Libri

Patologie che nascono da lontano
Ferma restando l’importanza fondamentale del genoma nel marcare il destino dell’individuo dopo la procreazione, non si può non tener conto che questo prodotto del concepimento esprimerà un fenotipo la cui evoluzione, fin da quando è allo stato embrionale e successivamente fetale, si sviluppa in un ambiente, quello materno, che contribuirà a plasmare il fenotipo stesso, in stretta collaborazione col patrimonio genetico. È un processo evolutivo che dobbiamo considerare assai critico per nostro destino biologico a breve, medio ed anche a lungo termine. Nuovi scenari stanno maturando, scenari che inducono a riflettere su, e di conseguenza a verificare, quanto l’ambiente possa da un lato modificare il programma genetico, e dall’altro quali e quante variazioni possano inserirsi in un percorso che sembrerebbe predeterminato.

Questa iniqua contrattazione

 

«E’ cosa di perla anche la morte

penetrata di luce»

Sibilla Aleramo

 

Nell’agosto 2008 un gruppo di amici, medici di terapia intensiva, diede vita ad un sito online dal titolo più suggestivo che tecnico-professionale: http://nottidiguardia.it. Uno spazio virtuale dove storie e immagini intendono raccontare una realtà, quella ospedaliera, riservata e sconosciuta ai più: una realtà forse meno spettacolare di quanto venga immaginata, ma tuttavia in grado di suggerire sentimenti e propositi. Ai primi storici autori (il guardiano, Herbert Asch, Giro Batol, Woland), se ne sono via via aggiunti altri (operatori sanitari dalle esperienze più disparate), arricchendo i temi delle narrazioni e favorendo la condivisione di conoscenze molto diverse. Anche i lettori sono cresciuti: da poche decine all’inizio, sono ormai oltre duemila che giornalmente leggono, commentano e sostengono il blog con la loro presenza in rete.

Dall’esperienza – filtrando e organizzando il variegato materiale – si è realizzata l’idea di una raccolta di foto e di brevi testi che, al di là della cronaca, di episodi e protagonismi, riuscisse a lasciare nel lettore un’emozione giudiziosa e pudica, ma capace di memorie e di intenti. «Un’impressione – come scritto in epigrafe – di seconda o terza fila, una di quelle tanto schive da starsene sempre al buio e tanto lievi da rimanere impigliate tra le maglie di un sogno». (Il passo della notte. A cura di Giuseppe Naretto e Marco Vergano. Pagine 92. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2009. Euro 7,50). Con coerenza etica ed estetica, gli Autori di sedici, rapidi “pezzi” e di una quarantina di fotografie (alcune di rara suggestione) vivono, e sono capaci di trasmettere, un sentimento di finitudine e insieme di solidarietà che, oltre a richiamare i poli del loro agire professionale, rimanda ai terminali di una presa di coscienza ardua e dolente: «La mia arma di negoziazione è una medicina imprecisa, fallace, impotente... E ciò che mi fa ancora più rabbia è che sarà sufficiente che il prossimo malato abbia la meglio in questa iniqua contrattazione ed io mi sentirò vincente... Ma fino ad allora la felicità verrà spesso sacrificata alla salvezza» (pagine 13 e 14). «E le rassegne stampa che parlano di fegato reni e cornee, dimenticano che il cuore, quello, l’abbiamo messo noi» e che «tutto il dovuto è stato dato. Tutto si è compiuto» (pagine 31 e 33).

In virtù di tale impegno – rianimare non corpi, ma persone – la sofferenza, la malattia, la morte divengono presenze quotidianamente partecipate: non più soltanto luoghi, ma piuttosto parole, del silenzio; non destini di una culpa per esse, ma interpellanze radicali per una ermeneutica delle esistenze di confine. «“È morto?” – chiede l’ormai non più assonnata voce – “Sì” – risponde il medico – “ma come si chiamava?” – “Non aveva un nome... lui era Antonio, o Franco, o Giovanni, o semplicemente Ombra... lui era tutti noi”...» (pagina 75).

