l’assunzione di statine fosse associata a una riduzione del rischio di carcinoma epatocellulare e di scompenso epatico, nonché a una minore progressione della fibrosi epatica nel tempo.




I risultati indicano che l’uso delle statine è correlato a una riduzione significativa del rischio di carcinoma epatocellulare e di scompenso epatico. In particolare, il tasso di incidenza cumulativa a 10 anni di carcinoma epatocellulare è stato del 3,8% nei pazienti che assumevano statine, contro l’8% nei non utilizzatori (differenza di rischio: -4,2%; IC 95%, -5,3% a -3,1%). Analogamente, il tasso di scompenso epatico è risultato del 10,6% nei soggetti trattati con statine, rispetto al 19,5% nei non utilizzatori (differenza di rischio: -9,0%; IC 95%, -10,6% a -7,3%). L’analisi multivariata ha mostrato un hazard ratio aggiustato (aSHR) di 0,67 (IC 95%, 0,59-0,76) per carcinoma epatocellulare e di 0,78 (IC 95%, 0,67-0,91) per la scompenso epatico tra i pazienti trattati con statine rispetto ai non trattati.

Un altro dato rilevante riguarda la progressione della fibrosi epatica. Tra i pazienti con dati seriali di FIB-4, il 14,7% degli utilizzatori di statine con un rischio iniziale intermedio è progredito al rischio elevato, rispetto al 20% dei non utilizzatori. Tra i pazienti con un rischio iniziale elevato, il 31,8% dei trattati con statine è passato alla categoria di rischio intermedio e il 7% a quella di basso rischio, rispettivamente al 18,8% e al 4,3% dei non utilizzatori (p<0,001). Questo studio suggerisce che le statine possano svolgere un ruolo protettivo significativo nei pazienti con malattia epatica cronica, riducendo il rischio di carcinoma epatocellulare e di scompenso epatico, oltre a rallentare la progressione della fibrosi epatica. Gli autori sottolineano l’importanza di ulteriori studi prospettici e randomizzati per confermare questi risultati e valutare l’integrazione delle statine nei protocolli di prevenzione del carcinoma epatocellulare nei pazienti con malattia epatica cronica. Tuttavia, i dati emergenti rafforzano l’idea che queste molecole, oltre al loro noto effetto ipolipemizzante, possano offrire benefici epatoprotettivi significativi.




Bibliografia

1. Choi J, Nguyen VH, Przybyszewski E, et al. Statin use and risk of hepatocellular carcinoma and liver fibrosis in chronic liver disease. JAMA Intern Med 2025 Mar 17: e250115.

Fabio Ambrosino

in collaborazione con OncoInfo

L’incremento globale della malattia di Parkinson: una proiezione al 2050

La malattia di Parkinson sta emergendo come una delle sfide sanitarie più pressanti degli ultimi anni. Un recente articolo pubblicato sul BMJ ha analizzato il fenomeno, stimando una crescita della prevalenza fino al 2050 che avrà significative implicazioni per i sistemi sanitari globali1. Lo studio – condotto da Dongning Su del Beijing Tiantan Hospital (Pechino, Cina) et al. – prevederebbe che nel 2050 più di 25 milioni di persone vivranno con la malattia di Parkinson, con un aumento del 112% rispetto al 2021.

Lo studio di Su et al. ha preso in considerazione dati del Global Burden of Disease Study 20212, e i risultati hanno mostrato un incremento che i ricercatori ritengono allarmante. L’aumento sarebbe da attribuire principalmente all’invecchiamento della popolazione, ma potrebbe riflettere anche altri fattori ambientali e socioeconomici.

Dal punto di vista geografico, le stime mostrano variazioni significative tra le diverse regioni. L’Asia orientale subirà l’aumento maggiore, con circa 10,9 milioni di casi previsti entro il 2050, mentre le regioni con la maggiore crescita relativa saranno l’Africa subsahariana occidentale (+292%) e l’Africa subsahariana orientale (+246%).

