Dalla letteratura



Tromboembolismo venoso
e malattie infiammatorie
intestinali
Molti studi hanno indicato che il tromboembolismo venoso (TEV) è una causa importante di morbilità e mortalità nei pazienti con malattie infiammatorie intestinali (IBD, secondo l’acronimo internazionale: “inflammatory bowel diseases”), infatti questi pazienti si trovano a rischio da 3 a 4 volte maggiore di TEV e lo presentano in età inferiore (Danese S, Papa A, Saibeni S, et al. Inflammation and coagulation in inflammatory bowel disease: the clot thickens. Am J Gastroenterol 2007; 102: 174). È stato rilevato che la maggiore frequenza del TEV in questi pazienti è uno dei fattori che determina l’aumentata mortalità per embolia polmonare. È interessante rilevare che la trombosi venosa profonda degli arti inferiori e superiori è la più frequente localizzazione del TEV nelle IBD, anche se in questi pazienti sono state descritte manifestazioni cerebrovascolari, portali, mesenteriche o retiniche (Danese, et al: loc cit). Il meccanismo patogenetico del TEV nelle IBD non è ancora completamente chiarito, ma è sicuramente multifattoriale; è stato in proposito osservato che malattia attiva, fistole e ascessi sono presenti nella maggior parte dei pazienti al tempo della comparsa del TEV. Inoltre i pazienti con IBD sono frequentemente esposti a fattori di rischio di TEV, per immobilizzazione, interventi chirurgici, disidratazione o applicazioni di cateteri centrali. Le più importanti complicazioni del TEV sono l’ obitus e la ricorrenza del TEV, che può essere prevenuta con terapia anticoagulante, che peraltro può causare un’emorragia grave. Per conseguenza la durata della profilassi deve essere attentamente valutata tenendo presente il rischio di ricorrenza del TEV contro il rischio di sanguinamento. È noto che nei pazienti senza IBD molti fattori sono associati al rischio di TEV, come neoplasie, sindrome antifosfolipidica, deficit naturale di inibitori della coagulazione, iperomocistinemia o elevati livelli di fattori della coagulazione; tuttavia nei pazienti con IBD la percentuale di ricorrenze di TEV e i fattori patogenetici di queste sono tuttora sconosciuti.
Uno studio clinico per determinare il rischio di ricorrenze di TEV è stato condotto su 2811 pazienti con IBD con storia di TEV dal giugno 2006 al dicembre 2008 (Novacek G, Weltermann A, Sobala A, et al. Inflammatory bowel disease is a risk factor for recurrent venous thromboembolism. Gastroenterology 2010; 139: 779).
È stato osservato che i pazienti con IBD sono ad alto rischio di trombosi ricorrente dopo un primo episodio di TEV. La probabilità di ricorrenza raggiunge il 29% cinque anni dopo l’interruzione del trattamento anticoagulante. Gli autori sottolineano che questa percentuale è più elevata di quella osservata da altri autori (13-16%).
Due fattori sono stati rilevati associati al rischio di ricorrenza di TEV: 1) il sesso maschile, che ha conferito un aumento di 3 volte del rischio a confronto con il sesso femminile e che non ha trovato fino ad ora spiegazioni e 2) l’età al primo episodio di TEV, che è risultata significativamente associata ad aumentato rischio di ricorrenza. Questo aspetto è in contrasto con quanto si osserva nei pazienti senza IBD, nei quali il rischio di ricorrenze è indipendente dall’età. Sono stati osservati altri fattori non indipendenti di rischio di ricorrenza di TEV, come localizzazione del primo episodio tromboembolico, assenza o presenza di fattori transitori di rischio, quali interventi chirurgici o trauma al primo episodio, fattore V di Leiden oppure obesità. Inoltre è stato osservato che la forma clinica di IBD al primo episodio di TEV non è stata in rapporto con il rischio di ricorrenze emboliche; la presenza di fattore VIII della coagulazione, che è un fattore predittivo di TEV nei pazienti senza IBD, non è stata osservata in questa casistica.
