Recenti studi
sulla microematuria isolata



Una persistente isolata ematuria microscopica asintomatica è un frequente reperto incidentale nel corso di esami di routine in bambini, adolescenti e giovani adulti (
Cohen RA, Brown RS. Microscopic hematuria. N Engl J Med 2003; 348: 2330).
La definizione di ematuria microscopica varia da 2 a 10 eritrociti per campo microscopico a forte ingrandimento. Come noto, si tratta o di un reperto isolato associato ad altre anomalie renali o della parte di una condizione sistemica; può essere transitorio o persistente. In genere questo reperto viene evidenziato mediante strisce reattive (“dipstick”).
Al momento attuale, non è ben chiarito fino a qual punto questa popolazione giovane con ematuria microscopica asintomatica e persistente debba essere valutata (Kelly JD, Fawcett DP, Golberg LC. Assessment and management of non-visible hematuria in primary care. BMJ 2009; 338: 3021) e frequentemente l’origine dell’ematuria rimane sconosciuta e viene posta diagnosi di ematuria di origine ignota; pertanto mancano dati sull’esito a lungo termine di questa condizione, dando luogo a controversie sulla valutazione appropriata, sul trattamento e sulla prognosi, in particolare sul rischio di malattia renale terminale.
Vivante et al hanno condotto uno studio retrospettivo basato su una vasta popolazione, per valutare il rischio di malattia renale terminale in adolescenti e giovani adulti con ematuria microscopica asintomatica isolata (Vivante A, Afek A, Frenkel-Nir Y, et al. Persistent asymptomatic isolated microspic hematuria in Israeli adolescents and young adults and risk of end-stage renal disease. JAMA 2011; 306: 729).
Gli autori hanno controllato 1.203.626 reclute israeliane presentatesi al servizio militare in Israele (60% di sesso maschile) tra il 1975 e il 1997, riscontrando una microematuria isolata asintomatica persistente in 3690 soggetti (prevalenza annuale 0,3% con variazione da 0,1 a 0,5%).
I criteri diagnostici per microematuria persistente asintomatica isolata sono stati: 1) cinque o più eritrociti per campo microscopico a forte ingrandimento in 3 separate occasioni e, nelle donne, a distanza dalle mestruazioni, 2) creatininemia normale, 3) assenza di anomalie agli esami radiologici renali, 4) assenza di note o probabili malattie, 5) ulteriore valutazione e conferma della diagnosi di microematuria isolata da parte di un nefrologo.
È stato rilevato che la microematuria era più frequente nei maschi rispetto alle femmine 6,4% versus 0,2%; durante lo studio, 565 partecipanti hanno presentato una malattia renale trattata, per un’incidenza complessiva di 2,15 per 100.000 persone/anno.
Gli autori ritengono che il risultato di questa indagine confermi che una microematuria asintomatica, isolata e persistente, si associ nettamente con l’incidenza di malattia renale terminale e che questo risultato sia indipendente da potenziali fattori confondenti di rischio quali età, sesso, luogo di origine, indice di massa corporea e pressione arteriosa. Pertanto una persistente microematuria asintomatica in adolescenti e giovani adulti può rappresentare un importante fattore di rischio di futura malattia renale terminale, attribuibile principalmente a danno glomerulare.
La disponibilità di una numerosa popolazione da esaminare ha consentito agli autori di stabilire la prevalenza di una persistente asintomatica e isolata microematuria negli adolescenti e nei giovani adulti. Questo valore si colloca nei limiti inferiori delle prevalenze riportate nella letteratura (Cohen et al. loc cit), probabilmente perché gli autori hanno escluso la microematuria dovuta a urolitiasi ed a malformazioni renali. È stata rilevata una predominanza di maschi nella loro casistica; ciò è in accordo con la segnalata predominanza maschile nella nefropatia IgA e nella nefrite ereditaria, contrariamente alla predominanza femminile segnalata nella nefropatia con membrana basale sottile.
Nel concludere, gli autori precisano che il loro studio non è diretto a valutare l’efficacia di uno screening di massa della microematuria nei bambini e nei giovani adulti. Tuttavia i casi individuati in giovane età all’inizio di una malattia renale indicano la necessità di futuri studi controllati rivolti a valutare l’utilità di uno screening di massa per migliorare il decorso di soggetti con microematuria.
