Attuali problemi del trattamento della bronchiolite nei bambini

La bronchiolite (B) dei bambini è una frequente infezione acuta delle vie aeree inferiori, caratterizzata da rinorrea, tosse, respiro soffiante (“wheezing” nella terminologia di lingua inglese, che non è dispnea), oppressione respiratoria e ipossiemia. La B è causata in circa il 34% dei casi da virus sinciziale respiratorio (RSV), negli altri da virus parainfluenzali, adenovirus, influenza A e B e Mycoplasma pneumoniae (King RE jr. Bronchiolitis. In: Fishman’s Pulmonary Disease and Disorders. McGraw Hill, New York 1998).
Persistono attualmente incertezze e controversie sul trattamento della B, in gran parte dovute al fatto che l’etiologia della B è variabile e spesso non esclusivamente di natura infettiva, poiché varie cause di natura ambientale, come fumo di tabacco passivo prenatale e inquinamento atmosferico, possono predisporvi e inoltre questa condizione non è sempre associata ad atopia e raramente evolve verso l’asma bronchiale (American Academy of Pediatrics Subcommittee on Diagnosis and Management of Bronchiolitis. Diagnosis and management of bronchiolitis. Pediatrics 2006; 118: 1774).



In particolare è controverso l’uso di adrenalina per nebulizzazione associato a corticosteroidi per via sistemica nei bambini con B, fin dal primo episodio di “wheezing” accompagnato a grave sofferenza respiratoria.
Recentemente è stato condotto uno studio multicentrico, a doppio cieco, controllato con placebo su 800 bambini con B di età da 6 settimane a 12 mesi, accolti in unità di terapia intensiva pediatrica e seguiti dal 2004 al 2007 durante il periodo da dicembre a tutto aprile, ritenuto quello in cui più frequentemente si manifesta una B nei bambini (Plint AC, Johnson DW, Patel H, et al. Epinephrine and desamethasone in children with bronchiolitis. N Engl J Med 2009; 360: 2079). Un gruppo di pazienti ha ricevuto due nebulizzazioni di adrenalina (3 mL in soluzione 1:1000) e sei dosi di desametasone (1,0 mg/kg) nell’unità di terapia intensiva e 0,6 mg/kg nei successivi cinque giorni. Un secondo gruppo ha ricevuto adrenalina per nebulizzazione e un placebo per os; un terzo gruppo ha ricevuto un placebo per nebulizzazione e desametasone per os; infine un quarto gruppo ha ricevuto placebo per nebulizzazione e per os.
Gli autori hanno osservato un sinergismo, definito “inaspettato”, tra adrenalina e desametasone; infatti l’associazione dei due farmaci ha ridotto, a confronto con il placebo, la percentuale di pazienti inviati dall’unità di terapia intensiva ai reparti di degenza di 9 punti percentuali, con una riduzione del 35% del rischio relativo di complicanze. È interessante rilevare che questi positivi risultati non sono stati influenzati dalla presenza di infezione da RSV, dalla presenza o dall’assenza di atopia nell’anamnesi, né dalla durata e dalla gravità della B.
È stato osservato che l’effetto di questa associazione è stato evidente soprattutto nei primi 3 giorni di studio. Inoltre gli autori sottolineano che l’effetto positivo di questa associazione si è manifestato attraverso la precoce dimissione dall’ospedale e la ripresa di un normale respiro e di una normale alimentazione. Per contro ciò non è stato rilevato nei gruppi trattati con sola adrenalina o solo desametasone.
Gli autori non hanno osservato eventi avversi di rilievo nel corso dello studio; in particolare, non sono stati segnalati eventi dovuti a soppressione corticosurrenalica, arresto di accrescimento e ritardo di sviluppo neurologico. Tuttavia gli autori ricordano che la soppressione dell’attività corticosurrenalica è pur sempre un rischio in corso di terapia con corticosteroidi, anche se nei trattamenti di breve durata, come nel loro studio, queste manifestazioni sono in genere transitorie.
Gli autori riconoscono alcune limitazioni nel loro studio. Ad esempio, sono stati inclusi soltanto bambini che hanno avuto “wheezing” per la prima volta, al fine di evitare di includere soggetti con asma iniziale. Inoltre si riconosce che questi risultati non possono al momento essere generalizzati a bambini di età più avanzata e con sintomatologia ricorrente.
