Dalla letteratura




Ipertensione e lesioni
della materia bianca cerebrale
È noto che, negli anziani, alla risonanza magnetica nucleare si rinvengono frequentemente lesioni della materia bianca (LMB), che sono associate ad aumentato rischio di depressione, ictus e demenza. Sebbene, al momento attuale, non sia pienamente compresa la fisiopatologia di queste lesioni, pur tuttavia è opinione comune che esse siano conseguenza di alterazioni dei piccoli vasi, specialmente in soggetti ipertesi (Pantoni L. Pathophysiology of age-related cerebral white matter changes. Cerebrovasc Dis 2002; 13, suppl 2: 7). Infatti recenti studi hanno dimostrato che il livello di pressione arteriosa sistolica e diastolica si associa alla gravità delle LMB e che il trattamento antipertensivo può rallentare la progressione di queste lesioni (Guo X, Pantoni L, Simoni M, et al. Blood pressure components and changes in relation to white matter lesions: a 32-year prospective population study. Hypertension 2009; 54: 57).
In una ricerca condotta su 1319 soggetti (72 anni di età in media) di cui il 62% donne e il 75% ipertesi, sono stati valutati i livelli di pressione arteriosa e il loro rapporto con il volume delle LMB nel corso di 4 anni di controllo (Godin O, Tzourio C, Maillard P, et al. Antihypertensive treatment and change in blood pressure are associated with the progression of white matter lesion volumes . The Three – City (3C) – Dijon Magnetic Resonance Imaging Study. Circulation 2011; 123: 266).
È stato osservato che i livelli di pressione arteriosa all’inizio dello studio e le loro variazioni nel corso dei 4 anni di controllo sono risultati evidenti predittori della progressione del volume delle LMB, indipendentemente da potenziali fattori confondenti e che questo rapporto si riferisce alle LMB sia totali che periventricolari. È stato inoltre rilevato che un corretto trattamento antipertensivo può efficacemente rallentare la progressione della LMB, a confronto di ciò che si è osservato nei soggetti con ipertensione non controllata. Questo effetto della terapia si è verificato anche nei soggetti ipertesi non trattati all’inizio dello studio, nei quali il trattamento ha ugualmente determinato un rallentamento della progressione delle LMB; questo effetto è stato osservato soprattutto nei soggetti con livelli di pressione particolarmente elevati all’inizio dello studio.
Gli autori ritengono che i risultati possano spiegarsi col fatto che una situazione di prolungata ipertensione conduce a lesioni strutturali dei piccoli vasi cerebrali, come ialinizzazione, tortuosità, allungamento e restringimento. Queste alterazioni danno luogo a riduzione del flusso ematico e, conseguentemente, a ischemia. Un altro meccanismo patogenetico potrebbe essere causato dalla disfunzione della barriera ematoencefalica provocata dall’ipertensione, con conseguente alterazione della permeabilità vascolare, edema cerebrale, attivazione degli astrociti, produzione di enzimi citotossici e altre tossine che attraversano la parete vasale danneggiata.
Viene sottolineato che i risultati ottenuti non sono stati influenzati dalla presenza di fattori vascolari, come diabete, storia clinica di cardiopatie, ipercolesterolemia e fumo di tabacco, né da presenza di demenza o ictus. È stato inoltre osservato che il rapporto tra ipertensione e progressione delle LMB è stato più evidente nelle LMB periventricolari. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che la progressione delle LMB nei 4 anni di controllo sia, nella media, più ridotta nelle aree di materia bianca più profonde, rispetto alla progressione nelle aree periventricolari.
Gli autori ritengono che i risultati ottenuti possano offrire possibilità di prevenzione della demenza e dell’ictus e che le LMB possano essere considerate un marcatore del rischio di tali condizioni.