L’emoglobina glicosilata
quale marcatore prognostico
nell’infarto miocardico
nei non diabetici
Studi recenti hanno segnalato che aumentati livelli di emoglobina glicosilata (HbA1c), oltre a indicare un’alterazione del metabolismo glicidico, sono predittivi di malattie cardiovascolari e di mortalità in soggetti non diabetici, indipendentemente dai livelli glicemici a digiuno (Selvin E, Steffes MW, Zhu H, et al. Glycated hemoglobin, diabetes and cardiovascular risk in nondiabetic adults. N Engl J Med 2010; 362: 800).
In un recente studio è stato valutato l’impatto prognostico, sia del livello di HbA1c al momento del ricovero in ospedale, sia del livello glicemico in una popolazione di pazienti senza diabete mellito noto, trattata con intervento coronarico percutaneo (PCI) per infarto miocardico con elevazione del tratto ST (STEMI) (Timmer JR, Hoekstra M, Nijstem MWN, et al. Prognostic value of admission glycosylated hemoglobin and glucose in nondiabetic patients with ST-segment-elevation myocardial infarction treated with percutaneous coronary intervention. Circulation 2011; 124: 704). Si è osservato che nei pazienti con STEMI senza diabete mellito sono associate a mortalità le anomalie, di breve o di lunga durata, del controllo dell’equilibrio glicidico.
Pertanto la misura dei livelli di HbA1c nei soggetti non diabetici può migliorare la valutazione del rischio in pazienti che presentano STEMI acuto.



Secondo gli autori, molti fattori possono avere un ruolo nell’associazione tra livello di HbA
1c e rischio cardiovascolare in questi pazienti. Si può ritenere che almeno parte dell’associazione tra anomalie prolungate del controllo glicidico e rischio cardiovascolare sia dovuta allo stesso complesso meccanismo responsabile dell’associazione tra diabete mellito clinicamente conclamato e malattie cardiovascolari. È, infatti, noto che l’aumentato rischio di coronariopatie non è limitato ai pazienti con diabete, ma riguarda anche soggetti con alterata glicemia a digiuno, alterata tolleranza glicidica e vari stati di insulinoresistenza. Gli autori hanno rilevato che nella loro casistica questi fattori continuano ad avere un ruolo negativo dopo che la cardiopatia è divenuta conclamata. Tenendo presente l’aumento dei soggetti con anomalie del controllo glicidico e susseguenti sequele cardiovascolari, dovranno, dunque, essere studiati programmi terapeutici adeguati per queste condizioni che possono modificare la prognosi, anche se i beneficî di rallentamento della progressione verso un diabete clinicamente conclamato sono, al momento attuale, ancora da chiarire. I risultati degli interventi acuti sul metabolismo glicidico di pazienti con sindromi coronariche acute sono stati, infatti, deludenti così da rendere necessari ulteriori studi clinici controllati.
Per quanto concerne la mortalità, gli autori hanno osservato che l’iperglicemia è risultata nettamente associata ad aumento nei pazienti con STEMI. È stato rilevato che i pazienti con più elevati livelli glicemici soffrivano di infarti di maggior gravità e meno frequentemente presentavano, all’iniziale esame angiografico, pervietà dei vasi correlati all’area infartuata; questi pazienti, inoltre, avevano più spesso necessità di sostegno emodinamico intra-aortico, in rapporto a un più grave stress emodinamico causato da deficit di pompa; infatti, dopo correzione dei parametri emodinamici (pressione, frequenza cardiaca e quadro angiografico), il livello glicidico risultava non più associato alla mortalità a lungo termine.
I pazienti con aumento del livello di HbA1c presentavano una più elevata prevalenza di precedenti cardiopatie e di disfunzione renale, ma non un aumento delle dimensioni dell’infarto, né avevano necessità di maggiore supporto meccanico. Gli autori ritengono che i meccanismi del livello glicemico e del livello di HbA1c possono essere, almeno parzialmente, indipendenti uno dall’altro.