Nel commentare questi risultati Frey e von Mutius (Frey MD, von Mutius, E. The challenge of managing wheezing in infants. N Engl J Med 2009; 360: 2130) osservano che nel trattamento di bambini che presentano il primo episodio di B è necessario valutare i fattori di rischio che questo episodio può comportare, mediante un’attenta anamnesi, al fine di essere sicuri di identificare e trattare pazienti che presenteranno una sintomatologia persistente o ricorrente. In particolare, se vi sono segni di atopia, deve essere iniziata una terapia di mantenimento con corticosteroidi per inalazione o con antagonisti dei recettori per i leucotrieni, da soli o in associazione ( Brand PL, Baraldi R, Bisgaard H, et al. Definition, assessment and treatment of wheezing disorders in preschool children: an evidence-based approach. Eur Respir J 2008; 32: 1096). Inoltre, a motivo del variabile decorso della sintomatologia, è necessario un controllo di questi pazienti dopo qualche settimana, rivalutando sintomi e anamnesi ed eventualmente riducendo le dosi dei farmaci e/o sospendendo la terapia.
Recenti ricerche sulla prevenzione
del diabete mellito di tipo 2
Negli ultimi anni gli studi sulla prevenzione del diabete mellito di tipo 2 (DM2) hanno posto in risalto la necessità di approfondire le conoscenze sulle modificazioni fisiopatologiche che conducono al diabete il più precocemente possibile. A questo proposito è noto che le condizioni di alterata glicemia a digiuno (IFG, “impaired fasting glycemia”) e di alterata tolleranza glicidica (IGT: “impaired glucose tolerance”) consentono di indicare un livello glicemico soltanto in un determinato momento, mentre è noto che il rischio di diabete e delle sue complicanze cardiovascolari può essere già presente a valori glicemici che sono ritenuti indice di prediabete (Ryden L, Standl E, Bartnik K, et al. Guidelines on diabetes, prediabetes and cardiovascular disease: executive summary. The Task Force on Diabetes and Cardiovascular Disease of the European Society of Cardiology (ESC) and of the European Association for the Study of Diabetes (EASD). Eur Heart J 2007; 28: 88).



Per descrivere il periodo di instabilità dell’equilibrio glicemico che precede l’inizio del diabete clinicamente conclamato è stato proposto un modello multistadio dello sviluppo del DM2 (Weir GC, Bonner-Weir S. Five stages of evolving beta-cell dysfunction during progression to diabetes (Diabetes 2004; 53 (suppl 3): S16).
Avvalendosi di questo modello lo studio Whitehall II ha eseguito uno screening su 6058 uomini  e 2758 donne di età da 35 a 55 anni, al fine di caratterizzare la “traiettoria” dei valori di glicemia a digiuno, glicemia 2 ore dopo carico di 75g di glucosio, sensibilità all’insulina e secrezione insulinica nel corso di 13 anni di controllo e di confrontare questo decorso tra i soggetti che hanno presentato un DM2 e i soggetti che non l’hanno presentato (Tabàk AG, Jakela M, Akbaraly TN, et al. Trajectories of glycaemia, insulin sensitivity and insulin secretion before diagnosis of type 2 diabetes: analysis from the Whitehall II study. Lancet 2009; 373: 2215). Gli autori hanno definito diabete una glicemia a digiuno uguale o superiore a 7,0 mml/L (126 g/L) oppure una glicemia post-carico uguale o superiore a 11,1 mmol/L (200 g/L).
È stato osservato che nei soggetti che non hanno presentato un DM2 le modificazioni metaboliche rilevate nel corso dello studio hanno presentato un andamento lineare, con modesti aumenti della glicemia a digiuno e post-carico, con valori stabili di secrezione insulina e lieve diminuzione della sensibilità all’insulina. Per contro nei soggetti che hanno presentato un DM2 i valori di glicemia a digiuno, glicemia post-carico e secrezione insulinica sono risultati più elevati, mentre quelli della sensibilità all’insulina sono stati più bassi, rispetto ai valori osservati nei soggetti di controllo.
