Libri: recensioni

Il cuore, o miei cari, ricordatelo bene,
il cuore vuol sempre la parte sua
nelle operazioni dell’intelletto
Vincenzo Monti
Il camice, la mente e il cuore
Luigi Rainero Fassati è stato ordinario di Chirurgia e direttore del Dipartimento dei Trapianti al Policlinico di Milano. Oltre ad essere illustre medico, egli è anche un notevole letterato. Ha esordito, oltre trent’anni or sono, con il romanzo “Avanti un altro”, cui sono seguiti, tutti editi da Longanesi, “Fermo, non respiri”, “Dalla testa ai piedi”, “Una vita per l’altra”, “Medici”, “Goccia a goccia”, “A cuore aperto”. Di questi due ultimi titoli (1997 e 2008), la nostra rivista ha avuto modo, a suo tempo, di sottolineare i pregi [1998, 89(4): 213; 2008, 99(12): 626]. Da poche settimane è in libreria una ottava creatura di Fassati: Gli incerti battiti del cuore. (202 pagine, Longanesi, euro 16,60. ISBN 978-88-304-3086-0), silloge di storie brevi, cimento nuovo per il nostro, il quale, anche a fronte di questa diversa forma del narrare, non manca di confermare il suo talento. Fu di Tabucchi la distinzione – felice – tra romanziere/proprietario e narratore/locatario: per dire che il racconto è cimento da modi e tempi contingentati, i quali, se erronei, tradiscono sollecitamente l’amalgama. È perciò che in esso la calibratura della metafora – l’allegoria – è stata, fin dalle origini, sinonimo di nobiltà narrativa. Ha scritto, di recente, Paolo Foschini: «Come il salto triplo dell’acrobata, l’opera breve ci lascia a bocca aperta perché, quando riesce, possiede il fascino di un gioco di prestigio». E ci ha regalato una serie di esempi. Un racconto in non più di sei parole? È l’Hemingway di: «For sale baby shoes, never worm» («Vendonsi scarpe per neonato, mai usate») e, ancor prima, è il guatemalteco Augusto Monterroso: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì». Infine, un brivido e un sorriso. Il primo, thriller-lampo di Stephen King: «L’ultimo uomo rimasto sulla terra è chiuso nella stanza. Bussano». Il secondo, un sorriso di Achille Campanile: «Il pensatore dice “L’ippopotamo è un animale del tutto inutile nel creato” e la femmina dell’ippopotamo gli risponde “Lo dice lei”».
Una simile felice agilità espressiva è nutrita, in Fassati, da un retroterra di profonda umanità. Esso ispira e correla le otto storie che costituiscono il contenuto del libro, promuovendolo a testimonianza di un’avventura esistenziale, che, nell’intreccio tra clinica e bioetica, trova spunti e vigore per interpellare intelletto e coscienza. Da qui, anche, la chiave di lettura per il titolo che non a caso richiama quello del romanzo precedente (“A cuore aperto”): per sottolineare una valenza metaforica più che una attenzione clinica; cuore come radice di emozioni e sentimenti, sede di quell’empatia e apertura al dialogo che sono presupposti per avvicinare e comprendere fragilità e sofferenze, fiducia e delusioni: di persone, e non di soli corpi. Ne dà prova, ogni giorno, il protagonista del romanzo, il dottor Gianni Landi, che condivide con i suoi pazienti situazioni drammatiche a confronto con temi cruciali: l’accanimento terapeutico nel caso di Bepi, un pittore che ha trovato un rifugio letale tra le nebbie dell’alcol; l’eutanasia in quello di Luca, designer colpito da una grave sindrome degenerativa; i rimedi poco ortodossi praticati da uno specialista sopra le righe, nella storia di Giulio. È l’ospedale è anche il luogo dove molti amori nascono e altri finiscono, come il rapporto di Landi con Ginevra, una giovane paziente, o la toccante storia tra l’infermiera Marilena e il medico Danilo che la abbandona quando lei si ammala.



