Il corretto inquadramento diagnostico fornisce le basi razionali per una appropriata terapia delle sindromi mielodisplastiche
Fabrizio Pane1

Riassunto. Le sindromi mielodispastiche sono attualmente classificate secondo i criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e la valutazione del rischio richiede un’accurata e approfondita valutazione dei fattori prognostici in modo da adattare lo schema terapeutico all’età del paziente, alle sue comorbilità e alle aspettative. Un’elevata percentuale di pazienti con mielodisplasia non è elegibile a trattamenti intensivi potenzialmente eradicanti in relazione all’età e/o alla presenza di rilevanti comorbilità. Per questi pazienti, è ora disponibile una serie di nuovi farmaci il cui uso deve essere guidato dall’identificazione di marcatori prognostici di tipo cromosomico e genetici della malattia.

Parole chiave. Analisi molecolare, appropriatezza terapeutica, caratterizzazione citogenetica.

Complete diagnostic work-up provides the rational basis for the most appropriate therapy of myelodysplastic syndromes.

Summary. Myelodysplastic syndromes are now classified according to the 2008 World Health Organization criteria. An accurate risk assessment requires a keen evaluation of disease-related factors to adapt treatment to patients age, expectations and comorbidities. A high proportion of MDS patients are not eligible for potentially curative and consequently intensive treatment because of advanced age and/or clinically relevant comorbidities and poor performance status. In these patients, a number of new agents are available or being developed but their use should be carefully guided by the chromosomal and genetic determinant of the disease.

Key words. Cytogenetic characterization, molecular analysis, therapeutic appropriateness.

Introduzione
L’appropriato e completo uso degli strumenti diagnostici attualmente disponibili, ed in particolare dell’indagine citogenetica, oltre alla sua ovvia importanza nell’inquadramento diagnostico delle mielodisplasie secondo i criteri della classificazione WHO 20081, ha ormai assunto un importante ruolo nel garantire l’appropriatezza dell’uso dei vari farmaci biologici come i fattori di crescita, i farmaci demetilanti e la lenalidomide. Le sindromi mielodisplastiche (SMD) sono un gruppo molto eterogeneo di emopatie neoplastiche caratterizzate da una progressiva inefficacia dell’emopoiesi midollare2. La probabilità di evoluzione in leucemia acuta di tipo mieloide è significativa, anche se la causa più frequente di morte nei pazienti è costituita dagli effetti dell’insufficienza midollare più che dalla trasformazione leucemica. Sono patologie tipiche dell’anziano: l’età mediana alla diagnosi dei pazienti è poco meno di 70 anni ed è rara la diagnosi prima dei 50 anni. La prevalenza è stimata in circa 5 nuovi casi/anno per 100.000 nella popolazione generale, ma sale a 20-50 nuovi casi/anno per 100.000 se si considera solo la popolazione degli ultrasessantenni 3. La stima attuale è, quindi, di 3000 nuove diagnosi di mielodisplasia ogni anno in Italia, ma con il crescere dell’età media della popolazione da un lato, e il miglioramento del trattamento di queste patologie dall’altro, il numero dei soggetti affetti da mielodisplasia è destinato a crescere progressivamente nel tempo, andando così a rappresentare un problema non solo medico ma anche sociale, considerata l’età avanzata dei pazienti.
Negli ultimi anni lo scenario clinico è radicalmente mutato per la disponibilità di nuovi farmaci, come gli immunomodulatori e gli agenti demetilanti, in grado di modificare in modo significativo la storia naturale della malattia almeno in alcune categorie di malati, all’affinamento delle tecniche di trattamento intensivo (la chemioterapia mieloablativa e il trapianto da donatore allogenico di cellule staminali emopoietiche) e alle recenti acquisizioni sulla patogenesi molecolare di queste patologie. La strategia di trattamento ottimale per le varie sottocategorie di pazienti è quindi diventata progressivamente sempre più articolata e complessa e l’appropriatezza dei trattamenti strettamente dipendente dal corretto inquadramento del tipo di mielodisplasia, del suo rischio evolutivo ma anche dall’età e dalla “fitness” del paziente. L’attuale percorso diagnostico delle mielodisplasie deve pertanto comprendere in aggiunta, ma non in sostituzione, alla tradizionale osservazione al microscopio una serie di indagini sofisticate che comprende tecniche di citofluorimetria e metodi per l’analisi cromosomica e per lo studio delle alterazioni geniche. L’insieme di indagini diagnostiche raccomandato da un panel di esperti dell’European LeukemiaNet per l’inquadramento diagnostico delle mielodisplasie è elencato nella tabella 1 4. È interessante sottolineare che l’elenco comprende la raccomandazione di effettuare, oltre che il conteggio dei blasti e la valutazione del grado di displasia delle cellule del sangue e del midollo emopoietico, anche la conta dei sideroblasti ad anello, che impiega l’indagine citochimica con la colorazione al blu di Prussia (colorazione di Perls) per l’identificazione degli accumuli di ferro intracellulare. La diagnosi di mielodisplasia può infatti essere difficile nei casi con citopenia lieve e morfologia delle cellule del sangue non chiaramente displastica, e in quelli in cui l’analisi cariotipica delle cellule midollari risulti non informativa o non identifichi la presenza di alterazioni cromosomiche clonali. La ricerca di sideroblasti ad anello, insieme alla conta delle cellule blastiche eventualmente presenti, costituisce quindi, nei pazienti in cui i criteri morfologici di displasia sono molto sfumati, un importante criterio diagnostico. In tal senso le mielodisplasie costituiscono l’unico esempio di patologia emopoietica di tipo neoplastico in cui un’indagine citochimica (la colorazione di Perls) è ancora considerata indispensabile (tabella 1). Sarebbe pertanto auspicabile, nel prossimo futuro, arrivare a una validazione di robusti criteri citofluorimetrici per una più accurata diagnosi di mielodisplasia nei casi di citopenia refrattaria con displasia unilineare 5.
L’insieme delle tecniche diagnostiche inizia comunque ad assumere un peso crescente nell’assicurare ai pazienti la strategia di terapia più appropriata per le caratteristiche della malattia, come illustrato in questo lavoro.