Nei soggetti nei quali è comparso un DM2 l’incremento lineare della glicemia a digiuno e post-carico è stato seguíto da un rapido aumento di questi parametri da 6 a 3 anni prima della diagnosi di DM2. Avvalendosi del sistema di controllo della sensibilità insulinica HOMA (“homeostasis model assessment”) gli autori hanno rilevato un marcato decremento di sensibilità insulinica negli ultimi 5 anni prima della diagnosi di DM2, mentre la valutazione della secrezione insulinica mediante il sistema “HOMA beta cell function” ha mostrato un aumento tra i 4 e i 3 anni prima della diagnosi per poi diminuire fino al momento della diagnosi. ( Matthews DR, Hosker JP, Rudenski AS, et al. Homeostasis model assessment; insulin resistance and beta-cell function from fasting plasma glucose and insulin concentration in man. Diabetologia 1985; 28: 412).
Secondo gli autori queste osservazioni confermano il modello multistadio dello sviluppo del DM2 (Weir et al, loc cit), per cui, inizialmente, un periodo caratterizzato da aumento della secrezione di insulina compensa una condizione di resistenza all’insulina, senza notevoli alterazioni dei valori glicemici; successivamente si attua una condizione di adattamento stabile con una riduzione della massa delle cellule beta, nonostante l’adattamento di queste cellule; a queste fasi fa seguito un periodo transitorio di instabilità caratterizzato da rapido aumento della glicemia fino al diabete. Secondo gli autori i risultati ottenuti indicano che il periodo di stabile adattamento è caratterizzato da un incremento lineare della glicemia a digiuno che presenta un più netto aumento nei soggetti che andranno incontro a DM2 a confronto con i soggetti in condizioni metaboliche normali; per contro i valori di glicemia post-carico aumentano in questo periodo nella stessa misura che nei soggeti di controllo.
Gli autori osservano che molti studi hanno indotto a ritenere che una ridotta sensibilità all’insulina rappresenti un prerequisito per l’insorgenza di un diabete (Lyssenko V, Almgren P, Anevski D, et al. Predictors of and longitudinal changes in insulin sensitivity and secretion preceding onset of type 2 diabetes. Diabetes 2005; 54: 166). Nel presente studio Whitehall II è stato tuttavia rilevato, in accordo con altri autori, che la riduzione della sensibilità all’insulina osservata 4 anni prima dell’insorgenza del diabete non differisce dalla riduzione osservata in soggetti normoglicemici, ma presenta un profondo aggravamento poco prima che il diabete si manifesti clinicamente.
In questo studio è stato notato che il ruolo della secrezione insulinica e della funzione delle cellule beta quali fattori predittivi di diabete non appare chiaro e che i risultati di molte ricerche su questo problema sono contrastanti, anche se è stato segnalato, almeno in popolazioni non-asiatiche, che un aumento della secrezione insulinica è presente in condizioni di diminuita tolleranza glicidica, rispetto ai soggetti normali, mentre una ridotta secrezione insulinica è presente nei diabetici a confronto con i soggetti con ridotta tolleranza glicidica ( Ferrannini E, Gastaldelli A, Miyazaki Y, et al. Beta-cell function in subjects spanning the range from normal glucose tolerance to overt diabetes: a new analysis. J Clin Endocrinol Metab 2005; 90: 493).
Secondo gli autori queste differenze potrebbero essere spiegate dai diversi disegni secondo i quali sono stati condotti i diversi studi. Essi osservano che elevati valori di secrezione insulinica potrebbero essere associati ad aumentato rischio di DM2 anni o decenni prima della diagnosi, ma che bassi valori sono predittivi di insorgenza di diabete a breve termine. Ciò troverebbe conferma nell’osservazione che, nel periodo di transizione da tolleranza glicidica normale ad alterata tolleranza glicidica, sono state rilevate modeste variazioni nella risposta acuta all’insulina o nell’utilizzazione dell’insulina, ma che si assiste a una netta riduzione di questi valori nel corso della progressione verso il diabete ( Guerrero-Romero F, Rodriguez-Moran M, Assessing progression to impaired glucose tolerance and type 2 diabetes mellitus. Eur J Clin Invest 2006; 36: 796). Questi risultati indicano, secondo gli autori, la necessità di ulteriori ricerche per valutare le variazioni nel tempo delle alterazioni della sensibilità e della secrezione insuliniche e della glicemia a digiuno e post-carico nei loro rapporti con l’insorgenza del DM2.