Il risultato complessivo attinge una sistemica polifonia, con richiami ricorrenti ed efficacia di riflessi.
L’occhio e l’ascolto di Landi/Fassati si configurano come ambiti prioritari su cui concentrare le risorse del prendersi cura dell’altro, di una condivisione di vissuti, di parole e silenzi, di gesti e di inerzie, di desideri e rinunce. Disegnano un luogo elettivo di “compassione”. È la capacità di patire-con, di condividere, attitudine esemplarmente interpretata anche dal Nobel Kenzaburo Oe, là dove scrive: «Io interpreto il termine compassione come la capacità spontanea ed insieme voluta di cogliere quanto alberga nell’animo della persona che ci sta di fronte. Il significato di questa parola me ne riporta alla mente un’altra, “immaginazione”… Solo l’immaginazione può farci sentire il dolore di un altro.» Di un “altro” – vuole dirci Fassati – che ci è vicino e di cui anche noi abbiamo bisogno. Ce ne offre esempio giustappunto l’immaginazione di un grande poeta, Eugenio Montale: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/e ora che non ci sei/è il vuoto ad ogni gradino», versi che ci ricordano come l’operatore sanitario, o chiunque si appresti a prendersi cura di una persona, possa guardare con occhi nuovi il proprio servizio assistenziale e trovare nella persona bisognosa di aiuto il senso e lo scopo del proprio agire. L’assistito diventa a sua volta una fonte di dono per l’operatore. La malattia, infatti, non è soltanto un vulnus biologico, bensì un evento biografico, un’entità complessa che fornisce informazioni – ed esige ascolto e risposte – culturali e sociali. La nuova prova narrativa di Rainero Fassati ne ribadisce il fondamento: la necessità di riconoscere valore e dignità alla vita in qualsiasi condizione si trovi.
Tale riconoscimento, nell’agire di chi si prende cura dell’altro implica uno stato d’animo opposto a quella che tradizionalmente viene considerato la dote di un buon osservatore (medico/narratore): impassibile, neutrale, sicuro di sé, teso a nascondere le proprie reazioni. Egli deve invece imparare qualcosa di nuovo che lo spiazzi dalle proprie certezze (ecco “gli incerti battiti del cuore”!) e gli consenta di dialogare. In tal modo stabilirà rapporti di rispetto e apprendimento che rappresentano il presupposto della condivisione necessaria per realizzare insieme (al malato, al lettore) una reciproca oblazione.
Ancora una volta, Fassati fa bene tutte e due i mestieri: il medico e lo scrittore. Come un suo grande predecessore – Anton ČCˇechov –, potrebbe, a buon titolo, definire sua sposa la medicina e sua amante­­ la letteratura. Galileiano per formazione e professionalità, tuttavia troppo soffrirebbe l’esilio delle categorie da sempre linfa della parola figurata: l’arte e la letteratura; medico-scrittore, gli è congeniale la versatilità, perché una vita trascorsa in ospedale abitua ad uno sguardo mobile ed interrogativo su uno scenario di innumeri immagini, persone  e sentimenti, continuamente variabili e spesso imprevedibili: flash sulla complessità della natura umana. E come afferma Kundera (nell’“Arte del romanzo”), «cogliere tale complessità esige una tecnica dell’ellisse, della condensazione: la necessità di andare dritti al nocciolo della vicenda». Così coniugando, a buon fine, la riflessione di Umberto Eco secondo cui «l’educazione al fato ed alla morte è una delle funzioni principali della letteratura». Che, per un medico, è una proposta importante: un invito alla frequentazione dei paradigmi che segnano la vicenda dell’uomo e che dimensionano l’ottica dell’onnipotenza, riconducendo il sapere al confronto attivo con la legge morale. Tale interazione tra tecnica ed etica, più in generale tra scienza e valori umani, va recuperata ed incoraggiata nella pratica clinica onde sanare una dicotomia che ha radici antiche. Le informazioni tecniche contribuiscono, infatti, a conoscere e a trattare le malattie, ma questo non è sufficiente, perché i clinici devono, in primis, conoscere e trattare i malati. Si ricordi l’esortazione di Osler: «Un medico ha bisogno di cultura umanistica come della scienza. Egli può avere la scienza di Harvey e l’arte di Sydenham, eppure gli possono mancare quelle qualità del cuore e della mente che tanto contano nella vita». È forse un caso che gli itinera del medico e del narratore procedano – ambedue – lungo i passaggi canonici della ricerca, della parola e dell’incontro (con l’ammalato/con il lettore)? Uno studio di qualche anno fa ha proposto di interpretare letteratura e medicina quale discorso critico ove il linguaggio viene utilizzato, ad un tempo, come strumento e finalità: nel senso di vigilare e calmierare il disordine del reale, impedendogli di rapprendersi in quelle forme parassitarie che minano l’individuo e le comunità (il deficit, la patologia). È questo discorso critico una risorsa idonea a suggerir risposte che, affrancate dalla tutela delle certezze, accettino la sfida della possibilità. Così che il medico, nell’incontro con il malato, eserciti quell’esprit de finesse auspicato dal Saussure a proposito del saper leggere: sia più “liseur” che “lecteur”, quest’ultimo essendo fruitore onnivore e fatalmente dispersivo di segnali e di segni, là dove l’altro – il liseur – è utente/operatore selettivo ed economo; nel senso che non è importante tanto sapere connettersi, quanto, saper connettere tout court: cioè saper cogliere la misura in cui io – “questo” lettore (il medico) – sono capace di interpretare “questo” messaggio (il malato).
In conclusione: una educazione del medico nel campo delle scienze umane non è da intendersi come un ornamento per anime belle. Può contribuire, piuttosto, ad una rivalutazione del pensare nei confronti del solo calcolare. Nel pensiero che calcola, a differenza del pensiero che pensa, non c’è salvezza.