È interessante notare che quando dalla casistica sono stati tolti i soggetti deceduti entro 30 giorni dall’ingresso in ospedale, il livello glicemico ha perduto l’associazione con la mortalità, mentre il livello di HbA1c è rimasto netto predittore di futuro obitus. Secondo gli autori, ciò probabilmente riflette lo stress acuto di pazienti emodinamicamente instabili con alti livelli glicemici a confronto con il più generale aumento di rischio cardiovascolare associato ad aumento di HbA1c.
Si conclude che, oltre a fornire utili informazioni prognostiche, il controllo ripetuto del livello di HbA1c nei pazienti con STEMI può consentire di identificare i pazienti con diabete mellito subclinico e non noto oppure i soggetti ad aumentato rischio di manifestare in futuro un diabete clinicamente conclamato.
Nel commentare i risultati di questo studio, Aguilar (Aguilar D. Glycated hemoglobin as a prognostic risk marker in nondiabetic patients after acute myocardial infarction. What now? Circulation 2011; 124: 666) ricorda la gravità dell’attuale pandemia dell’insulinoresistenza e del diabete mellito, pandemia che continua ad estendersi e che è costituita da pazienti diabetici e da prediabetici diagnosticati in base ad aumentata glicemia a digiuno e aumento dell’emoglobina glicata (HbA1c). L’autore rileva che, sebbene in questo studio si sia tenuto conto di eventuali fattori confondenti atti ad influenzare il rischio a lungo termine, possono persistere alcuni dei molti vari fattori confondenti associati all’HbA1c, come colesterolo HDL, adiposità centrale, grave ipertensione, aumento di marcatori infiammatori; hanno, inoltre, importanza disordini del turn-over degli eritrociti, malattie renali, differenze etniche e fattori genetici (Dagogo-Jack S. Pitfalls in the use of Hba(c) as a diagnostic test: the ethnic conundrum. Nat Rev Endocrinol 2010; 6: 589).
Inoltre, la misura dell’HbA1c presenta alcuni vantaggi, come la non necessità del digiuno ed è un marcatore dell’equilibrio glicemico a lungo termine meno influenzato da condizioni di stress acuto. Si osserva tuttavia che, sebbene HbA1c sia uno specifico marcatore della presenza di diabete mellito, esso  ha una sensibilità minore per la diagnosi di diabete rispetto alla curva di tolleranza glicidica orale (Alson DE, Rhee MK, Herrick K, et al. Screening for diabetes and pre-diabetes with proposed A1c-based diagnostic criteria. Diabetes Care 2010; 33: 2184), e ciò potrebbe condurre a sottostimare la presenza di diabete.
Tuttavia l’autore ritiene che lo studio di Timmer et al (loc cit) abbia dimostrato che HbA1c è un efficiente marcatore di rischio dopo infarto miocardico acuto in pazienti che non presentano una storia di diabete. A questo punto si domanda se nei pazienti sopravvissuti a un infarto acuto e con livello di HbA1c aumentato siano da prendere misure preventive (terapia antipiastrinica, controllo della pressione, modificazioni delle abitudini di vita, riabilitazione cardiaca, etc).
Su questo problema i risultati non sono concordanti. Recenti studi clinici hanno indicato che lo stretto controllo di HbA1c in pazienti con diabete di tipo 2 e ad alto rischio cardiovascolare, sebbene riduca – oltre ai livelli di HbA1c – anche la percentuale di infarto miocardico non fatale, non riduce la mortalità cardiovascolare e la mortalità totale.



Probabilmente, secondo l’autore, un più precoce intervento terapeutico, come nei diabetici di prima diagnosi, potrebbe dare risultati migliori.
Queste incertezze, che tuttora persistono, giustificano ulteriori, estesi studi controllati.
Diuretici dell’ansa
e livello sierico di azoto ureico
I diuretici dell’ansa sono da tempo adoperati per controllare i sintomi della congestione nell’insufficienza cardiaca. (Hunt SA, Abraham WT, Chin MH, et al. 2009 Focused update incorporated into the ACC/AHA 2005 guidelines for the diagnosis and management of heart failure in adults: a report of the American College of Cardiology Foundation/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. J Am Coll Cardiol 2009; 53: e1).