Un altro aspetto affrontato nello studio è l’impatto dei fattori modificabili sulla malattia di Parkinson. Per Su et al., sebbene l’incremento della pratica di attività fisica potrebbe contribuire a una riduzione della prevalenza, la cessazione del fumo potrebbe portare a un incremento. Tuttavia, secondo l’editoriale di accompagnamento all’articolo uscito sul BMJ, queste stime potrebbero basarsi su modelli e semplificazioni ritenute eccessive, che non considererebbero adeguatamente i tempi di latenza della malattia e la complessa interazione tra fattori di rischio3.




L’editoriale, firmato da Tobias Kurth della Universitätsmedizin Berlin (Berlino, Germania) e Ralph Brinks della Witten/Herdecke University (Witten, Germania), ha valutato le metodologie utilizzate, evidenziando le necessità di miglioramenti per ottenere previsioni più affidabili. Kurth e Brinks, infatti, hanno sollevato alcuni dubbi sulla validità metodologica dello studio, evidenziando i limiti dell’approccio basato sull’estrapolazione della prevalenza (extrapolation of prevalence): il metodo si baserebbe sull’assunto che le tendenze attuali rimangano costanti nel tempo, ignorando variazioni nella incidenza della malattia e nelle curve di mortalità, ritenuti fattori chiave in un’indagine di questo tipo. Gli autori hanno segnalato in alternativa il modello illness-death che – tenendo conto della transizione tra uno stato di salute, la diagnosi di Parkinson e la morte – fornirebbe una visione più realistica della progressione della malattia.

L’approccio illness-death è stato recentemente applicato in studi sulle malattie croniche legate all’età, mostrando che i modelli basati sulla sola estrapolazione della prevalenza tendono a sottostimare il numero di casi futuri. Ad esempio, nel caso del diabete di tipo 2, è stato osservato che questo modello potrebbe fornire stime più elevate e precise rispetto ai modelli tradizionali. Se lo stesso principio fosse applicato al Parkinson, le previsioni al 2050 di Su et al. potrebbero sottostimare il reale carico della malattia nei prossimi decenni.

Un altro punto critico evidenziato nell’editoriale riguarda la stima dell’impatto dei fattori modificabili. Le metriche usate nello studio hanno considerato che la modifica di un singolo fattore di rischio produca un cambiamento proporzionale nell’incidenza della malattia, ignorando interazioni complesse, la variabilità individuale e l’eventuale presenza di fattori confondenti. In particolare, l’associazione inversa tra fumo e rischio di Parkinson potrebbe essere influenzata da bias di selezione o da fattori genetici, piuttosto che da un effetto diretto della nicotina.

Tornando allo studio, le previsioni sull’incremento della malattia di Parkinson nel 2050 hanno sollevato questioni critiche per la pianificazione delle risorse sanitarie. Con il numero crescente di persone che soffriranno di questa malattia, si renderà necessario un potenziamento dei servizi di neurologia, riabilitazione e assistenza a lungo termine. E se da un lato è noto che l’invecchiamento è il principale fattore di rischio, dall’altro resta ancora da chiarire il contributo di fattori ambientali e genetici come il possibile ruolo della neuroinfiammazione, dell’esposizione a pesticidi e inquinanti, e delle disfunzioni del microbiota intestinale nella patogenesi della malattia.

In conclusione, lo studio ha fornito una panoramica del carico futuro della malattia, sottolineando la crescente sfida sanitaria che questa malattia rappresenterà nei prossimi decenni. Se da un lato queste previsioni devono essere interpretate con le cautele sottolineate dall’editoriale, dall’altro saranno sicuramente necessarie per sensibilizzare la comunità scientifica e i decisori politici sull’urgenza di politiche sanitarie proattive che includano investimenti nella diagnosi precoce e nell’assistenza ai pazienti.




Bibliografia

1. Su D, Cui Y, He C, et al. Projections for prevalence of Parkinson’s disease and its driving factors in 195 countries and territories to 2050: modelling study of Global Burden of Disease Study 2021. BMJ 2025; 388: e080952.

2. IHME. Global Burden of Disease 2021: findings from the GBD 2021 Study. Disponibile su: https://lc.cx/I9p98Q

3. Kurth T, Brinks R. Projecting Parkinson’s disease burden. BMJ 2025; 388: r350.

Andrea Calignano

in collaborazione con NeuroInfo

Clinical update sulla Masld: intraprendere una terapia farmacologica o modificare lo stile di vita?