Cecilia Bruno
Cinema e psicopatologia
Nelle prime righe della prefazione, gli Autori Danny Wedding, Mary Ann Boyd, Ryan M. Niemiec dichiarano di aver scritto Movies and mental illness. Using films to understand psychopathology  (338 pag., Hogrefe Publishing, Cambridge, USA, 2010, III ed., dollari 34,95. ISBN 978-0-88937-371-6) perché convinti sia dell’utilità didattica dei film in tema di psicopatologia, sia per gusto di cinefili. Sull’appropriatezza di tale assunto abbiamo convenuto in occasione della precedente edizione, le cui qualità sono state implementate nella presente stesura, in cui la trattazione è estesa anche a problematiche correlate alla malattia psichiatrica: come il ritardo mentale, l’abuso e la violenza sessuale. Ne è risultato un repertorio esauriente, pure in virtù dell’aggiornamento: un centinaio di nuovi film lo hanno arricchito non soltanto quantitativamente: utile, infatti, è l’aggiunta di alcuni esempi di disordini mentali quali la sindrome di Asperger, la tricotillomania, i disturbi fattizi e le meteoropatie. Così come apprezzabile risulta la riconsiderazione di certi paradigmi clinici di varie patologie: si veda, per tutte, quella del protagonista di “Non è un paese per vecchi”, una revisione che può aiutare lo studente a meglio comprendere l’assenza di rimorso che caratterizza la personalità antisociale.
Ulteriori perfezionamenti sono da segnalare: un indice analitico dettagliato sagacemente, tale da consentire il rapido rimando al paragrafo di testo connesso al film scelto a modello; un’appendice di ben 90 pagine contenente riassunti di tutti i film citati nel testo (divisi a seconda delle patologie di riferimento); una classifica di merito artistico e pedagogico (a giudizio degli Autori) di 10 titoli scelti in ogni categoria; infine, la “coraggiosa” – unica – indicazione bibliografica a conclusione di ciascun capitolo; una sola voce di rimando/pilota o ad articolo di rivista o a monografia.
Ciascun capitolo è introdotto da un caso clinico “costruito” secondo i canoni del Mini-Mental State Examination, che rinvia peculiarmente al personaggio del film selezionato per la discussione. Le diagnosi riflettono ipotesi autoriali, non fatti, in quanto – giova ripeterlo – i casi sono disegnati ad hoc per suscitare idee, provocare dibattito, stimolare apprendimento. Tale primo approccio didattico – nel libro e durante il corso universitario svolto dagli AA – potrà (e dovrà, come viene fortemente consigliato) essere integrato e sviluppato dai discenti, rivedendo e ripensando il film-paradigma in sede domestica o in cineteca.




L’opera ha, dunque, qualità sufficienti per essere diffusa ed apprezzata nelle Facoltà di Medicina. Ma è, soprattutto, la finalità di fondo, il valore euristico del disegno culturale che, a parer nostro, oggi, conviene sottolineare con compiacimento. L’esigenza di far comprendere le potenzialità positive del cinema (di storie narrate) a quanti intraprendono, anche nel nostro Paese, iniziative di formazione orientate al superamento di una versione di medicina ipertecnologica, meramente iatrotecnica e dunque sempre più incapace di fondarsi sull’umanistico dialogo tra medico e paziente. Un’alleanza profonda, reale, tendenzialmente paritaria tra medici e pazienti può costituire il perno di una resistenza vincente sulla deriva della medicina verso orizzonti insostenibili e disumanizzanti (Bert). Tale alleanza non può che prendere avvio dalla valorizzazione di un fatto comprensibile all’interno di un approccio “narrativo” alla medicina: l’incontro di medico e malato è prima di tutto l’incontro tra due persone e tra due storie. «La medicina è una disciplina che si colloca – e qui sta tutta la sua profondità culturale, in passato orientativa anche degli sviluppi delle altre scienze nonché della stessa filosofia – tra scienze umane e scienze esatte. Le prime sono fondate sul pensiero narrativo, sul saper narrare e soprattutto saper ascoltare storie; le seconde sul pensiero logico-analitico, statistico e così via» (Beccastrini). «Narrare storie e usare i numeri sono le due caratteristiche dell’umano pensare, che hanno permesso lo sviluppo del nostro diventare qualcosa di straordinariamente innovativo nella vicenda evolutiva della vita sul pianeta». La medicina deve tenere assieme queste due forme basilari di pensiero (ciò significa apprendere a richiamarsi complementarmente alla medicina basata sull’evidenza e alla medicina basata sulla narrazione). Poiché negli ultimi decenni la seconda forma (quella analitico-numerica) ha finito col tendere a soffocare la prima (quella umanistico-narrativa), occorre riscoprire, o meglio valorizzare in modo nuovo, anche quest’ultima. La vita del medico come quella del paziente, è fatta non soltanto di numeri ma anche di storie: soltanto imparare a narrarle e ascoltarle aiuta a dare un senso alla vita stessa. Per imparare a farlo – ha scritto ancora Stefano Beccastrini – i medici possono usare anche il cinema, che è il più vasto archivio di storie che l’umanità si va raccontando da un secolo a questa parte. Il libro aspira a essere strumento proficuo di quest’uso. E ci riesce in buona misura.

Alice Morgan