Sono, queste, alcune delle “impressioni” sulle quali ci suggeriscono di riflettere queste pagine, metamorfosi dell’evento biologico in esperienza biografica. Così, a volte, la letteratura (anche un piccolo libro) può aiutare la medicina fino all’ultimo dei suoi passi (secondo l’intuizione di Erich Fromm: «l’idea di dover morire senza aver vissuto è insopportabile»); fino – cioè – a recuperare al malato che muore una dimensione condivisa. Perché – mirabile sintesi oraziana – «omnes una manet nox»: una stessa notte, uguale per tutti, attende ciascuno di noi.

E ciò al fine di andar oltre una cultura, pervenuta man mano, anche in medicina, all’interdizione della morte. A favore, invece, di una medicina che cura, anche se non può guarire.

 

Chiara Fedeli


È noto come l’organismo femminile abbia provveduto in molti casi a respingere con l’aborto spontaneo il prodotto del concepimento che per motivi genetici e/o ambientali usciva dai canoni di un regolare sviluppo. A fronte dei tumultuosi mutamenti del nostro tempo – l’avanzamento dell’età procreativa, il potenziamento della protezione medica della gravidanza, un’attesa di vita che è quasi raddoppiata in mezzo secolo – la natura ha finito col presentarci il conto. Conto che sta facendo riflettere gli studiosi: biologi, genetisti e clinici. Le conclusioni non sono uniformi, o quanto meno non sovrapponibili nelle metodologie di studio. Del resto, già ai tempi di Ippocrate si discuteva se ciò che è genetico in origine è immutabile, o se invece ci si deve richiamare ad un concetto di programma “plastico”, a causa dell’interferenza di fattori ambientali.
Oggi sappiamo che alla relativa staticità del genoma si contrappone la plasticità dell’ambiente non solo post-natale, ma anche durante il percorso intrauterino, come se vi fosse una specie di programma che può tradursi in patologia di organo o di apparato.
In un recente volume: Early life origins of human health and disease, a cura di J.P. Newnham e M.G. Ross. Pagine 224, Karger, Basel 2009. Euro 99,50. ISBN 978-3-8055-9139-3, i concetti sopra accennati si sviluppano in una serie di 19 capitoli, dei quali sono autori valenti studiosi, che oltre a porre le basi biologiche, genetiche, antropologiche, ambientali, in particolar modo nutrizionali, che si inseriscono nel percorso prenatale del prodotto del concepimento, scendono nello specifico di entità patologiche che a medio e lungo termine dopo la nascita si manifestano, complice in gran parte l’ambiente, da un presupposto genetico peraltro non necessariamente inevitabile o preponderante. Nei vari capitoli si affrontano ipotesi patogenetiche che coinvolgono l’apparato riproduttivo, quello cardiaco, renale, muscolo-scheletrico, metabolico e neuro-psichico. Il pediatra è particolarmente coinvolto, per quanto riguarda il destino prossimo e remoto del soggetto nato con ritardo di crescita intrauterino, ma non lo è meno il medico dell’adulto che voglia approfondire sul piano eziopatogenetico la malattia che si trova ad affrontare.
I concetti che i vari autori esprimono, rispecchiano il modellamento di un percorso, sì da intendere la medicina in una visione ampia, che coinvolge le varie discipline. Il volume è pertanto di utile lettura ai pediatri, ai medici dell’adulto, ai ginecologi ed ai metabolisti.

Pier Luigi Giorgi

Dubitare per decidere
«Il dubbio non è il contrario della fede:
è un suo elemento»
Paul Johannes Tillich
La domanda che un medico coscienzioso dovrebbe porsi di fronte ad un malato o ad una situazione clinica, è la seguente: quale percentuale di certezze sento di possedere? Il 100% o meno? L’esercizio del dubbio, virtù elitaria in epoca pre-Bernard, è divenuta condotta imperativa con l’avvento del metodo sperimentale; e tanto più essenziale in tempi che vedono mutamenti incisivi nel rapporto con il paziente ed un crescente accreditamento della “clinical governance”, tra i cui meriti è da celebrare la rivalutazione pedagogica dell’errore: esso – se analizzato tempestivamente e con lealtà – può costituire fonte importante di apprendimento per il medico d’oggi.