Problemi di terapia diuretica
dello scompenso cardiaco acuto
La terapia dello scompenso cardiaco acuto si fonda sulla somministrazione endovenosa di un diuretico dell’ansa, che determina una riduzione della congestione e della pressione di riempimento ventricolare, con conseguente miglioramento della sintomatologia. Tuttavia, a tutt’oggi, non vi sono risultati di studi clinici controllati che confermino l’efficacia di questo trattamento e, d’altra parte, esistono alcuni rischi, che comprendono attivazione neuroumorale, vasocostrizione sistemica, danno funzionale renale e disturbi elettrolitici con conseguente peggioramento clinico ( Falker GM, O’Connor CM, Braunwald E. Loop diuretics in acute decompensated heart failure: necessary? Evil? A necessary evil? Circ Heart Fail 2009; 2: 56).
Recentemente sono stati resi noti i risultati di un ampio studio clinico multicentrico, randomizzato e controllato, condotto su 308 pazienti ricoverati per scompenso cardiaco acuto (Felker GM, Lee KL, Bull DA, et al for the NHLBI Heart Failure Clinical Research Network. Diuretic strategies in patients with acute decompensated heart failure. N Engl J Med 2011; 364: 797). È stata confrontata l’efficacia dell’infusione venosa continua del diuretico dell’ansa furosemide con quella della somministrazione endovenosa di questo farmaco in boli ogni 12 ore. Come punti di riferimento sono stati controllati i valori di creatininemia e la sintomatologia dei pazienti. Sono stati controllati inoltre i livelli sierici di cistatina C e di N-terminale di pro-peptide natriuretico cerebrale.
Gli autori non hanno osservato alcuna differenza significativa sia nella sintomatologia che nella creatininemia, fra il trattamento per infusione venosa continua e quello in boli endovena.
Inoltre non è stata osservata differenza significativa nell’innocuità tra i due metodi di somministrazione e tra la terapia a basse dosi e quella a dosi elevate.




Gli autori riconoscono che i loro risultati non concordano con quelli di precedenti studi che hanno segnalato minore danno funzionale renale e più intensa diuresi con l’infusione venosa continua rispetto a quella in boli (Thomson MR, Nappi JM, Dunn Sp, et al. Continuous versus intermittent infusion of furosemide in acute decompensated heart failure. J Card Fail 2010; 16: 188). Una spiegazione della mancanza di differenza significativa osservata potrebbe trovarsi nel fatto che nei pazienti trattati con boli di furosemide sono state effettuate infusioni continue di placebo, prolungando il tempo durante il quale i pazienti hanno mantenuto posizione supina, che, come noto, favorisce la diuresi (Abildgaard U, Aldershvile J, Ring-Larsen H, et al. Bed rest and increased diuretic treatment in chronic congestive heart failure. Eur Heart J 1985; 6: 1040).
Viene sottolineato che, sebbene le alte dosi di furosemide non abbiano mostrato significative differenze con le basse dosi, pur tuttavia esse sono state associate a una maggiore riduzione della dispnea, a più intensa perdita di liquidi e di peso e a più ridotti effetti avversi definiti “seri”. Per quanto concerne la funzionalità renale, che in precedenti studi è stata osservata maggiormente compromessa da alte dosi di furosemide, gli autori, pur avendo notato che un peggioramento della funzione renale si è verificato più frequentemente con le alte dosi nel breve termine, non hanno rilevato differenze in un termine di osservazione più prolungato (60 giorni). Ritengono, perciò, che gli effetti renali avversi siano dovuti alla gravità della malattia, piuttosto che alle dosi di furosemide.

Nel commentare questi risultati, Fonarow (Fonarow GC. Comparative effectiveness of diuretic regimens. N Engl J Med 2011; 364: 877) rileva che essi confermano la grave prognosi dei pazienti con scompenso cardiaco acuto, nonostante i positivi effetti del trattamento diuretico e ritiene che vi sia impellente necessità di studiare e sviluppare nuovi farmaci e nuove strategie da affiancare ai diuretici dell’ansa.