Il cariotipo normale e la risposta alla terapia con eritropoietina
In più della metà dei casi, i pazienti con mielodisplasia non mostrano alterazioni genetiche evidenziabili a un’analisi cariotipica con tradizionale bandeggio cromosomico4. In uno studio condotto su 2801 pazienti con analisi citogenetica valutabile di un gruppo di 2902 pazienti affetti da mielodisplasia o da leucemia acuta mieloide pauciblastica secondaria a mielodisplasia, i pazienti con cariotipo normale erano 1543 (55,1%)6. I pazienti valutati nello studio avevano ricevuto solo terapia di supporto, e il principale obiettivo era quello di identificare categorie omogenee di rischio basate sulle anomalie citogenetiche utilizzando come end-point la probabilità di sopravvivenza totale e la probabilità di evoluzione in leucemia acuta mieloide6. Nello studio, gli autori identificano 5 categorie di rischio citogenetico, di cui quella standard comprendeva oltre al cariotipo normale anche la delezione del5q e le più rare delezioni del12q e del20q ed era sicuramente quella più numerosa, arrivando a rappresentare il 65% dell’intera casistica. Oltre a essere un parametro di grande importanza prognostica, l’analisi citogenetica ha anche importanza per identificare i pazienti che hanno la più alta probabilità di rispondere alla terapia con agenti stimolanti l’eritropoiesi (eritropoietina). Numerosi studi indicano che il cariotipo normale è un importante indicatore di probabilità di risposta alla terapia con eritropoietina. Il dato, già segnalato in uno studio condotto in una singola istituzione 7, è stato poi confermato in uno studio multicentrico condotto dal Groupe Francophone des Myélodysplasies (GFM), in cui la risposta all’eritropoietina era correlata oltre che al livello di eritropoietina endogena (<200 UI/L), all’indipendenza dalle trasfusioni e alla bassa conta dei blasti (<10%), anche al cariotipo normale e più estensivamente alle categorie dell’International Prognostic Scoring System (IPSS) basso e intermedio-1 (costituite per lo più da pazienti con cariotipo normale) 8. In uno studio molto recente, il dato viene ulteriormente confermato utilizzando la classificazione R-IPSS9. In tal modo, l’analisi citogenetica e l’identificazione del cariotipo normale costituiscono oggi uno stimolo addizionale per continuare a insistere con la terapia a base di eritropoietina nei pazienti che presentano una tardiva risposta a questo trattamento.
Impatto prognostico della classificazione genetica nei pazienti a bassi rischio
Se considerata al momento della diagnosi, si stima che la maggioranza dei pazienti con mielodisplasia sia classificata tra quella a basso rischio secondo la classificazione IPSS10. Questi pazienti, a differenza di quelli a più alto rischio (IPSS intermedio-2 e alto rischio), generalmente trattati con agenti ipometilanti o valutati per la possibilità di sottoporsi a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche, ricevono usualmente trattamenti meno intensivi o sono semplicemente oggetto di attenta e periodica osservazione. È chiaro che la possibilità di riconoscere tra essi quelli che hanno una maggiore propensione alla progressione ha una notevole rilevanza pratica per elaborare trattamenti più appropriati al rischio individuale di progressione della malattia. A tal proposito, è stato recentemente dimostrato che nei pazienti a rischio basso o intermedio-1, la presenza di uno specifico set di mutazioni indica una maggiore aggressività della patologia e la conseguente necessità di sovraclassificare il rischio rispetto a quello stabilito con i parametri dell’IPSS. Lo studio, condotto in una coorte di pazienti di 288 a rischio basso o intermedio-1, prevedeva la ricerca di mutazioni in un set di 22 geni scelti tra quelli che sono frequentemente mutati nei pazienti con SMD e che codificano per proteine implicate nei meccanismi di regolazione epigenetica dell’espressione genica, nella regolazione