La malattia epatica steatosica associata a disfunzione metabolica (Masld) è un problema crescente: colpisce quasi un terzo della popolazione globale ed è diventata la seconda causa di trapianto di fegato, superando l’epatite C. Per questi motivi, su Jama Internal Medicine è stato pubblicato un Clinical update che contiene i nuovi criteri diagnostici, la stratificazione del rischio e i trattamenti emergenti per questa malattia, definita dalla presenza di steatosi epatica insieme ad almeno uno dei fattori di rischio cardiometabolico, come obesità, dislipidemia, ipertensione e intolleranza al glucosio1.

Secondo Danielle Brandman, del Weill Cornell Medical College (New York, Usa) e corresponding author del Clinical update, l’identificazione precoce della Masld sarebbe di capitale importanza. Le linee guida dell’American Association for the Study of Liver Disease (AASLD) raccomandano di sottoporre a screening con il punteggio Fibrosis-4 (FIB-4) le popolazioni ad alto rischio, tra cui quelle con diabete di tipo 2, obesità con comorbilità, uso moderato di alcol e un parente di primo grado con cirrosi da Masld. Tuttavia, molti pazienti che potrebbero essere affetti da Masld non vengono identificati dalla presenza della steatosi epatica sulla diagnostica per immagini o dai test di funzionalità epatica elevati. Per questi pazienti, gli esami non invasivi potrebbero aiutare a stratificare il rischio di progressione della malattia e di fibrosi avanzata.




Per Brandman et al., modificare lo stile di vita è fondamentale nel trattamento della Masld. Soprattutto sarebbe importante ridurre il proprio peso corporeo e aumentare l’esercizio fisico: infatti – sempre secondo le linee guida – una riduzione di peso del 7% può far regredire la steatoepatite e una del 10% può migliorare la fibrosi. Oltre a 150-300 minuti di esercizio aerobico moderato o 75-150 minuti di esercizio aerobico intenso ogni settimana, ai pazienti dovrebbe essere consigliata anche una corretta alimentazione, l’eliminazione di bevande alcoliche dalla propria dieta e una vaccinazione contro i virus dell’epatite A e B.

Sebbene secondo i ricercatori la modifica dello stile di vita resti il trattamento consigliato per questa malattia, le alternative farmacologiche emergenti offrono un’alternativa valida di terapia. Nel marzo 2024 è stato approvato dalla Food and Drug Administration (Fda) il primo farmaco per il trattamento della steatoepatite associata a disfunzione metabolica (Mash) con fibrosi di stadio 2-3, il resmetirom. Il trattamento consiste in una terapia orale giornaliera diretta al fegato ed è stata approvata in seguito all’efficacia mostrata in uno studio di fase III (MAESTRO-NASH). Nel trial circa il 30% dei pazienti trattati con resmetirom ha raggiunto la risoluzione di Mash senza peggioramento della fibrosi rispetto al 9,7% con placebo (p<0,001) e il 25,9% ha mostrato un miglioramento della fibrosi rispetto al 14,2% con placebo (p<0,001).

Anche i farmaci per il diabete e l’obesità – come gli agonisti recettoriali del glucagon-like peptide 1 (GLP-1RAs) e gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2) – sono in fase di studio per il trattamento della Masld. In un trial di fase II, semaglutide ha risolto la Mash nel 59% dei pazienti senza peggiorare la fibrosi, rispetto al 17% dei soggetti trattati con placebo (p<0,001). La tirzepatide ha mostrato risultati simili, con risoluzione della Mash nel 62% dei pazienti rispetto al 10% con placebo (p<0,001). Gli inibitori di SGLT2 sembrerebbero offrire lievi benefici per la steatosi epatica e la fibrosi, ma le evidenze sono ancora piuttosto limitate. Nonostante gli autori del Clinical update vedano del potenziale nelle nuove terapie, nessuna di queste, al momento, è un trattamento approvato per la Masld.