Gli autori avvertono che il modello HOMA da loro seguito per la misura della sensibilità all’insulina e l’insulinoresistenza è largamente usato a questo scopo, mentre è meno usato per valutare la secrezione insulinica. Infatti il modello HOMA si basa sul valore della glicemia a digiuno e pertanto descrive prevalentemente l’insulinoresistenza epatica e la secrezione insulinica nella fase stabile e, mentre l’insulinoresistenza epatica è in stretta correlazione con l’insulinoresistenza del muscolo e del tessuto lipidico ed è un marcatore tardivo della disfunzione delle cellule beta e mostra soltanto una moderata correlazione con le più sensibili misure della prima fase della secrezione insulinica ( Mori A, Ahren B, Pacini G. Assessment of insulin secretion in relation to insulin resistance. Curr Opin Clin Nutrit Metab Care 2005; 8: 529). Gli autori avvertono pertanto che i risultati da loro ottenuti potrebbero sottostimare il tempo d’inizio dello scompenso precoce della funzione beta-cellulare.
Nel concludere gli autori rilevano che i risultati del loro studio potrebbero contribuire alle future ricerche di più accurati metodi predittivi di rischio di diabete, offrendo varie possibilità di screening e di prevenzione. A questo proposito gli autori ritengono che la prevenzione del diabete dovrebbe essere più efficace se iniziata prima del periodo instabile che caratterizza il prediabete e che, se un soggetto può essere mantenuto nella fase di glicemia a digiuno o di glicemia post-carico normali e stabili, l’insorgenza del diabete potrebbe essere “sostanzialmente” ritardata.
Nel commentare questi risultati Matthews e Levy  (Matthews DR, Levy JC. Impending type 2 diabetes. Lancet 2009; 373: 2178) osservano che essi consentono di stabilire che i soggetti che non presenteranno un diabete hanno una glicemia a digiuno stabile per anni intorno a 5,3 mmol/4 (95 mg/L) associata a una diminuizione della sensibilità all’insulina di circa il 15%. Per contro, i soggetti che andranno incontro a un diabete presenteranno un’insulinoresistenza di circa il 35% 10 anni circa prima della manifestazione clinica della malattia e questa insulinoresistenza andrà accentuandosi negli anni successivi. Inoltre la funzione beta-cellulare permarrà invariata in coloro che non diventeranno diabetici, mentre si manifesterà un iniziale aumento compensatorio di questa funzione nei soggetti che presenteranno un diabete e aumenterà ancora di più 2-3 anni prima della manifestazione della malattia, per poi crollare quando il diabete sarà clinicamente conclamato. Gli autori ritengono che ci si dovrà riferire alla concentrazione dell’insulina negli studi sulla prevenzione del diabete per la valutazione dell’insulinoresistenza, operando terapeuticamente su questo parametro.
La misura della disfunzione endoteliale
nella valutazione prognostica del processo arteriosclerotico
Studi epidemiologici e clinici hanno indicato che l’arteriosclerosi è un processo multifattoriale che si sviluppa da una prolungata fase preclinica fino a manifestazioni gravi che contribuiscono alla morbilità e alla mortalità. Nonostante che molti siano i fattori di rischio di progressione del processo arteriosclerotico, questo può manifestarsi in molti individui che presentano un modesto profilo di fattori di rischio, inducendo a ritenere necessarie adeguate misure che consentano di prevedere la comparsa e la progressione della malattia e la stratificazione del rischio ( Law MR, Wald NJ. Risk factor thresholds: their existence under scrutiny. BMJ 2003; 324: 1570).
Recentemente è stata attratta l’attenzione al ruolo dell’endotelio vascolare nell’influenzare i processi di vasomotità, trombosi, infiammazione e proliferazione cellulare, che sono implicati nella fisiologia e nella fisiopatologia della parete vasale. Per conseguenza è stato riconosciuto alla disfunzione endoteliale (DE) un ruolo determinante nella progressione del danno arteriosclerotico in individui ad alto rischio e, in particolare, negli anziani, nei pazienti con arteriopatie periferiche, negli ipertesi e nei soggetti sottoposti a cateterismo cardiaco ( Deanfield JE, Halcox JP, Robelink TJ. Endothelial function and dysfunction; testing and clinical relevance. Circulation 2007; 115: 1285). È stato infatti osservato che la DE può svilupparsi molti anni prima delle manifestazioni cliniche in pazienti che presentano noti fattori di rischio, come ipercolesterolemia, diabete, fumo di tabacco, obesità e processi infiammatori e infettivi.