È noto che questi farmaci sono efficaci nel mantenere l’euvolemia; tuttavia possono provocare una significativa attivazione neuro-ormonale. Recenti studi hanno infatti segnalato che una determinata dose di diuretico dell’ansa può contribuire sia a un miglioramento che a un peggioramento della sopravvivenza in rapporto all’effetto decongestionante o, all’opposto, in rapporto all’attivazione neurormonale. Pertanto, a motivo della notevole variabilità del fenotipo dell’insufficienza cardiaca e della risposta ai diuretici dell’ansa, la dose che può determinare effetti tossici è in rapporto alla fisiopatologia renale, cardiaca e neurormonale del singolo paziente.
In un recente studio è stata valutata l’interazione tra livello sierico dell’azoto ureico (BUN, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “blood urea nitrogen”) e rischio di mortalità associato ad alte dosi di diuretici dell’ansa (Testani JM, Cappola TP, Bresinger CM, et al. Interaction between loop diuretic-associated mortality and blood urea nitrogen concentration in chronic heart failure. J Am Coll Cardiol 2011; 58: 375).
È stata osservata una netta interazione tra livello sierico di BUN e rischio di mortalità nei pazienti trattati con alte dosi (≥160 mg pro die). Tuttavia, dopo attento controllo di fattori confondenti (emoglobina, filtrato glomerulare, natriemia, uricemia, pressione arteriosa sistolica, frazione di eiezione ventricolare sinistra, età, risultato dell’esame obiettivo, diabete, ipertensione, coronaropatie) questa associazione non è risultata evidente.
È stato tuttavia osservato che nei pazienti con livello di BUN al di sopra della media l’uso di alte dosi di diuretici dell’ansa era associato a un significativo aumento della mortalità, associazione che persisteva anche dopo valutazione delle caratteristiche fisiopatologiche del paziente. Per contro, i pazienti con livello di BUN sotto i valori medi presentavano un’associazione significativa con una sopravvivenza addirittura prolungata all’analisi multivariata.
Secondo gli autori, ciò significherebbe che il BUN è una variabile che va di pari passo con l’attivazione neurormonale nel rene e può identificare i pazienti che possono presentare effetti neurormonali avversi a seguito di alte dosi di diuretici dell’ansa.
Si ricorda a questo proposito che nel rene la macula densa regola la secrezione di renina controllando il contenuto di cloruro di sodio del tubulo. Infatti l’ingresso di cloruro di sodio nelle cellule è facilitato dal cotrasportatore sodio-potassio/2-cloruro che costituisce il principale bersaglio dei diuretici dell’ansa. Pertanto questi diuretici producono aumento di liberazione di renina e della conseguente attività neurormonale.
Sono citati gli studi sull’attivazione neurormonale documentata sia acutamente che cronicamente nell’uomo, sottolineando che, in condizioni sperimentali, i diuretici dell’ansa hanno prodotto una più rapida progressione di disfunzione ventricolare sinistra. Malgrado ciò, l’esperienza clinica ha indicato che la risposta a una determinata dose di diuretico dell’ansa costituisce un fenomeno individuale. Infatti una stessa dose di diuretico dell’ansa può determinare un incremento di attività reninica plasmatica e di concentrazione di aldosterone in un soggetto, e una riduzione in un altro.
Analogamente alla creatinina, l’urea è liberamente filtrata attraverso il glomerulo, ma viene riassorbita dal tubulo e questo riassorbimento è strettamente dipendente dall’attivazione neurormonale, per cui il livello sierico del BUN rappresenta un valido marcatore degli effetti avversi dei diuretici dell’ansa.

Nel concludere, gli autori ritengono giustificati studi che valutino strategie terapeutiche basate sul controllo del livello sierico del BUN o di altri più diretti marcatori dell’attivazione neuroumorale e nuovi metodi decongestionanti, come ultrafiltrazione intermittente, oppure l’uso di diuretici risparmiatori di potassio al fine di ridurre le dosi di diuretici dell’ansa e mantenere l’euvolemia.