dello splicing o di altri importanti processi di cellulari 11. I risultati dimostravano che le mutazioni di 4 geni (ASXL1, RUNX1, TP53 e EZH2) erano indicatori indipendenti di cattiva prognosi, e che le mutazioni di EZH2 continuavano a mantenere una significativa importanza prognostica anche quando nel modello erano inseriti alcuni parametri clinici non previsti nell’IPSS, come i livelli di piastrinopenia (lieve vs grave) e l’età dei pazienti. Pertanto, la ricerca delle mutazioni di un limitato numero di geni (o anche di un singolo gene) può portare a identificare il sottogruppo dei pazienti classificati come a basso rischio alla diagnosi e che per la più elevata probabilità di progressione devono essere considerati elegibili a trattamenti più intensivi.
Indici di probabilità di risposta agli agenti demetilanti
La notevole efficacia del trattamento dei due agenti demetilanti analoghi delle pirimidine, la 5-azacitidina e la decitabina, è stata dimostrata sin dall’inizio degli anni 2000, e confermata successivamente in numerosi trial clinici. Un trial randomizzato di fase 3 che ha arruolato 358 pazienti a rischio IPSS intermedio-2 o alto12, in cui la terapia con 5-azacitidina era comparata a un regime di trattamento di tipo convenzionale che includeva, a scelta dello sperimentatore, terapia di supporto, citosina arabinoside a basse dosi o chemioterapia intensiva, ha recentemente dimostrato che la sopravvivenza a 2 anni dei pazienti trattati con 5-azacitidina (dose di 75 mg/m2/die per 7 giorni ogni 28) era doppia rispetto a quella dei pazienti del braccio di controllo dello studio (50,8% vs 26,2%). È importante notare che la terapia con 5-azacitidina si dimostrava efficace nello stesso studio anche per ritardare l’evoluzione a leucemia mieloide acuta secondaria, con una mediana di tempo alla trasformazione di 17,8 mesi nel gruppo di pazienti che ricevevano la 5-azacitidina vs 11,5 mesi nel braccio di trattamento convenzionale12. Uno studio più recente indicava che una percentuale di blasti midollari superiore al 15%, il pretrattamento con citosina arabinoside a basse dosi e il cariotipo complesso sono i fattori di rischio per l’assenza di risposta al trattamento con 5-azacitidina, di cui quest’ultimo è quello che si associa alla più bassa probabilità di risposta13. La risposta alla terapia è stata stimata nei vari studi intorno al 50% ed è più elevata per la 5-azacitidina rispetto alla decitabina4. Alcuni studi individuano inoltre, come marcatori molecolari di risposta agli agenti demetilanti, la presenza di mutazioni di geni implicati nei processi della regolazione epigenetica dell’espressione genica14,15.
Conclusioni
Emerge in modo sempre più significativo che la complessità del quadro morfologico e clinico e la probabilità di risposta al trattamento delle SMD sono determinate dal complesso delle alterazioni molecolari identificabili nel clone neoplastico dei pazienti. L’affinamento delle tecniche di studio del cariotipo ha portato a un notevole miglioramento nella comprensione e stratificazione del significato prognostico delle alterazioni citogenetiche, consentendo di superare i limiti della classificazione di rischio secondo il punteggio IPSS in cui non veniva correttamente “pesato” e inquadrato il valore prognostico delle alterazioni complesse e quelle sfavorevoli, come la delezione parziale o completa del cromosoma 7 6. Questi dati sono ora utilizzati per la revisione dei criteri di rischio nella nuova classificazione R-IPSS16. Il più corretto inquadramento del valore prognostico delle alterazioni citogenetiche, insieme alla recente dimostrazione che le alterazione citogenetiche mantengono un più elevato valore predittivo nel tempo rispetto agli indici prognostici basati sui dati clinici17, ha fornito la base razionale per un uso più appropriato dei farmaci attualmente utilizzati nella terapia delle SMD.
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