Bibliografia

1. Zhang GY, Brandman D. A Clinical Update on MASLD. JAMA Intern Med 2025; 185: 105-7.

in collaborazione con GastroInfo

Arresto cardiaco Ohca: Cpr immediata, anche da soccorritori non specializzati

Il fattore critico nel determinare la sopravvivenza e gli esiti a lungo termine dopo una manovra di rianimazione cardiopolmonare (Cpr) sarebbe la rapidità con cui viene iniziata dai soccorritori, indipendentemente dal soggetto che la esegue. E sebbene la percentuale di cittadini in grado di eseguire la Cpr sia in aumento, i dati raccontano che l’80% degli arresti cardiaci – considerando quelli che si verificano fuori da strutture ospedaliere (out-of-hospital cardiac arrest - Ohca) – avvengono in quartieri residenziali.

L’incidenza di Ohca in adulti apparentemente sani di età inferiore ai 40 anni varia da 4 a 14 casi per 100.000 anni-persona in tutto il mondo, e su un totale stimato tra i 350.000 e i 450.000 arresti cardiaci extraospedalieri annui negli Stati Uniti, circa il 10% dei pazienti sopravvive.

In questi soggetti, l’evento può essere dovuto a malattie cardiache ereditarie o acquisite, o a cause non cardiache. Tra i giovani adulti che hanno avuto un Ohca, solo una percentuale tra il 9% e il 16% sopravvive alla dimissione ospedaliera1. I dati sono stati presentati in un recente articolo, firmato da Zian Tseng e Kosuke Nakasuka della University of California (San Francisco, Usa) e pubblicato su JAMA1, ma di questo tema si stanno occupando diversi gruppi di ricerca.

Uno di questi – che presenterà un nuovo studio al congresso Esc Acute CardioVascular Care a Firenze il 14 e 15 marzo – ha evidenziato la necessità di una maggiore educazione del pubblico e di una formazione sul Basic Life Support (Bls) per migliorare i tassi di sopravvivenza. «Nel tempo, la percentuale di soccorritori laici è aumentata costantemente» hanno commentato gli autori Aneta Aleksova, Alessandra Lucia Fluca e Milijana Janjusevic dell’Università di Trieste, e Andrea Perkan dell’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (Asu GI) in un comunicato stampa diffuso da Esc, sottolineando come – indipendentemente dal tipo di soccorritore – sia fondamentale il rapido ripristino della circolazione spontanea per la sopravvivenza in ospedale.

Confrontando i pazienti che hanno ricevuto un primo intervento di Cpr da parte di personale laico o da parte del servizio medico di emergenza, infatti, i ricercatori hanno osservato una sopravvivenza a lungo termine simile. «I nostri dati hanno evidenziato l’importanza di una rianimazione immediata per promuovere la consapevolezza della popolazione e la formazione Bls e migliorare ulteriormente la sopravvivenza dopo un arresto cardiaco extraospedaliero».

I ricercatori hanno selezionato 1.035 articoli pubblicati in lingua inglese tra il 2000 e il 2024, che contenessero le parole chiave “morte cardiaca improvvisa”, “arresto cardiaco extraospedaliero” e “giovani”. Aleksova et al. hanno quindi analizzato i dati di 3.315 pazienti con infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (Stemi) – un tipo di attacco cardiaco causato dall’ostruzione completa di un’arteria cardiaca principale – ricoverati nel reparto di cardiologia dell’Ospedale universitario di Trieste nell’arco di 22 anni (2003-2024). Tra questi, 172 sono stati colpiti da arresto cardiaco e 44 hanno ricevuto la rianimazione cardiopolmonare da un soccorritore non specializzato: lo studio ha inoltre mostrato che la percentuale di pazienti che hanno ricevuto la Cpr da soccorritori non specializzati sia aumentata dal 26% nel 2003-2007 al 69% nel 2020-2024.




Gli autori dello studio che verrà presentato a Firenze hanno rivelato che i predittori di mortalità in ospedale sarebbero una peggiore frazione di eiezione del ventricolo sinistro (Lvef), un tempo più lungo per il ritorno della circolazione spontanea (return of spontaneous circulation - Rosc) e l’età avanzata, dopo una correzione per il tipo di soccorritore. Secondo i ricercatori, in particolare, un aumento di 5 minuti del tempo al Rosc e una diminuzione di 5 punti percentuali della Lvef sarebbero associati a un aumento del rischio di mortalità del 38%, mentre ogni aumento di 5 anni dell’età corrisponderebbe a un rischio di morte maggiore del 46%. Inoltre, durante un follow-up mediano di 7 anni, 18 pazienti (14%) sono morti, ma l’analisi ha mostrato che non c’è correlazione tra la mortalità e il tipo di primo soccorso ricevuto (laico o specializzato).

