Diagnosi e classificazione del diabete mellito
Un rapporto dell’American Diabetes Association
L’American Diabetes Association (ADA) ha recentemente pubblicato le linee guida per la diagnosi e la classificazione del diabete mellito (DM) (American Diabetes Association. Diagnosis and classification of diabetes mellitus. Diabetes Care 2010; 33: suppl 1; S62-S69).





Definizione e descrizione
L’ADA definisce il DM come un gruppo di malattie metaboliche caratterizzato da iperglicemia causata da un difetto di secrezione o di azione di insulina o da entrambe. La cronicizzazione dell’iperglicemia si associa a complicanze a lungo termine caratterizzate da danno, disfunzione e insufficienza di vari organi, specialmente occhio, rene, cuore, vasi e sistema nervoso. I meccanismi patogenetici implicati nello sviluppo del DM sono diversi, variando dalla distruzione autoimmunitaria delle cellule beta del pancreas, cui consegue un deficit di insulina, ad anomalie che causano insulinoresistenza. Il deficit di insulina è dovuto o ad inadeguata secrezione o a diminuita risposta dei tessuti all’ormone. L’ADA elenca i principali sintomi caratteristici di marcata iperglicemia: poliuria, polidipsia, dimagrimento, talora polifagia, disturbi visivi; sono frequenti un arresto dell’accrescimento e una particolare predisposizione alle infezioni. Sono conseguenza di un DM non controllato: iperglicemia acuta con chetoacidosi e sindrome non chetotica iperosmolare.
L’ADA richiama l’attenzione sul fatto che l’intensità dell’iperglicemia varia nel tempo in rapporto alla gravità del processo morboso. Inoltre uno stesso processo morboso può determinare una condizione di “alterata glicemia a digiuno” (IFG: “impaired fasting glucose”) e/o “alterata tolleranza al glucosio” (IGT: “impaired glucose tolerance”), senza corrispondere ai criteri di diagnosi di DM.

Classificazione del DM e di altre categorie di disregolazione glicidica
A – Diabete di tipo 1 (DM1): causato da distruzione di cellule beta, che di solito dà luogo a deficit assoluto di insulina.
a) DM immuno-mediato. Questo  termine comprende i termini precedentemente usati di diabete insulino-dipendente e diabete giovanile e rappresenta il 5-10% di tutti i tipi di DM.
La distruzione delle cellule beta è immuno-mediata e ne sono marcatori:
autoanticorpi anti-cellule insulari,
– autoanticorpi anti-insulina,
– autoanticorpi anti-decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD: “glutamic acid decarboxylase”),
– autoanticorpi anti tirosin-fosfatasi IA-2 e IA2β.
Uno o più di questi autoanticorpi sono presenti nell’85-90% dei soggetti all’inizio dell’iperglicemia a digiuno.
In questa forma di DM sono presenti associazioni con il sistema HLA (“linkage” con i geni DQA e DQB e influenza da parte dei geni DRB); si sottolinea che questi geni HLA possono essere sia predisponenti che protettivi.
L’ADA richiama l’attenzione sulla variabilità della distruzione delle cellule beta nel DM1; è rapida soprattutto nei bambini e nei fanciulli e più lenta negli adulti.
La chetoacidosi può essere la prima manifestazione della malattia soprattutto nei bambini; per contro, gli adulti possono spesso mantenere per anni una funzione beta-insulare sufficiente a prevenire la chetoacidosi.
Nella fase più avanzata di malattia, la produzione di insulina può essere ridotta al minimo o cessare del tutto, come indicato dai bassi o non misurabili livelli di peptide C.
I pazienti con questa forma di DM sono predisposti ad altre malattie immunitarie, come malattia di Graves-Basedow, tiroidite di Hashimoto, malattia di Addison, vitiligine, malattia celiaca, epatite autoimmunitaria, miastenia gravis e anemia perniciosa.
b) DM idiopatico. L’ADA include in questa categoria alcune forme di DM a etiologia ignota.
Si tratta di una forma non frequente, non autoimmunitaria, che interessa prevalentemente soggetti di etnia asiatica e africana, i quali presentano episodi di chetoacidosi e deficit di insulina negli intervalli. Nella patogenesi ha grande peso l’eredità, ma non vi è associazione con il sistema HLA.