La qualificazione del comunicare è ormai preliminare di un buon
curriculum, così come la disponibilità all’ascolto delle altrui ragioni, l’attitudine a dialogare con équipe pluridisciplinare e con il malato, partendo dal presupposto che il medico non è sempre nel giusto. «In medicina l’incertezza è l’acqua in cui nuotiamo», ha scritto recentemente Lisa Sanders, della Facoltà medica di Yale (in: Every patient tells a story. Medical mysteries and art of diagnosis).
Tali considerazioni si prestano a creare il clima idoneo all’ispirazione “memoriale” (o diaristica) di non pochi medici che, con crescente frequenza, ci raccontano le loro esperienze. Con buona pace di quella riservatezza – a metà tra orgoglio di casta e superego deontologico – che fino a qualche decennio fa ha calmierato il fenomeno. Questi scritti tanto più attivano interesse quanto maggiormente risultano anticonvenzionali: spesso, dunque, sono descrizione non di successi e certezze, bensì di errori e disillusioni. Testimonianza recente ce ne rende il volume Singulary intimacies: becoming a doctor at Bellevue, di Danielle Ofri. Pagine 256. Beacon Press, Kansas City 2009. Euro 13,58. ISBN 978-080707251-6. Potrebbe definirsi un romanzo di formazione: la storia di chi ha attraversato i passaggi ardui, defatiganti ma infine premiati, di una carriera che, nello spazio di alcuni lustri, ha condotto un’inesperta tirocinante ai vertici del più antico ospedale pubblico di New York; un racconto il cui punto di forza consiste in una franca narrazione delle innumerevoli esitazioni e incertezze che – insieme a risoluzioni coraggiose, riflessioni ponderate e centinaia di diagnosi salva-vita – hanno contribuito a costruire l’ascesa gerarchica dell’autrice. Narrazione che emerge quale esempio di onestà intellettuale e morale, perché costruttiva di contenuti benefici, nonostante una certa ridondanza formale e qualche eccesso metaforico. Il libro è nutrito di aneddoti e di casistica (umana e clinica): varrà citarne qualcuno. Una mattina, la Ofri sta uscendo dall’ospedale per non mancare al funerale di un carissimo amico, ma la richiamano per posizionare d’urgenza un catetere centrale. Ed ecco che la pena del lutto, il tumulto del cuore – gli affetti di una donna – insorgono ad insidiare la perizia del medico: e l’impianto del catetere diviene prima una fortunosa disavventura e, poi, ancora dopo alcuni anni, un ricordo angoscioso («Perché quell’uomo non morì e non mi lasciò libera, in quel giorno, di vivere i miei sentimenti di sofferenza e cordoglio fuori da quelle mura?»). Con analogo, disarmante candore, l’Autrice ci confessa anche peccati di orgoglio e cedimenti comportamentali: la tentazione – ad esempio – di far colpo ad ogni costo su un giovane, fascinoso, tirocinante, indotto (dal subordine gerarchico) non soltanto ad assistere impotente ad una inappropriata e maldestra endovenosa, ma addirittura a rivolgere elogi alla “paziente perseveranza” (i.e. la imperizia) della professoressa. Sono episodi di umanità sconcertante che, tuttavia, finiscono paradossalmente con il rinsaldare nel lettore la fiducia verso coloro nelle cui mani affida sovente la propria fragilità e talvolta la vita. Perché sottendono una situazione di parità, desacralizzando il “personaggio”-medico e testimoniandone, piuttosto, l’impegno quale persona, uno tra gli altri: alle prese, anche lui, con slanci generosi ed esitazioni egoistiche, a volte dolente per l’insuccesso e altre, felice per il traguardo raggiunto, e con egual saggezza disposto al dubitare e al decidere.

Benedetta Marra