Sebbene questi tassi di sopravvivenza siano più alti di quelli tipicamente riscontrati per i pazienti con Ohca, gli autori hanno spiegato che questo potrebbe essere dovuto a vari fattori: i pazienti inclusi in questo studio hanno avuto attacchi cardiaci di tipo Stemi, da cui le possibilità di recupero sono più alte rispetto ai pazienti con Ohca per altre cause cardiache ed extracardiache; la possibilità di una percentuale di cittadini addestrati alla rianimazione cardiopolmonare superiore alla media; sistemi sanitari di emergenza molto efficienti che avrebbero consentito agli operatori di raggiungere i pazienti molto rapidamente.




Bibliografia

1. Tseng ZH, Nakasuka K. Out-of-hospital cardiac arrest in apparently healthy, young adults. JAMA 2025; 333: 981-96.

Andrea Calignano

in collaborazione con CardioInfo

Scompenso cardiaco:
un modello IA-Ecg per la stratificazione del rischio

Un recente studio pubblicato sullo European Heart Journal propone un nuovo approccio per la stratificazione del rischio di scompenso cardiaco basato sull’intelligenza artificiale applicata all’elettrocardiogramma (IA-Ecg)1. La ricerca, condotta da un team internazionale, ha mostrato come un modello di intelligenza artificiale possa migliorare la capacità di predire il rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco.

Lo studio ha analizzato dati provenienti da tre grandi coorti: il Yale New Haven Health System (Ynhhs) negli Stati Uniti, il UK Biobank (Ukb) nel Regno Unito e il Brazilian Longitudinal Study of Adult Health (Elsa-Brasil). I partecipanti inclusi non avevano una diagnosi di scompenso cardiaco all’inizio dello studio e sono stati seguiti per monitorare il primo ricovero ospedaliero correlato alla patologia.

I ricercatori hanno utilizzato un modello IA-Ecg addestrato a identificare la disfunzione sistolica ventricolare sinistra sulla base di immagini a 12 derivazioni Ecg. Il modello è stato poi impiegato per valutare l’associazione con lo sviluppo successivo di scompenso cardiaco. La discriminazione del modello è stata misurata attraverso il C-statistic di Harrell, un indice utilizzato per valutare la capacità predittiva di un modello.

I risultati dello studio indicano che il modello IA-Ecg è in grado di identificare con elevata accuratezza i pazienti a rischio di scompenso cardiaco, migliorando la stratificazione rispetto ai metodi clinici tradizionali. In particolare, un test IA-Ecg positivo è associato a un rischio di insorgenza di scompenso cardiaco da 4 a 24 volte superiore rispetto ai soggetti con test negativo. L’associazione si è mantenuta significativa anche dopo aver considerato le comorbilità e il rischio competitivo di morte. Maggiori probabilità di un test positivo, poi, sono risultate correlate a un rischio progressivamente più alto di sviluppare scompenso cardiaco.

L’introduzione di strumenti basati sull’intelligenza artificiale nella valutazione dell’Ecg potrebbe cambiare radicalmente l’approccio alla prevenzione dello scompenso cardiaco. Il modello IA-Ecg, infatti, potrebbe essere integrato nei sistemi sanitari per identificare i pazienti a rischio in modo rapido e non invasivo, riducendo il numero di ricoveri e migliorando la qualità della vita dei pazienti.

Nonostante i risultati promettenti, gli autori dello studio sottolineano la necessità di ulteriori ricerche per validare il modello in contesti clinici più ampi e diversificati. Infine, saranno necessari studi prospettici per confermare l’efficacia dell’IA-Ecg nella pratica quotidiana e per valutarne l’impatto sulle decisioni terapeutiche.

Bibliografia

1. Dhingra LS, Aminorroaya A, Sangha V, et al. Heart failure risk stratification using artificial intelligence applied to electrocardiogram images: a multinational study. Eur Heart J 2025; 46: 1044-53.

in collaborazione con CardioInfo