Problemi di variabilità
nella misura
dell’emoglobina glicosilata
La misura del livello di emoglobina glicosilata A1C (HbA1C) è da tempo diffusamente adoperata per il controllo del diabete, perché consente di conoscere le condizioni dell’equilibrio glicemico in un periodo di circa 120 giorni, ovviando alle spesso intense variazioni del risultato della glicemia. Tuttavia è stato riconosciuto che l’attendibilità di questo parametro non è valida in alcune condizioni cliniche quali anemia, sindromi emolitiche, reticolocitosi, emoglobinopatie e condizioni di variabilità di vita  degli eritrociti ( Saudek CD, Derr RL, Kalyani RR. Assessing glycemia in diabetes using self-monitoring blood glucose and emoglobin A1C. JAMA 2006; 295: 1688). Ma, oltre a queste, altre condizioni che sono meno apprezzate, possono influenzare la concordanza tra livello di HbA1C e valore glicemico medio, ad esempio dapsone, eritropoietina, ipotiroidismo, valvole cardiache meccaniche. Una rassegna critica su questi problemi è stata recentemente compiuta da Rubinow e Hirsch, che hanno discusso tali aspetti dell’utilità dell’ HbA1C nel controllo del diabete (Rubinow KB, Hirsch IB. Reexamining metrics for glucose control. JAMA 2011; 305: 1132).
Viene ricordato che un differente processo di glicazione può produrre variazioni del livello di HbA1C, che sono in realtà più frequenti di quanto non si sia creduto negli ultimi anni e sono più ampie a più alti livelli di HbA1C (Nathan DM, Juenen J, Borg R, et al. A1C-Derived Average Glucose Study Group. Translating the A1C assay into estimated average glucose values. Diabetes Care 2008; 31: 1473). Dalla corrispondenza tra valori di HbA1C e valori medi di glicemia è stato possibile dividere pazienti con diabete di tipo 1 in “bassi glicatori” e “alti glicatori” (Hempe JM, Soros AA, Chalew SA. Estimated average glucose and self-monitored mean blood glucose are discordant estimates of glicemic control. Diabetes Care 2010; 33: 1449).
Gli autori sottolineano che una differente glicazione, con conseguente variabile corrispondenza tra HbA1C e valore glicemico medio, può essere considerato un marcatore indipendente di complicanze diabetiche microvascolari. A questo riguardo sono citati gli studi che hanno indicato che la differenza tra livello di emoglobina glicata e fruttosamina glicata (“glycation gap” degli autori anglosassoni) si associa a rischio di retinopatia in popolazioni diabetiche (Cohen RM, Le Caire TJ, Lindsell CJ, et al. Relationship of prospective GHb to glycated serum proteins in incident diabetic retinopathy: implication of the glycation gap for mechanisms of risk prediction. Diabetes Care 2008; 31: 151). Inoltre è stato osservato che il livello HbA1C considerato normale varia, secondo etnie, dallo 0,2% allo 0,65% e può ritenersi pertanto troppo sensibile come valore soglia per la diagnosi in alcune popolazioni, mentre, invece, per altre, potrebbe essere inadeguato.
La constatazione della variabilità del valore del livello di HbA1C ha indotto a ricercare misure alternative per il controllo dei valori glicemici. Particolare interesse ha suscitato, al riguardo, la misura della fruttosamina, che ha il vantaggio di corrispondere a un più breve periodo di controllo. Tuttavia il livello di fruttosamina non è strettamente correlato al livello di glicemia a digiuno ed è risultato relativamente insensibile nella diagnosi di diabete mellito di tipo 2 (DM2); inoltre può essere influenzato dalla presenza di obesità, fumo di tabacco, iperuricemia, che possono essere frequenti nei diabetici, e non risulta avere valore predittivo di complicanze microvascolari.



Un altro metodo alternativo è la misura di 1,5-anidroglucitol (1-5 AG) che potrebbe essere impiegato in associazione alla misura di HbA1C; tuttavia questo marcatore è apparso attendibile solamente quando il livello di HbA1C è inferiore a 8% e ha mostrato una variabilità in rapporto alla etnia dei pazienti e, in particolare, quando la glicemia media supera 200 mg/dL (Herman WH, Dungan KM, Wolffernbuttel BH, et al. Racial and ethnic differences in mean plasmaglucose, hemoglobin A1C and 1,5-anhidroglucitol in over 2000 patients with type 2 diabetes. J Clin Endocrinol Metab 2009; 94: 1689).