Il fattore VIII è una proteina della fase acuta, che frequentemente è aumentata nei pazienti con IBD, ma soltanto consistenti incrementi, che possono essere geneticamente determinati, conferiscono un potenziale rischio trombo­embolico.
I pazienti con e senza IBD differiscono nei confronti dell’importanza dei fattori di rischio trombotici. Infatti i pazienti con IBD tendono a essere più giovani, presentano un più basso indice di massa corporea (BMI), più spesso hanno trombosi venosa profonda prossimale e più elevati livelli di fattore VIII e meno frequentemente sono portatori di fattore V di Leiden. Nei pazienti con IBD il rischio tromboembolico è correlato al danno infiammatorio della malattia intestinale e la condizione infiammatoria è correlata a varie alterazioni della coagulazione e più particolarmente a una situazione di ipercoagulazione. Gli autori ricordano che nelle IBD sono aumentati i marcatori del sistema di attivazione dell’emostasi, come il frammento 1+2 della protrombina e il complesso trombina-antitrombina, specialmente nei pazienti c­­on IBD attiva e che nell’IBD le piastrine circolano in uno stato attivato e possono contribuire all’aumentato rischio tromboembolico.
Gli autori si domandano quali implicazioni abbiano le loro osservazioni e rispondono che i pazienti con IBD e TEV si trovano ad alto rischio di ricorrenze tromboemboliche. Queste ricorrenze debbono essere prevenute da adeguata terapia anticoagulante, sebbene essa comporti il prezzo di accresciuto rischio emorragico. La decisione per stabilire la durata del trattamento anticoagulante impone la valutazione dell’equilibrio del rischio di ricorrenza tromboembolica e del rischio di emorragia. Si ricorda che, nei pazienti senza IBD, si consiglia di interrompere il trattamento anticoagulante dopo 3 mesi nei soggetti con TEV secondario a un fattore transitorio di rischio come trauma o intervento chirurgico, poiché in queste condizioni il rischio di ricorrenze tromboemboliche è basso.



Per contro, un trattamento anticoagulante oltre 3 mesi può essere considerato in pazienti senza IBD con
TEV soltanto in assenza di fattori provocatori, perché in questi casi il rischio di ricorrenza fatale di TEV supera il rischio emorragico. Questa situazione si incontra specialmente in pazienti con trombosi venosa profonda prossimale o con embolia polmonare. Per quanto riguarda i farmaci da usare gli autori ricordano che il rischio emorragico durante trattamento con antagonisti della vitamina K non è conosciuto nei pazienti con IBD e potrebbe essere maggiore che nei pazienti senza IBD. Inoltre, sebbene sia stato segnalato che l’eparina comporta una minore percentuale di complicanze emorragiche, sono necessari ulteriori studi clinici controllati per valutare i vantaggi di un prolungato trattamento anticoagulante nei pazienti con IBD.
Riacutizzazioni
nella broncopneumopatia
cronica ostruttiva
La storia naturale della broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) è caratterizzata da riacutizzazioni, consistenti nel peggioramento della sintomatologia, che accelerano il declino della funzione polmonare e che riducono l’attività fisica, peggiorano la qualità della vita e aumentano il rischio di obitus. Attualmente si conosce ancora poco dell’incidenza delle riacutizzazioni della BPCO, delle loro cause e del loro effetto sui pazienti a vari livelli di gravità della malattia. Sebbene si ritenga che le riacutizzazioni siano più frequenti con l’aumentare della gravità della BPCO, il fattore predittivo più importante di questi eventi permane la storia di riacutizzazioni. Negli ultimi anni si è venuto affermando il concetto dell’esistenza di un fenotipo di BPCO caratterizzato dalla frequenza di riacutizzazioni, indipendentemente dalla gravità della malattia.