La funzione endoteliale e le alterazioni strutturali arteriose sono state misurate non invasivamente in un gruppo di 10308 soggetti di età media, avvalendosi della misura, con tecnica ecografica ad alta risoluzione, della dilatazione mediata dal flusso (DMF) dell’arteria brachiale e della misura dello spessore dell’intima e della media della carotide (cIMT) (Halcox JPJ, Donald AE, Ellins E, et al. Endothelial function predicts progression of carotid intima-media thickness. Circulation 2009; 119: 1005).




È stato osservato che una compromessa funzione endoteliale, rivelata da riduzione della DMF, è associata a più rapida progressione di alterazioni strutturali arteriose rivelate da alterata cIMT. Questa correlazione è apparsa indipendente dai convenzionali fattori di rischio e anche dal Framingham Risk Score (calcolato in base a età, sesso, pressione arteriosa sistolica, colesterolo totale e HDL). Gli autori ricordano che la disfunzione endoteliale può contribuire alla destabilizzazione di una malattia in fase stabile come anche alla progressione di un danno arterioso. La disfunzione endoteliale è implicata nella fisiopatologia vascolare attraverso la produzione di fattori che influenzano negativamente il tono vascolare, l’adesione cellulare, l’infiammazione della parete vasale e l’equilibrio trombotico locale. Inoltre la misura della funzione vasomotoria dipendente dall’endotelio ha importante valore prognostico, anche quando si tenga conto dell’impatto dei convenzionali fattori di rischio nei soggetti ad alto rischio ( Yeboah J, Crouse JR, Hsu FC, et al. Brachial flow-mediated dilation predicts incident cardiovascular events in older adults: the Cardiovascular Health Study. Circulation 2007; 115: 2390).
Gli autori sottolineano che la DMF fornisce una stima clinicamente importante della biodisponibilità locale di ossido nitrico (NO) e che la riduzione di questa biodisponibilità dà luogo, nel contesto della disfunzione endoteliale, ad attenuazione delle funzioni antiproliferative, antimigratorie e antinfiammatorie. Inoltre va tenuto presente che un endotelio disfunzionante è maggiormente permeabile a lipoproteine aterogene ed esprime aumentate quantità di citochine proinfiammatorie, chemiochine e molecole di adesione, che incrementano l’accumulo di leucociti nella parete arteriosa. La DE promuove inoltre la sintesi locale di endotelina-1 e angiotensina II e tutti questi processi concorrono a creare un ambiente adatto alla progressione del processo arteriosclerotico.
Gli autori riferiscono di non aver notato correlazione tra valori di DMF e di cIMT e ritengono che ciò sia dovuto al fatto che la DMF è una misura dinamica, che riflette le influenze acute e croniche che si esplicano sulla funzione endoteliale e che, secondo gli autori, rappresenta un indicatore della funzione arteriosa più completo dei convenzionali fattori di rischio; per contro, la cIMT è una misura stabile delle alterazioni struttuali che si sono accumulate nel tempo nella parete arteriosa. Pertanto, l’associazione della misura della DMF e della cIMT consente una valutazione sia del danno arterioso in atto che della progressione del processo morboso.
Moxifloxacina nel trattamento iniziale
della tubercolosi multiresistente

È noto che ogni anno circa mezzo milione di casi di tubercolosi (TB) sono causati da ceppi di Mycobacterium tuberculosis (MT) resistenti a isoniazide e rifampicina, che sono considerati farmaci di prima linea.
È pertanto avvertita la necessità di disporre di farmaci attivi verso MT multiresistenti. Negli ultimi anni studi in vitro e in vivo hanno indicato che la moxifloxacina (M) è un fluorochinolone dotato di notevole attività verso MT, attività che si è dimostrata additiva a quella dell’isoniazide.