Secondo gli autori, la misura di HbA1C è utile soltanto per la diagnosi di diabete, per valutare l’adeguatezza della terapia e per la predizione di complicanze. Su base individuale i risultati di questa misura devono essere interpretati con cautela, mentre la valutazione dei livelli di fruttosamina e di 1,5-AG può essere utile quando sorgono problemi di mancata correlazione tra valori glicemici e valori di HbA1C.
Recenti studi sulla polmonite
acquisita in comunità nell’adulto
La polmonite acquisita in comunità (CAP, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “community-acquired pneumonia”); rappresenta la più frequente causa di grave sepsi e la causa principale di obitus nel mondo occidentale (Angus DC, Linde-Zwirble WT, Lidicker J, et al. Epidemiology of severe sepsis in the United States: analysis of incidence, outcome and associated costs care. Crit Care Med 2000; 29: 1303). Nonostante i molti progressi conseguiti negli ultimi quaranta anni nelle conoscenze sulla etiopatogenesi, sulla clinica e sulla terapia della CAP, la mortalità di questa malattia è mutata di poco.
In una rassegna critica sono discusse le più significative acquisizioni sulla fisiopatologia della CAP grave e sul suo trattamento (Waterer GW, Rello J, Wunderink RG. Management of community-acquired pneumonia in adult. Am J Respir Crit Care Med 2011; 183: 157).
Gli autori rimarcano che i più recenti studi hanno evidenziato nuovi aspetti fisiopatologici e clinici degli effetti della CAP sulla comorbilità e sulle condizioni patologiche sottese alla CAP (specialmente nel lungo termine) e che si sono aggiunte al tradizionale concetto della triade: agente patogeno, difese dell’ospite e trattamento antibiotico.
Sono ricordate le ricerche sui sistemi di punteggio elaborati per identificare i pazienti con CAP a rischio di decorso clinico sfavorevole e sul confronto tra questi sistemi per individuare quello più attendibile (Niederman MS, Making sense of scoring systems in community acquired pneumonia. Respirology 2009; 14: 327). In generale, tutti i sistemi sono molto validi e utili quando applicati a grande numero di pazienti, ma possono presentare alcune limitazioni in particolar modo nei pazienti giovani, e comunque non possono sostituire la valutazione clinica complessiva. Nell’applicazione di questi sistemi, secondo gli autori, vengono spesso ignorate le importanti differenze tra i vari sistemi sanitari ai quali accedono i pazienti con CAP, i criteri di ammissione a unità di cura intensiva, i trattamenti extra-ospedalieri; inoltre sono molto variabili alcuni criteri terapeutici nelle unità di terapia intensiva per ciò che riguarda ventilazione meccanica, sostegno vasopressorio, terapia sostitutiva renale. Si sottolinea che alcuni pazienti entrano in ospedale già in condizioni gravi, richiedenti ventilazione meccanica e sostegno vasopressorio sin dall’inizio, ma ancora più grave è la situazione di coloro che inizialmente sono giudicati non gravi; secondo l’esperienza degli autori, questi soggetti hanno una mortalità che supera quella dei pazienti entrati subito in unità di terapia intensiva. A questo riguardo ritengono che, sebbene si riconosca che la probabilità di un decorso clinico più grave a seguito di un trasferimento “più tardivo” in unità di terapia intensiva, consigli di iniziare più precocemente un trattamento intensivo, attualmente i criteri ottimali per identificare questi pazienti non sono perfettamente chiariti, né sono stati identificati interventi specifici per prevenire un peggioramento clinico.