Sulla base dello studio clinico ed epidemiologico di 2138 pazienti con BPCO, arruolati nell’Evaluation of COPD Longitudinally to Identify Predictive Surrogate Endpoints (ELICPSE) Study e controllati per un periodo di  3 anni, è stata valutata l’ipotesi dell’esistenza di un fenotipo di BPCO caratterizzato da frequenti riacutizzazioni e indipendente dalla gravità della malattia (Hurst JR, Vestbo J, Anzueto A, et al. Susceptibility to exacerbation in chronic obstructive pulmonary disease. N Engl J Med 2010; 363: 1128).
È stata studiata la frequenza delle riacutizzazioni in pazienti con BPCO moderata, grave o molto grave ed è stato identificato un gruppo di pazienti particolarmente predisposto alle riacutizzazioni, indipendentemente dalla gravità della malattia definita dal risultato della valutazione – mediante spirometria – della funzione polmonare. La predisposizione alle riacutizzazioni è stata  identificata interrogando i pazienti su precedenti riacutizzazioni e si è dimostrata stabile per un periodo di 3 anni.
Gli autori ricordano che in precedenti studi numerose variabili sono state associate alla frequenza delle riacutizzazioni, ma che, secondo la loro esperienza, le riacutizzazioni richiedenti trattamento diventano più frequenti quando la BPCO si aggrava. Gli autori riconoscono di avere probabilmente sottostimato la frequenza degli eventi definiti da sintomi; ciò nondimeno hanno osservato che la percentuale dei pazienti con BPCO allo stadio 4 GOLD (Global initiative for chronic Obs-tructinve Lung Disease. Global strategy for the diagnosis, management and prevention of chronic obstructive lung disease [Accessed August 23, 2010, at http://www.goldcopd.org/Guidelineitem.asp?11=28c12=1&intld=2180]) è risultata due volte maggiore della percentuale dei pazienti allo stadio 2 GOLD. Secondo gli autori, le conseguenze delle riacutizzazioni diventano più gravi con l’aggravarsi della malattia, sebbene risulti “complesso” differenziare la gravità di una riacutizzazione dalla gravità della BPCO.
Come già accennato, la causa più importante di frequenti riacutizzazioni in tutti gli stadi di gravità della malattia è risultata la storia di precedenti riacutizzazioni. Secondo gli autori ciò induce a confermare l’esistenza di un fenotipo di pazienti con BPCO caratterizzato da particolare predisposizione alle riacutizzazioni. Questo fenotipo si osserva negli stadi moderato e grave della malattia e l’incidenza delle riacutizzazioni aumenta con l’aggravarsi della BPCO. In questo gruppo di pazienti sono state frequentemente osservate alcune complicanze associate a una maggiore compromissione delle condizioni generali, come reflusso gastroesofageo e aumento dei leucociti. In contrasto non è stata notata l’associazione con bronchite cronica, nonostante che si ritenga che tosse ed espettorato siano correlate alla BPCO.
Nei pazienti con BPCO moderata la frequenza delle riacutizzazioni è stata del 22%. Secondo gli autori si tratta di un rilievo importante, considerando che questi pazienti, che hanno una malattia relativamente lieve secondo i dati spirometrici, potrebbero non essere identificati come appartenenti al fenotipo predisposto alle riacutizzazioni. In questo gruppo le riacutizzazioni sono state più frequenti nelle donne. Gli autori non sanno spiegare questa differenza e ritengono che siano utili studi clinici controllati per valutare eventuali condizioni di iperreattività delle vie aeree nel sesso femminile.
Nel concludere, gli autori ritengono che i risultati di questo studio confermino che le riacutizzazioni della BPCO diventino più frequenti e più gravi con l’aggravarsi della malattia e che i pazienti che presentano frequenti riacutizzazioni costituiscano un fenotipo della BPCO con particolare predisposizione a tali complicanze.



Sull’associazione
di nefropatie croniche
e infarto miocardico acuto
Le nefropatie croniche rappresentano un importante fattore di rischio di malattie cardiovascolari e sono responsabili di aggravamento del decorso clinico dei pazienti ricoverati per infarto miocardico acuto.