Attuali problemi
sulla cardiomiopatia dilatativa idiopatica
La cardiomiopatia dilatativa idiopatica (CMDI) è una delle più importanti cause di insufficienza cardiaca sistolica e delle più frequenti cause di insufficienza cardiaca nei giovani avviati al trapianto cardiaco; la prevalenza della CMDI è di 36 casi per 100.000. Si ritiene che la patogenesi della  CMDI sia infiammatoria, nonostante che la biopsia endomiocardica abbia dimostrato un’infiammazione soltanto in un modesto numero di pazienti (Cooper LT, Virmani R, Chapman NM, et al. National Institutes of Health-sponsored workshop on inflammation and immunity in dilated cardiomyopathy. Mayo Clinic Proc 2006; 81: 199). Sia nella CMDI di recente insorgenza che nel sottogruppo di pazienti con miocardite cellulare, il trattamento immunomodulatorio non si è dimostrato efficace (Mason JW, O’Connell JB, Henkowitz A, et al. A clinical trial of immunosuppressive therapy for myocarditis. N Engl J Med 1995; 333: 269).



In un recente studio si è cercato di determinare i fattori predittivi di natura clinica e demografica del decorso e della prognosi di questa condizione sotto l’effetto della terapia (
McNamara DM, Starling RC, Cooper LT, et al. Clinical and demographic predictors of outcomes of recent onset dilated cardiomyopathy. J Am Coll Cardiol 2011; 58: 1112).
Sono stati studiati 373 soggetti di età media di 45±14 anni, 38% femmine, 21% di etnia nera, arruolati nel Intervention in Myocarditis and Acute Cardiomyopathy-2 Study (IMAC), con frazione di eiezione ventricolare sinistra ridotta (≤0,40) e con meno di 6 mesi di durata della sintomatologia compatibile per una CMDI; il controllo è durato quattro anni.
Gli autori hanno constatato il notevole miglioramento della funzione ventricolare sinistra nella maggioranza dei soggetti studiati dopo i primi 6 mesi di controllo; è stato inoltre osservato un miglioramento della prognosi con una sopravvivenza a 4 anni, esente da trapianto cardiaco, nell’88% dei casi.
Gli autori confermano la natura dinamica della CMDI di recente insorgenza, rilevando che il 25% dei pazienti studiati hanno normalizzato la frazione di eiezione ventricolare sinistra, analogamente a quanto segnalato in precedenti studi. Tuttavia la percentuale dei pazienti che hanno mostrato un minore miglioramento della funzione ventricolare sinistra è aumentata da un terzo nelle indagini precedenti a circa il 70% dei casi nello studio attuale. Questo aumento può essere dovuto alla estensione dello studio. Gli Autori ricordano che una patogenesi infiammatoria è ritenuta la causa principale della cardiomiopatia nei pazienti nei quali il processo di guarigione è correlato alla risoluzione dell’infiammazione. A questo proposito viene sottolineato che, in questa condizione, l’infiammazione miocardica può essere considerata un potenziale marcatore di reversibilità del processo e che la risonanza magnetica può essere più efficace della biopsia endomiocardica per delineare una reversibile miocardite infiammatoria.
Inoltre, secondo gli autori, un ruolo importante nella valutazione iniziale della CMDI ha il controllo del diametro tele-diastolico del ventricolo sinistro; nella loro casistica una sua più ridotta dimensione è un indice di reversibilità della patologia miocardica e di previsione di guarigione.
Concludendo, gli autori ritengono che l’attuale trattamento dell’insufficienza cardiaca ha consentito di modificare la storia naturale della CMDI di recente insorgenza: da una condizione rapidamente progressiva a una condizione suscettibile di trattamento con una prognosi più favorevole. Pertanto il riconoscimento di un potenziale miglioramento consente al clinico di valutare il decorso iniziale della malattia per determinare le possibilità di guarigione, prima di ricorrere a terapie avanzate come il trapianto cardiaco. Tuttavia, nonostante il riconoscimento di una migliorata prognosi, rimangono i problemi concernenti la variabilità del decorso della CMDI, problemi che richiedono ulteriori studi controllati.