Gli autori si soffermano sull’uso di biomarcatori del processo infettivo al fine di guidare i medici nella clinica e ricordano che i primi biomarcatori, tuttora in uso, sono le anomalie della conta leucocitaria (sia della neutropenia che dell’iperleucocitosi) e le anomalie della crasi piastrinica. Più recentemente sono stati proposti nuovi biomarcatori nell’intento di guidare l’inizio e la durata della terapia antibiotica e di consentire di classificare i pazienti a basso o ad alto rischio.
Viene citato l’impiego della misura della lattacidemia al fine di identificare una condizione di ipoperfusione occulta nella sepsi (Rivers E, Nguyen B, Havstad S, et al. Early goal-directed therapy in the treatment of severe sepsis and septic-shock. N Engl J Med 2001; 345: 1368).
Una notevole diffusione ha assunto la misura del livello di procalcitonina (PCT), che è elevato in condizioni di infiammazione, traumi, ustioni e tumori neuroendocrini. L’esperienza acquisita negli ultimi anni su questo biomarcatore ha rivelato che l’uso della PCT consente di ridurre la durata della terapia antibiotica (Christ-Crain M, Stolz D, Bingisser R, et al. Procacalcitonin guidance of antibiotic therapy in community-acquired pneumonia: a randomized trial. Am J Respir Crit Care Med 2006; 174: 84). Tuttavia la PCT ha rivelato sensibilità e specificità non attendibili nella differenziazione tra etiologie batteriche ed etiologie virali, specialmente nei bambini, pur mostrando di corrispondere con altri sistemi di punteggio.
L’uso della proteina C-reattiva (PCR) è apparso più utile nei processi infiammatori in genere piuttosto che in un processo infettivo come la CAP.



L’uso di troponina-I e di peptide natriuretico tipo B è stato consigliato nella CAP a motivo del loro valore come marcatori di stress cardiaco, data la frequenza di complicanze cardiovascolari.
Secondo gli autori, al momento attuale il ruolo dei biomarcatori nella CAP permane incerto, non essendo disponibili dati sufficientemente accurati per differenziare infezioni batteriche da infezioni virali; ne riconoscono tuttavia l’utilità nel consentire una riduzione della durata del trattamento antibiotico.
Nel concludere, gli autori si soffermano sul metodo recentemente introdotto per dimostrare il DNA pneumococcico su sangue intero, che è più sensibile dell’emocoltura, con una specificità che si avvicina al 100% e con la possibilità di predire il rischio di shock e di obitus attraverso la valutazione del carico batterico con la misura delle copie/mL (Kee C, Fatovich D, Palladino S, et al. The specificity of rapid detection of Streptococcus pneumoniae in whole blood using quantitative real-time PCR. Chest 2010; 137: 243).
Viene a questo proposito rilevato che l’osservazione che il carico batterico influenza il decorso della CAP contraddice l’attuale concetto della sepsi e dell’insufficienza multi-organo, secondo cui questi eventi sono dovuti a un’eccessiva risposta dell’ospite piuttosto che correlati a fattori batterici. Inoltre, secondo gli autori, lo studio del carico genomico nel sangue ed altre tecniche molecolari potranno consentire di migliorare la diagnosi e ridurre l’uso inappropriato di poliantibiotici. Correggeranno alcuni concetti “empirici” secondo cui i pazienti più gravi richiedono antibiotici a più largo spettro e secondo cui l’insuccesso della terapia sia dovuto  a insufficiente “copertura” antibiotica.
Per quanto riguarda l’uso ottimale di antibiotici nella terapia della CAP grave, viene segnalata l’aumentata mortalità dei pazienti che non ricevono una terapia antibiotica che copra gli agenti patogeni infettanti. In queste evenienze, pur riconoscendo che le tradizionali prove microbiologiche su sangue ed espettorato hanno in molti casi scarso valore, tuttavia l’identificazione del patogeno e il trattamento specifico contribuiscono ad un migliore decorso della CAP.