Nonostante i considerevoli progressi nel trattamento delle coronariopatie, i vantaggi ottenuti sono stati conseguiti e segnalati in pazienti con funzione renale conservata, mentre i pazienti con danno renale cronico sono stati sotto-rappresentati o esclusi nei principali contributi sull’argomento (Coca SG, Krumholz HM, Garg AX, et al. Underrepresentation of renal disease in randomized controlled trials of cardiovascular disease. JAMA 2006; 296: 1377). Permane pertanto oggetto di discussione e di studio fino a qual punto di effettiva terapia di infarto miocardico acuto è migliorato il decorso clinico dei pazienti appartenenti a questa popolazione ad alto rischio.
Recentemente è stato eseguito uno studio clinico su una vasta popolazione di pazienti ricoverati per infarto miocardico acuto al fine di descrivere le modificazioni nel decorso clinico, nel trattamento e nell’esito a breve termine dei pazienti con malattie renali a confronto dei  pazienti con funzione renale conservata, durante un periodo di osservazione di 10 anni (dal 1995 al 2005) (Santolucito PA, Tighe DA, Mc Manus DD, et al. Management and outcomes of renal disease and acute myocardial infarction. Am J Med 2010; 123: 847). Sono stati studiati 6219 pazienti ricoverati per infarto miocardico acuto confermato. La funzionalità renale è stata valutata mediante misura della creatininemia al momento del ricovero in ospedale. Per valutare il filtrato glomerulare è stato fatto riferimento alla equazione a 4 componenti “Modification of Diet in Renal Disease” (Levey AS, Bosh JP, Lewis JB, et al. A more accurate method to estimate glomerular filtration rate from serum creatinine: a new prediction equation. Modification of Diet in Renal Disease Study Group. Ann Intern Med 1999; 130: 461). In base a questa equazione i pazienti sono stati classificati in 3 gruppi, secondo il livello del filtrato glomerulare stimato in condizioni basali: 1) funzione renale conservata (n=3154): >60 mL/min/1,73m2; 2) nefropatia cronica da lieve a moderata  (n=2313): da 31 a 59 mL/min/1,73m2; 3) grave nefropatia cronica  (n=752): <30 mL/ min/1,73m2; in questo terzo gruppo sono stati inclusi 195 pazienti in dialisi.
L’età media dei pazienti studiati è stata di 71 anni e il 56% erano uomini, la maggioranza (93%) di etnia caucasica. Una nefropatia cronica, definita da un filtrato glomerulare stimato  <60 mL/min/1,73m2 era presente al momento del ricovero in 3065 pazienti (49%). È stato rilevato che, a confronto con i soggetti con funzione renale conservata, quelli con nefropatia cronica erano di età più avanzata e prevalentemente di sesso femminile e, inoltre, presentavano più frequentemente una storia clinica di precedente angina, diabete, insufficienza cardiaca, ipertensione, infarto miocardico e ictus, mentre meno frequentemente presentavano una storia di ipercolesterolemia; inoltre è stato rilevato che in questo gruppo era presentato meno frequentemente un infarto miocardico acuto a onda Q.
Gli autori hanno rilevato che, nel corso dei dieci anni di osservazione, l’uso di terapie basate sull’evidenza è andato progressivamente diffondendosi in tutti i pazienti ricoverati per infarto miocardico acuto, indipendentemente dalla situazione della funzionalità renale, e che il più evidente miglioramento è stato notato nei pazienti con nefropatie croniche e soprattutto in quelli con più grave danno renale; in questi soggetti la percentuale di shock cardiogeno e di mortalità a breve termine è diminuita significativamente nel tempo. Gli autori hanno osservato, tuttavia, che, sebbene sia stata notata una accresciuta tendenza all’uso dell’angiografia coronarica e agli interventi coronarici percutanei nei pazienti con nefropatie croniche, questa tendenza, che gli autori definiscono “incoraggiante”, è stata temperata dal fatto che questi soggetti con compromessa funzione renale sono stati in realtà meno aggressivamente trattati con i farmaci cardiologici basati sull’evidenza e con le tecniche di riperfusione coronarica, a confronto con i pazienti con funzione renale conservata. Inoltre è stato segnalato che i pazienti con danno renale cronico sono rimasti ad aumentato rischio di obitus o di andare incontro a complicanze clinicamente significative, a confronto con i soggetti con funzione renale normale.
