L’accesso alle terapie oncologiche: il costo è un problema che ci riguarda

Umberto Tirelli1

E-mail: utirelli@cro.it
www.umbertotirelli.it


Access to cancer care: the cost of treatment matters.


Summary. The approval of new antiviral agents and the wide-ranging costs of ophthalmic therapies with comparable efficacy have renewed the debate over the cost-effectiveness of novel drugs. In oncology, more expensive treatments do not always substantially change the outcome of the disease, but they merely prolong life expectancy by a few weeks even at the cost of significant side effects. Treatment costs are a key factor the physician should consider when sharing care decisions with the patient. In addition, fund allocation for purchasing high cost medications results in limited investment in clinical research and human resources – doctors, nurses and other healthcare staff – that play a central role in patient care. Regulatory agencies should be more demanding, reimbursing pharmaceutical companies on the basis of treatment outcome.



Una svolta epocale è in atto nella terapia di una delle malattie infettive più diffuse e a maggiore impatto sulla sopravvivenza quale è l’epatite C. Una terapia orale semplice da somministrare, di breve durata e con effetti collaterali minimi è in grado di eliminare in quasi il 100% dei casi questa infezione che porta spesso a epatite cronica, cirrosi e tumori, con necessità di trapianti o di terapie non così efficaci come il sofosbuvir (Sovaldi®) e comunque gravate da effetti collaterali importanti. Soltanto in Italia vi sono un milione di persone affette da epatite C mentre in Europa sono diverse decine di milioni. Purtroppo il costo è alto1 e, nonostante molti Paesi non possano sopportare l’impatto economico di $ 84.000 per 12 settimane di terapia, i vantaggi sulla sanità sono evidenti in quanto vi è una riduzione di costi per trattamenti successivi in relazione alle patologie croniche associate all’epatite C, oltre che alla riduzione della mortalità dei pazienti affetti da questa patologia.

Il tutto ricorda quello che è avvenuto nell’infezione da HIV, con la differenza che nell’epatite C la cura è definitiva dopo tre mesi di trattamento mentre nell’infezione da HIV la terapia è cronica e non vi è una guarigione dalla malattia, con costi molto elevati nel tempo, ma con vantaggi sull’eliminazione delle malattie causate dall’immunodeficienza associata all’HIV. Nell’HIV va anche considerato il costo di farmaci utilizzati per molti anni e che sono sempre più costosi; in entrambi i casi si tratta comunque di un grande successo della ricerca farmacologica che ha contrastato in maniera molto efficace due patologie che hanno portato e stanno ancora portando a morte milioni di persone nel mondo.

Il caso Avastin®-Lucentis® utilizzabile nella degenerazione maculare, pur nel successo del controllo di questa malattia, ha portato alla ribalta il problema del costo dei farmaci oncologici. È, a mio parere, inaccettabile che un farmaco in grado di prolungare soltanto di qualche settimana o di qualche mese la vita dei pazienti costi cifre elevatissime come se si trattasse di una terapia risolutiva. Molti sono i farmaci al mondo che hanno un costo assai elevato e che garantiscono maggiore redditività alle industrie farmaceutiche. Tra questi, il rituximab, l’Avastin® e l’Herceptin® hanno reso rispettivamente a livello mondiale, soltanto nel 2013, 7 miliardi e 503 milioni di dollari, 6 miliardi e 751 milioni di dollari e 6 miliardi e 562 milioni di dollari2.

Il problema del costo delle terapie oncologiche preoccupa ed è sempre più rilevante in un periodo di crisi economica, problema che va assolutamente affrontato da tutti gli attori in campo (autorità regolatorie, industrie farmaceutiche, medici)3. Innanzitutto, occorre riconoscere che i progressi conseguiti dall’industria farmaceutica hanno portato al controllo di diverse malattie come quelle prima citate e a un allungamento della speranza di vita dei pazienti per molte patologie oncologiche; d’altra parte, stiamo registrando un aumento esorbitante della spesa, spesso non giustificato dai benefici reali che certi medicinali hanno sui pazienti e comunque difficilmente sostenibile, come da molti riconosciuto. Considerando, inoltre, che nei prossimi anni avremo certamente un aumento di determinate patologie a causa dell’invecchiamento della popolazione, i costi sarebbero ulteriormente destinati ad aumentare se mantenessimo gli stessi criteri di oggi per l’approvazione dei medicinali. Ad Aviano, su un budget di 85 milioni di euro all’anno comprensivo di tutte le spese, vengono utilizzati 20 milioni di euro per i farmaci, e un terzo di questa spesa è assorbito da tre farmaci, uno dei quali è proprio l’Avastin® impiegato nei tumori del colon-retto, della mammella e del polmone, con vantaggi non sempre giustificati dall’elevato costo della terapia.