Negli ultimi anni l’esperienza acquisita su questi problemi ha indicato il vantaggio dell’aggiunta di un macrolide al trattamento antibiotico della CAP grave. Gli autori si soffermano sulle possibili spiegazioni del beneficio. Innanzi tutto la frequente infezione da batteri atipici, osservata in circa un terzo dei casi di polmonite pneumococcica; spesso questi patogeni atipici non sono riconosciuti se non con prove sierologiche e molecolari specifiche. Inoltre è noto che i macrolidi hanno proprietà antinfiammatorie e immunomodulatrici, probabilmente attraverso modificazioni della proteina dello shock termico e il miglioramento delle funzioni chemiotattiche e fagocitiche dei macrofagi.
Gli autori ritengono che dopo circa un decennio di progressi piuttosto lenti, gli studi sulla CAP abbiano mostrato un acceleramento, soprattutto gli studi sui biomarcatori e sulla valutazione con metodi molecolari del carico batterico, con positivo effetto sulla diagnosi, sulla terapia e sulla prognosi.
Iperinsulinemia
ed epatosteatosi non alcolica
Recenti studi hanno indicato che l’epatosteatosi non alcoolica (ESNA) è una malattia metabolica nella quale l’insulinoresistenza (IR) rappresenta un fattore patogenetico unitamente all’infiammazione epatocellulare e alla fibrosi epatica causata da adipocitochine e stress ossidativo (Bugianesi E, Gastaldelli A, Vanni E, et al. Insulin resistance in non-diabetic patients with non-alcoholic fatty liver disease: sites and mechanisms. Diabetologia 2005; 48: 634). Altri studi hanno dimostrato l’associazione della sindrome metabolica all’ESNA e che obesità, ipertrigliceridemia e presenza di ipertensione possono avere valore predittivo di ESNA (Tsuneto A, Hida A, Sera N, et al. Fatty liver incidence and predictive variables. Hypertens Res 2010; 33: 638).
Questi risultati hanno dato luogo a discussione sulla possibilità che  l’ESNA venga inclusa nella sindrome metabolica (Musso G, Gambino R, Bo S, et al. Should nonalcoholic fatty liver disease be included in the definition of metabolic syndrome? A cross-sectional comparison with Adult Treatment Panel III criteria in nonobese nondiabetic subjects. Diabetes Care 2008; 31: 562).
Attualmente sono stati presi in esame gli effetti di una condizione iperinsulinemica sullo sviluppo di una ESNA e si è inteso verificare se modificazioni del livello di insulinemia influenzino questo sviluppo nel corso di un periodo di osservazione di 5 anni (Rhee EJ, Lee WY, Cho YK, et al. Hyperinsulinemia and the development of non alcoholic fatty liver disease in nondiabetic adults. Am J Med 2011; 124: 69).
Lo studio è stato condotto su 4954 soggetti di 40 anni in media, esenti da diabete e da ESNA, dal 2003 al 2008. È stato osservato che 644 soggetti (13%) hanno sviluppato ESNA in questo periodo. I soggetti con elevati livelli insulinemici all’inizio dello studio e che hanno mantenuto elevati questi livelli nel corso dei 5 anni di controllo, hanno mostrato un significativo aumento di rischio di ESNA, a confronto con i soggetti con bassi livelli di insulinemia all’inizio dello studio e mantenuti bassi nel corso dei 5 anni di controllo. Inoltre il rischio di ESNA è aumentato nei soggetti che hanno presentato aumento dei livelli insulinemici nel corso del controllo, anche dopo correzione dei risultati secondo l’indice di massa corporea e il livello insulinemico a digiuno all’inizio dello studio.