B – Diabete di tipo 2 (DM2): che varia da forme con prevalente insulinoresistenza, con deficit insulinico relativo, a forme con deficit di secrezione di insulina con insulinoresistenza.
Il DM2 è presente nel 90-95% dei casi di DM; in precedenza è stato definito diabete non insulino-dipendente o diabete dell’adulto.
Questi pazienti sono spesso obesi e l’obesità, di per se stessa, può causare insulinoresistenza; peraltro i soggetti non obesi possono presentare distribuzione prevalentemente addominale del grasso corporeo. La chetoacidosi è rara, ma può presentarsi in associazione con situazioni di stress o infettive.
Il DM2 può decorrere non diagnosticato per anni, perché l’iperglicemia evolve gradualmente e, inizialmente, non è elevata al punto da dar segno di sé con la classica sintomatologia diabetica. Per contro, questi pazienti sono esposti a rischio di eventi macro- e microvascolari.
Mentre i pazienti con DM2 possono presentare livelli insulinemici normali o anche elevati, l’aumentato livello glicemico determina aumentata secrezione d’insulina, finché le cellule beta funzionano normalmente.
In questi soggetti, pertanto, la secrezione di insulina diventa a un certo punto insufficiente a controllare l’iperglicemia e a ridurre l’insulinoresistenza.
L’ADA ricorda che l’insulinoresistenza può essere ridotta con la riduzione del peso corporeo oppure con il trattamento farmacologico dell’iperglicemia, pur essendo raramente ricondotta alla norma.
Il rischio di DM2 aumenta con l’età, con l’obesità e con la riduzione dell’attività fisica e può comparire in donne che hanno avuto in precedenza un diabete gestazionale (vedi in seguito) e inoltre in soggetti con ipertensione o dislipidemia; inoltre la frequenza del DM2 varia con l’etnia ed è spesso correlata a una “forte” predisposizione genetica.

C – Diabete gestazionale (DMG).

L’ADA ricorda che per molto tempo il DMG è stato definito come qualsiasi intolleranza glicidica insorgente o riconosciuta durante la gravidanza; questa definizione veniva applicata indipendentemente dalla persistenza o meno della condizione dopo il parto, non escludendo la possibilità che una intolleranza glicidica non riconosciuta potesse aver preceduto la gravidanza o avesse avuto inizio durante questa. In tale situazione, nel corso dell’epidemia di obesità e diabete che ha dato luogo a un maggior numero di casi di DM2 nelle donne in età fertile, è aumentato il numero delle donne in gravidanza con DM2 non riconosciuto. Per conseguenza è stato consigliato che nelle donne nelle quali è stato trovato un DM in occasione di visita prenatale, venga diagnosticato un DM “non gestazionale”. L’ADA riferisce che circa il 7% di tutte le donne in gravidanza hanno un DMG e conferma i consigli precedentemente dati per uno screening in gravidanza, sottolineando peraltro che, in genere, le donne sono a basso rischio di intolleranza glicidica durante la gravidanza. Secondo l’ADA, minore rischio di DMG è dato dai seguenti fattori:
– età <25 anni,
– normale peso corporeo,
– assenza di diabete nell’anamnesi famigliare,
– anamnesi negativa per anomalie del metabolismo glicidico,
– assenza nell’anamnesi di anomalie in corso di gestazione,
– non appartenenza a etnia ispano-americana, amerindia, asio-americana, afro-americana, delle isole del Pacifico.
La valutazione del rischio diabetico va fatta alla prima visita prenatale. In presenza di fattori di alto rischio (marcata obesità, storia personale di DMG, glicosuria, anamnesi famigliare di DM) debbono essere eseguiti esami del metabolismo glicidico. A questo proposito l’ADA riferisce che una glicemia a digiuno >126 mg/dL oppure una glicemia a caso >200 mg/dL indicano un DM. In assenza di inequivocabile iperglicemia, l’esame va ripetuto il giorno successivo.
In queste evenienze, la valutazione di un DMG dovrebbe consistere nella misura della concentrazione sierica o plasmatica di glucosio un’ora dopo un carico orale di 50g di glucosio, considerando valore soglia >140 mg/dL. Secondo l’ADA, questa tecnica consente di identificare circa l’80% delle donne con DMG; il rendimento di questo esame è accresciuto abbassando il valore soglia a >130 mg/dL.
L’ADA ritiene che le donne ad alto rischio diabetico nelle quali viene diagnosticato un DM alla prima visita prenatale, ricevano diagnosi di diabete “aperto” e non gestazionale.

D – Altri tipi specifici di diabete.

1) Difetti genetici della cellula beta. Queste forme sono spesso dovute a difetti monogenetici della cellula beta e si presentano con l’insorgenza di iperglicemia, in genere prima dei 25 anni. Questi tipi di DM sono denominati “diabete dei giovani a insorgenza nella maturità (MODY: maturity onset diabetes of the young) e sono caratterizzati da ridotta secrezione di insulina con minimo o assente deficit di azione.

2) Difetti genetici dell’azione dell’insulina. Si tratta di anomalie metaboliche associate a mutazioni del recettore per l’insulina con varie manifestazioni cliniche, da iperinsulinemia e modesta iperglicemia a grave diabete.
In alcuni pazienti possono essere presenti: 1) acanthosis nigricans, 2) cisti ovariche, 3) leprecaunismo (anomalie facciali, a insorgenza nell’infanzia ed a prognosi infausta), 4) sindrome di Rabson-Mendenhall (anomalie dentarie e ungueali e iperplasia della pineale).