Lo studio di Santolucito et al (loc cit) estende i risultati di recenti ricerche che hanno dimostrato una tendenza all’uso di terapie cardiologiche e di tecniche di intervento coronarico nei pazienti con nefropatie croniche (Menon V, Sornak MJ, Lessard D, et al. Recent trends in hospital management practices and prognosis after acute myocardial infarction in patients with end stage renal disease: results from the cooperative cardiovascular project. Am J Kidney Dis 2000; 35: 1044).
Gli autori ritengono che le misure terapeutiche efficaci e confermate dalle linee guida possano consentire un miglioramento della sopravvivenza a breve termine dei pazienti con nefropatie croniche durante il ricovero per infarto miocardico acuto. Rilevano, tuttavia, che la non randomizzazione del loro studio non consente una valutazione sistematica degli effetti di specifiche terapie cardiologiche nei soggetti con nefropatie croniche e, in definitiva, ritengono che, al momento attuale, permangano ancora dubbi se questi trattamenti si associno a particolari vantaggi.



Per quanto riguarda i meccanismi che promuovono l’associazione tra nefropatie croniche e aumentata mortalità nei pazienti con infarto miocardico acuto, gli autori ricordano che essi sono molteplici: aritmie, disturbi emodinamici e disfunzione ventricolare sinistra (
Wright RS, Reeder GS, Herzog CA, et al. Acute myocardial infarction and renal dysfunction: a high risk combination. Ann Intern Med 2002; 137: 563). Inoltre disfunzione endoteliale e vascolare, ipertrofia ventricolare sinistra, ridotta capacità di trasporto di ossigeno e accelerata arteriosclerosi possono contribuire allo sviluppo di complicazioni in condizioni di infarto miocardico acuto e possono fare aumentare la morbilità e la mortalità di questi pazienti con danno renale cronico. Infine è da tenere presente che i pazienti con nefropatie croniche sono in genere più anziani e presentano numerose condizioni patologiche che possono contribuire ad accrescere il rischio di obitus in occasione di un infarto miocardico acuto.
Herpes zoster
e sindrome di Guillain-Barré
La sindrome di Guillain-Barré (GBS, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “Guillain-Barré Syndrome) è una rara poliradiculoneuropatia acuta frequentemente molto grave, che, in circa il 75% dei casi, è preceduta, da 1 a 3 settimane, da un’infezione acuta respiratoria o gastrointestinale, di solito da citomegalovirus, virus di Epstein Barr, Campylobacter jejuni, Mycoplasma pneumoniae. Si ritiene che la patogenesi della GBS sia di natura autoimmunitaria e promossa da alterazioni delle condizione immunologiche dell’ospite correlate all’età, allo stress, a traumi, etc. In anni recenti è stata segnalata la frequente comparsa di GBS a seguito di herpes zoster ed è stata ipotizzata un’associazione tra le due condizioni, anche se non si esclude che tale associazione sia una coincidenza. Tenendo presente che la GBS comporta spesso un grave deficit neurologico con grave ripercussione sulla qualità della vita, si è ritenuto utile studiare i dati epidemiologici relativi all’associazione tra questa sindrome e l’herpes zoster.
A questo scopo è stato valutato il rischio di sviluppare una GBS in un’ampia casistica di pazienti con herpes zoster (Kang JH, Sheu JJ, Lin HC. Increased risk of Guillain-Barré Syndrome following recent herpes zoster: a population-based study across Taiwan. Clin Infect Dis 2010; 51: 525).
Gli autori hanno studiato dal 1996 al 2002 una casistica di oltre 300.000 pazienti con herpes zoster assistiti in Centri ambulatoriali di Taiwan e un gruppo corrispondente di pazienti, escludendo quelli con GBS o malattie sistemiche, quali malattia da immunodeficienza acquisita, lupus eritematoso sistemico e linfoma.