Nell’interpretare questi risultati, gli autori ricordano che l’iperinsulinemia provoca aumento di acidi grassi liberi che sono captati dal fegato con produzione di trigliceridi e di steatosi epatica, dando luogo a una lipogenesi epatica de novo attraverso la sovraregolazione dei fattori di transcrizione lipogenica, con attivazione di citochine profibrotiche, come il fattore di accrescimento del connettivo. Un’iperinsulinemia persistente per oltre 5 anni può causare un continuo afflusso di acidi grassi liberi al fegato esponendolo a un ambiente “lipotossico”, provocando danno epatico da stress ossidativo e infiammazione. Gli autori sottolineano l’importanza delle variazioni del livello insulinemico, nel corso del controllo, che sono correlate al rischio di ESNA, inducendo a ritenere che queste variazioni possano esplicare di per sé effetti dannosi in rapporto allo sviluppo di ESNA; ciò fa sperare che l’insulinoresistenza potrebbe essere corretta in questi soggetti riducendo il rischio di ESNA. A questo proposito sono citati i risultati recentemente ottenuti con la riduzione del peso corporeo e con farmaci che accrescono la sensibilità all’insulina ( Angulo P. Current best treatment for non-alcoholic fatty liver disease. Expert Opin Pharmacother 2004; 4: 611).



L’azoto ureico
quale marcatore prognostico nella pancreatite acuta
La pancreatite acuta (PA) è una causa frequente di ricovero ospedaliero ed è noto che sebbene nella maggioranza dei casi si tratti di una malattia lieve ed autolimitantesi, in oltre il 20% dei pazienti il decorso è grave e financo mortale. In questa eventualità si richiede che nelle prime 24 o 48 ore di ricovero si proceda alla valutazione del paziente per attuare quei mezzi di vigoroso recupero di liquidi nel trattamento iniziale. Molti sistemi di punteggio e molti biomarcatori sono stati proposti per questa valutazione, ma nessuno è stato incluso nella pratica di routine in queste condizioni, sebbene il punteggio APACHE II (Acute Physiology and Chronic Health Enquiry II) sia stato consigliato nella valutazione dei pazienti con PA ( Larvin M, Mac Mahon J. APACHE-II score for assessment and monitoring of acute pancreatitis. Lancet 1989, 2: 201).
Nella valutazione prognostica di pazienti con PA sono stati presi in esame l’ematocrito e il livello dell’azoto ureico del sangue (BUN, nell’acronimo d’uso internazionale: “blood urea nitrogen”) ed è stato osservato che la misura in serie del BUN è più precisa della misura dell’ematocrito per prevedere precocemente la mortalità (Wu BU, Johannes RS, Sun X, Cibekk DL, Banks PA. Early changes in blood urea nitrogen predict mortality in acute pancreatitis. Am J Gastroenterol 2009; 137: 129).
Uno studio condotto in tre Centri ospedalieri su 1043 pazienti con PA ha avuto per scopo quello di valutare clinicamente il decorso di una PA in base a misure in serie di BUN, studiando il valore di questo marcatore quale precoce fattore di rischio di mortalità e, inoltre, di proporre un algoritmo basato sui cambiamenti iniziali del livello di BUN per guidare i medici nella risuscitazione dei pazienti (Wu BU, Bakker OJ, Papachristou GI, et al. Blood urea nitrogen in the early assessment of acute pancreatitis. An international validation study. Arch Intern Med 2011; 171: 669).
È stato confermato che un alto livello di BUN al momento del ricovero e un aumento di questo livello durante le prime 24 ore sono due indipendenti fattori di rischio di mortalità per PA. Gli autori affermano inoltre che la misura in serie del BUN ha un’accuratezza pari al più complesso punteggio APACHE-II. Hanno incorporato l’iniziale cambiamento dei valori di BUN in un algoritmo basato su questi cambiamenti, ritenendo che forniscano utili informazioni nel corso dell’iniziale trattamento della PA.
Le modificazioni iniziali del BUN nel corso della PA possono riflettere una deplezione del volume intravascolare oppure essere secondarie a un danno della funzione renale o anche a contemporanea emorragia gastrointestinale. A questo proposito viene ricordato che nei pazienti con PA è relativamente frequente un’insufficienza renale.
È stato rilevato che nei pazienti con un elevato valore di BUN al momento del ricovero (> 20 mg/dL) una riduzione di tale valore di almeno 5 mg/dL entro 24 ore si associa a ridotto rischio di mortalità, mentre un aumento anche minimo (≥ 2 mg/dL) si associa ad aumento del rischio di mortalità.