In un recente studio clinico in fase II è stata valutata l’ipotesi che la sostituzione della M all’etambutolo (E), che è usato per prevenire l’emergenza di ceppi di MT multiresistenti, possa consentire di fare aumentare la percentuale di pazienti con coltura dell’espettorato negativa dopo 8 settimane di terapia, che, come noto, è considerato un parametro utile per valutare l’efficacia del trattamento e stabilire se un farmaco antitubercolare possa ridurne la durata ( Conde MB, Efron A, Loredo C, et al. Moxifloxacin versus ethambutol in the initial treatment of tuberculosis: a  double-blind, randomized controlled phase II trial. Lancet 2009; 373: 1183).



Sono stati studiati con tecnica a doppio cieco, dall’ottobre 2004 al marzo 2007, 74 pazienti assegnati al gruppo M (moxifloxacina) (400 mg pro die) e 72 assegnati al gruppo E (etambutolo) (15-20 mg/kg pro die).
È stato osservato che la M ha consentito, a confronto con l’E, di aumentare la percentuale di colture dell’espettorato negative di pazienti con TB. Questo risultato è stato raggiunto dopo una settimana di terapia in un numero di pazienti del gruppo M maggiore che di pazienti del gruppo E e tale differenza non si è modificata nel corso della 8 settimane di studio.
Gli autori ricordano che l’introduzione nel 1970 della rifampicina ha consentito l’aumento del 15-20% della conversione della coltura dell’espettorato dopo 2 mesi di terapia e la riduzione della durata di questa da 18 a 6-9 mesi. Successivamente l’introduzione della pirazinamide, in aggiunta a isoniazide, rifampicina ed E o streptomicina, permise di ridurre la durata del trattamento da 9 a 6 mesi, con un aumento del 13% della negativizzazione della coltura dell’espettorato all’8 a settimana. Secondo gli autori questi risultati inducono a ritenere che il miglioramento prodotto dalla M permetta di ridurre la durata della terapia, come sarebbe confermato da alcune recenti ricerche (Nuermberger EL, Yoshimatsu T, Tyagi S, et al. Moxifloxacin-containing regimen greatly reduce time to culture conversion in murine tuberculosis. Am J Respir Crit Care Med 2004; 169: 421).
Gli autori hanno rilevato che nel loro studio la M è stata ben tollerata e che non sono state osservate reazioni avverse o complicanze cliniche; in particolare, non  sono state segnalate alterazioni del tratto QT corretto, che, come noto, sono state osservate con l’uso di fluorochinoloni; tuttavia gli autori ritengono che su questo aspetto della terapia con M nella TB siano necessari ulteriori studi che confermino i buoni risultati finora ottenuti.
Secondo gli autori l’aumento della percentuale di colture dell’espettorato negative dopo 8 settimane di terapia induce a ritenere che l’aggiunta di M agli altri farmaci antitubercolari di prima linea possa abbreviare notevolmente il tempo necessario a ottenere la guarigione; inoltre la dimostrazione dell’attività antitubercolare potrà consentire di trattare i casi con resistenza ai farmaci antitubercolari di prima linea, come isoniazide e rifampicina. Gli autori sottolineano inoltre che la M può ritenersi superiore ad altri fluorochinoloni nel trattamento della TB multiresistente; in particolare è stato segnalato che la gatifloxacina, che esplica un’attività antitubercolare simile alla M, è associata al rischio di alterazioni dell’equilibrio glicemico quando adoperata nei pazienti anziani ( Park-Wyllie LY, Juurlink DN, Kopp A, et al. Outpatient gatifloxacin therapy and dysglycemia in older adults. N Engl J Med 2006, 354: 1352).
Gli autori avvertono, nel concludere, che il loro studio in fase II, inteso a dimostrare la possibilità di accrescere la percentuale di negativizzazione della coltura dell’espettorato all’8a settimana con l’aggiunta di M, non ha peraltro dimostrato ancora l’efficacia di questo farmaco nel ridurre la durata del trattamento, sebbene tale obiettivo possa essere più facilmente raggiunto eradicando fin dall’inizio i micobatteri e migliorando l’attività antimicrobica dei trattamenti antitubercolari associati. A questo scopo sono necessari ulteriori studi clinici controllati.