3) Malattie del pancreas esocrino. Si tratta di pancreatite, traumi, infezioni, esito di pancreatectomia e carcinoma pancreatico. Nel caso di carcinomi il meccanismo patogenetico va oltre la semplice riduzione della massa delle cellule beta. Se sufficientemente estese, le lesioni pancreatiche da malattia fibrocistica e da emocromatosi possono produrre danneggiamento beta-cellulare e compromettere la produzione di insulina. È segnalato il reperto autoptico di fibrosi pancreatica e calcoli di calcio intrapancreatici in diabetici.

4) Endocrinopatie. Somatotropo, cortisolo, glucagone, adrenalina antagonizzano l’azione dell’insulina; pertanto eccessive quantità di questi ormoni (ad es. acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma) possono causare un DM, generalmente in individui con preesistenti difetti di secrezione di insulina; in questi casi l’iperglicemia si risolve quando si risolve l’eccesso di ormone. Viene ricordato che l’ipopotassiemia indotta da somastatinoma e aldosteronoma può causare un diabete inibendo la secrezione d’insulina.

5) Diabete chimico o da farmaci. Molti farmaci possono alterare la secrezione di insulina: spesso non operano direttamente, ma possono precipitare un DM in soggetti con insulinoresistenza. L’ADA riconosce che, al momento attuale, la classificazione di questi farmaci non è chiara, perchè non è nota la relativa importanza del danno beta-cellulare e della resistenza all’insulina. L’ADA fornisce un elenco dei farmaci dei quali è conosciuto l’effetto diabetogeno: 1) pentamidina, 2) acido nicotinico, 3) glicocorticoidi, 4) ormoni tiroidei, 5) diazossido, 6) agonisti beta-adrenergici, 7) tiazidi, 8) dilantin, 10) interferone gamma.

6) Processi infettivi. Alcuni virus sono associati a distruzione di cellule beta; ne è esempio il DM nei soggetti con rosolia congenita in pazienti con marcatori HLA e immunitari caratteristici di DM1. Altri virus che possono causare danneggiamento beta-cellulare sono coxsakie B, cytomegalovirus, adenovirus, virus parotitico.

7) Forme non comuni di diabete immuno-mediato. In questo gruppo rientra la sindrome dell’uomo rigido (“stiff-man syndrome”), che è una malattia autoimmune del sistema nervoso centrale caratterizzata da rigidità della muscolatura assiale e spasmi dolorosi, con alti titoli di autoanticorpi anti-GAD e tendenza a DM. Inoltre può causare DM la presenza di autoanticorpi anti-recettore per l’insulina che bloccano il legame dell’insulina al suo recettore.
In alcuni casi, questi anticorpi agiscono come insulino-agonisti determinando ipoglicemia. Anticorpi anti-insulina possono rinvenirsi in pazienti con lupus eritematoso sistemico e altre malattie immunitarie.
8) Sindromi genetiche a volte associate a DM. In questo gruppo rientrano la sindrome di Down, la sindrome di Klinefelter, la sindrome di Turner e la sindrome di Wolfram.

Categorie a rischio di diabete
L’ADA ricorda che esiste un gruppo di soggetti i cui livelli glicemici non sono quelli riconosciuti per la diagnosi di DM, ma tuttavia si collocano al di sopra dei livelli considerati normali. Sono state pertanto identificate due situazioni: 1) alterata glicemia a digiuno (IFG: “impaired fast glucose”) con livelli tra 100 e 126 mg/dL e 2) alterata tolleranza glicidica (IGT: “impaired glucose tolerance”) con livelli, alla prova di tolleranza glicidica, da 140 a 199 mg/dL. Queste condizioni sono state definite “prediabete”, ad indicare il rischio relativamente alto di sviluppare un diabete.
L’ADA sottolinea che IFG e IGT non sono entità cliniche, ma soltanto fattori di rischio di diabete e di malattie cardiovascolari. Spesso IFG e IGT sono associate a obesità addominale, a dislipidemia (con ipertrigliceridemia e/o ridotta colesterolemia HDL) e ipertensione.
Un altro importante fattore di rischio è rappresentato dal livello di emoglobina glicata A1C. Infatti un livello superiore al limite normale di laboratorio, ma inferiore a quello del DM (6,0% - 6,5%) indica un rischio di diabete. È da rilevare che il suddetto limite non identifica un notevole numero di individui con IFG o IGT. L’ADA ritiene che le persone con A1C tra 5,7% e 6,4% debbano essere informate del rischio sia di diabete che di malattie cardiovascolari e consigliate a ridurre il peso corporeo e a svolgere attività fisica per ridurlo.
L’ADA conclude indicando i criteri per la diagnosi di diabete: 1) A1C ≥6,5% oppure 2) glicemia a digiuno ≥126 mg/dL, oppure 3) glicemia ≥200 mg/dL in corso di prova da carico glicidico, oppure 4) glicemia ≥200 mg/dL a caso in un paziente con i classici sintomi diabetici.