È stato osservato che lo 0,03% dei pazienti studiati hanno presentato GBS nei due mesi successivi alla comparsa di herpes zoster.
È stato osservato inoltre che i pazienti erpetici con GBS più frequentemente hanno avuto una recente infezione rispetto ai pazienti senza GBS. Le infezioni più frequenti sono state quelle da Campylobacter jejuni, Mycoplasma pneumoniae, cytomegalovirus e virus di Epstein-Barr, mentre altre etiologie prima dell’herpes zoster sono rare, perché queste infezioni inducono modificazioni associate a riattivazione della varicella (VZV). Sono state emesse varie ipotesi patogenetiche: che la GBS sia associata ad altre recenti infezioni oltre la VZV, che l’insorgenza tra i soggetti con herpes di questa sindrome sia conseguenza dello stato immunologico dell’ospite. In realtà, come gli autori rimarcano, la patogenesi della GBS che segue l’herpes zoster è ancora poco conosciuta. Alcuni autori ritengono che la sindrome che segue l’herpes è direttamente correlata al danno autoimmunitario del sistema nervoso periferico causato dal precedente evento infettivo ( von Doorn PA, Ruts L, Jacobs BC. Clinical features, pathogenesis and treatment of Guillain-Barré syndrome. Lancet Neurol 2008; 7: 939). In questa eventualità alcuni specifici patogeni potrebbero riprodurre o mimare le molecole di nervi periferici dell’individuo infetto che inducono un processo autoimmunitario mielinico. È noto, infatti, che gangliosidi dei nervi motori hanno un elevato grado di somiglianza con i lipo-oligosaccaridi di C.jejuni, che è stato trovato legato alla patogenesi di forme endemiche di GBS (Perera VN, Nachamkin I, Ung H, et al. Molecular mimieri in Campylobacter jejuni: role of the lipo-oligosaccaride core in inducing antiganglioside antibodies. FEMS Immunol Med Microbiol 2007; 50: 27).
Gli autori ricordano che la varicella può interferire con l’immunità e può diventare latente risiedendo nel sistema nervoso dell’uomo per lungo tempo, anche se non è ancora noto il meccanismo mediante il quale è riattivata. Si ritiene che un ruolo rilevante sia svolto dallo stato immunitario alterato. È stato osservato, in queste circostanze, uno squilibrio tra linfociti helper e suppressor. Gli autori ritengono che herpes zoster e GBS possano associarsi a una comune condizione, quale uno stato patologico immunitario, e che su questo saranno necessari ulteriori, ampi studi.
Gli autori si soffermano sul problema della terapia della GBS e ricordano che la terapia antivirale ha dimostrato di ridurre nuove lesioni e prevenire la neuralgia erpetica in pazienti con herpes zoster (Quan D, Hammack BN, Kittelson J, et al. Improvement of postherpetic neuralgia after treatment with intravenous acyclovir followed by oral valaciclovir. Arch Neurol 2006; 63: 940). Nonostante l’attuale terapia della GBS con immunoglobuline endovena e scambio di plasma, la GBS è gravata da una mortalità ancora dal 2 al 4% ed è stato osservato che la prognosi è più grave nei pazienti con GBS che segue herpes zoster rispetto alla popolazione generale con GBS.

Nel commentare questi risultati, Lehman e Hartung osservano che attualmente non esistono dati sperimentali a sostegno della somiglianza molecolare oppure dell’attivazione non specifica del sistema immunitario da parte di un virus (VZV) neurotropico; ciò nondimeno lo studio di Kang et al (loc cit) è importante perché significativo nella relazione tra VZV, herpes zoster e GBS: cioè la stretta coincidenza temporale tra episodio di herpes zoster e GBS (Lehman HC, Hartung HP. Varicella-zoster virus. Another trigger of Guillain-Barré syndrome? Clin Infect Dis 2010; 51: 551). Pertanto i fattori noti perché di rischio di herpes zoster, quali predisposizione genetica, fattori ambientali o fisiologico processo di immunosenescenza, possono essere determinanti nella patogenesi della GBS.