Perché il dolore è più dolor, se tace
Giovanni Pascoli

Le parole del dolore
È difficile se non impossibile, almeno così ci pare, esprimere il dolore; e non solo il dolore fisico: riusciamo forse a condividere realmente con gli altri un nostro lutto?
Di fatto ci sembra che il dolore sia qualcosa di elusivamente interiore e privato, qualcosa di assolutamente nostro, e che sia di conseguenza impossibile comunicarlo ad altre persone per empatiche che esse si sforzino di essere. La persona che soffre sperimenta, quindi, oltre a dolore, una profonda angosciosa solitudine. Se il dolore è una cosa che sta “dentro” e solo dentro, non possiamo fare altro che gestircelo da soli, e ciò accresce la sofferenza.
La sensazione di disperata solitudine è esperienza ben nota a chi soffre; in letteratura l’incomunicabilità del dolore è stata più volte espressa negli scritti di diversi autori che lo hanno sperimentato: Auden, Virginia Woolf, Oliver Sacks, William Styron… Con poche parole Emily Dickinson così la sintetizza: «pain has an element of blank». E come si può comunicare, condividere il vuoto? Se il dolore è qualcosa di completamente interiore e individuale, tra chi soffre e il mondo esterno si scava un fossato apparentemente invalicabile: la persona che prova dolore vive in un altra realtà che noi non possiamo abitare né conoscere.
Ma è davvero così? Secondo l’Autore di un libro recentemente apparso negli USA, non è così: possiamo comunicare il nostro dolore, ed anzi, esternare la sofferenza ci aiuta a sopportarla (David Biro, The language of pain. Finding words, compassion, and relief. Pagine 256. W.W. Norton & Co., New York, London 2010).
I numerosi poeti e scrittori dall’Autore citati, così come la sterminata folla degli umani pazienti, del dolore parlano e – afferma Biro - il fatto stesso di usare il linguaggio è motivo sufficiente a escludere la totale privatezza del dolore. Il linguaggio getta un ponte sul fossato che separa chi soffre dal mondo esterno e dagli altri: fossato che certo esiste e non si può colmare completamente; tuttavia dire che il dolore è un “vuoto” è già comunicazione, e comunicare (mettere in comune) significa, di fatto, condividere.




La solitudine del dolore, sostiene Biro, è, dunque, soprattutto nella nostra mente. È necessario allora riflettere sull’importanza cruciale del linguaggio, e il nostro Autore lo fa a partire da Wittgenstein che al dolore dedica pagine fondative.
È ovvia constatazione che il dolore ha una localizzazione nel corpo: «mi fa male il braccio, lo stomaco, la testa…». Braccio, stomaco e testa sono miei e solo miei: non è questa un prova inconfutabile della pura soggettività del dolore? Puntualizza Wittgenstein: «Non è un corpo che prova dolore: non è la mia mano a sentire dolore, sono io che sento dolore nella mia mano». L’io che parla è un soggetto, una persona; e gli esseri umani sono aperti verso l’esterno e collegati nel bene e nel male con altre persone. Gli individui, anche quelli che soffrono, non sono monadi, ma nodi di una rete in cui linguaggio è un elemento di connessione fondamentale. Del dolore è quindi possibile parlare: esso è – contrariamente a quanto ci sembra – comunicabile, almeno entro certi limiti. Non c’è bisogno, per questo, di essere un Auden o la Dickinson; basta sapere che sul fossato che separa chi soffre dagli altri è possibile gettare ponti.
Per comunicare il dolore, così come avviene per le emozioni, il linguaggio ci fornisce un’arma potentissima: la metafora. Usiamo metafore di continuo, quasi inconsapevolmente, allorché vogliamo esprimere in poche parole qualcosa che esprimere non è facile: il sangue «ci ribolle» o «si gela» nelle vene; abbiamo «una febbre da cavallo»; definiamo altri esseri umani come «aquile, somari, leoni, sciacalli»… e così via. La realtà è molto più vasta del linguaggio, così che siamo spesso costretti a usare termini metaforici per definire cose che non hanno nome: diciamo, ad esempio, «ai piedi della montagna» o «le gambe del tavolo», ancorché montagne e tavoli non abbiano né arti né estremità.
Questo particolare tipo di metafora – non più avvertito come tale – è noto, ci ricorda Biro, come catacresi. Nell’ambito della sofferenza usiamo metafore e catacresi a iosa.
Diciamo, ad esempio, che il dolore punge, stringe, trafigge, opprime, batte come un martello; che va e viene come un’onda, accelera e poi si ferma come un treno, “risponde” in una data area del corpo…
La metafora non è una semplice similitudine abbreviata, ma «un’interazione tra frasi, idee e categorie» e come tale generatrice di nuovi significati e di nuovi pensieri. Attraverso le metafore si costruiscono mondi. Esse ci permettono di uscire dalla descrizione claustrofobica e ripetitiva del dolore come qualcosa che sta rinchiuso dentro di noi.
Il dolore può dunque essere narrato, comunicato, esternalizzato. Il libro ce lo mostra attraverso un uso abile e competente delle medical humanities, citando poeti, scrittori, pittori (in particolare Frida Kahlo, la cui opera è impregnata dal dolore), ma ce lo mostra altresì attraverso la voce di persone che soffrono e che artisti non sono. La voce della vita, che include la sofferenza, è universale.
È importante che chi soffre apprenda a usare il linguaggio in modo consapevole e strategico, evitando di scavare e di approfondire tra sé e gli altri il fossato dell’incomunicabile. Narrare la malattia, individuare le metafore più utili a costruire condivisione è, infatti, di grande aiuto, proprio perché non è l’organo che prova dolore, bensì la persona: corpo e mente; e le persone, noi tutti, siamo inevitabilmente interconnessi.
Il discorso dell’Autore, medico di medicina generale – non astratto filosofo –, ci svela le infinite possibilità che fornisce l’uso consapevole del linguaggio nel creare nuove realtà e nuovi mondi, alleviando almeno in parte la sofferenza ed estirpando dalla nostra mente il senso angoscioso di solitudine.
La conclusione migliore è nelle pagine finali dell’opera:
«Gli esseri umani sono nel mondo e conoscono se stessi nel mondo. Per quanto individuale e soggettivo possa apparire il dolore, esso non può essere concepito sconnesso dal mondo esterno. Quando affrontiamo l’esperienza del dolore rimanendo recettivi al linguaggio e ai significati, essa smette di essere privata e interiore. Il linguaggio ci conduce a un modo di pensare che non è più solo nostro: a un pensiero che è con tutta probabilità universale. Nonostante il dolore ci sfidi, non possiamo permettergli di ridurci al silenzio. Alla fine dobbiamo sforzarci di parlare quando è possibile farlo – nel momento del dolore, o giorni, mesi o perfino anni dopo – e non importano la forma e la qualità di quanto diciamo. Il linguaggio può alleviare il dolore. Fin tanto che dura la nostra possibilità di comunicare, di conversare, noi non siamo soli».

Giorgio Bert