Serve un’assunzione generale di responsabilità: con una coperta delle risorse sempre più corta, aumentare la spesa farmaceutica vorrebbe dire tagliare sui costi per il personale e gli investimenti per la ricerca, entrambe scelte autolesionistiche. Il costo rilevante dei farmaci che usiamo nelle malattie oncologiche più frequenti e spesso in seconda e terza linea, con vantaggi limitati e spesso con peggioramento della qualità della vita dei pazienti, ha portato l’American Society of Clinical Oncology (ASCO) a intervenire sollecitando l’astensione dai trattamenti in certe fasi della malattia o comunque dopo trattamenti precedenti che sono falliti. Inoltre, l’ASCO sta elaborando un algoritmo per determinare il valore relativo dei farmaci, focalizzandosi in primo luogo sulle terapie dei casi di malattia avanzata del polmone e della prostata e per il mieloma multiplo. La task force che sta sviluppando il sistema sta pensando di presentarlo per il pubblico commento tra qualche mese. Infatti, il prezzo di molti regimi oncologici negli Stati Uniti raggiunge i 10.000 dollari/mese e il costo è spesso a carico dei pazienti; anche per questa ragione, gli oncologi statunitensi vogliono comunicare le implicazioni mediche ed economiche ai malati così che possano essere assunte decisioni informate, valutando vantaggi e svantaggi di trattamenti costosissimi (non si può non pensare, a questo riguardo, come molte famiglie di pazienti vivano conseguenze economiche devastanti, al punto di dover vendere le proprie case per sostenere il costo dei medicinali non coperti dalle assicurazioni).

Nel gennaio 2006, con Gilberto de Castro dell’Università di San Paolo in Brasile e Ahmad Awada dell’Ospedale Bordet di Bruxelles, abbiamo segnalato tra i primi su Lancet Oncology4 il problema del costo dei farmaci biologici. Sostenevamo che una negoziazione da parte delle autorità regolatrici con le industrie farmaceutiche avrebbe migliorato l’accesso a questi farmaci costosi da parte di tutti i pazienti anche europei che oggi sono esclusi a causa dei costi troppo elevati. Ma chi bisogna sensibilizzare per questo problema? In primis, le autorità regolatorie nazionali e internazionali del farmaco che dovrebbero valutare molto più attentamente il rapporto costo/beneficio prima di approvare un nuovo medicinale e definirne il prezzo. Per esempio, sono assolutamente da rivalutare i criteri di analisi degli studi abbandonando gli end-point surrogati, alle volte non validati, quali la sopravvivenza libera da progressione, sopravvivenza libera da malattia, sopravvivenza libera da recidiva o il tasso di risposta. Come giustamente rilevato da Paolo Bruzzi dell’Unità di Epidemiologia Clinica e Sperimentazioni dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova, in un intervento ripreso proprio su Recenti Progressi in Medicina del febbraio 20145, vi sono diverse anomalie negli studi che portano alla registrazione dei farmaci: per esempio, disegnare trial sovradimensionati rispetto alla necessità di dimostrare un beneficio clinicamente rilevante, scegliere esiti più efficienti dal punto di vista statistico adottando end-point surrogati quali quelli sopraindicati e infine utilizzare il cross-over alla progressione, così da escludere di conoscere se il trattamento sperimentale ha un effettivo vantaggio sulla sopravvivenza globale perché tutti i pazienti prima o poi hanno assunto il nuovo trattamento. È necessario, come dice Paolo Bruzzi, alzare il “livello dell’asticella” di efficacia richiesta per l’approvazione di un farmaco, oltre la quale si concretizza un vantaggio concreto, tangibile per il paziente. Inoltre, ogni volta che ci troviamo di fronte a un nuovo farmaco approvato devono essere chiaramente illustrati i reali benefici che esso può apportare, senza dimenticare le tossicità, spesso non chiaramente indicate. Soprattutto, sarebbe sempre necessario specificare – dopo la frase “vi è stato un miglioramento della sopravvivenza” – anche di che tipo di sopravvivenza si tratta, quantificando il vantaggio.




Spesso, nel promuovere un prodotto, si trasmette al paziente, ai familiari o all’opinione pubblica l’impressione che la nuova terapia offra una soluzione definitiva al problema o comunque di grande impatto, anche quando i vantaggi reali non sono rilevanti e si limitano a un aumento di poche settimane o mesi di vita. I medici hanno una grande responsabilità perché, pur seguendo le linee-guida sulla sicurezza, qualità e appropriatezza delle terapie, devono valutare quando sia veramente necessario ricorrere a un farmaco, usando ragionevolezza e buon senso. Non possiamo pensare che il problema dei costi non ci riguardi. Qualsiasi decisione relativa alla spesa ha implicazioni rilevanti anche sulla stessa qualità globale dell’assistenza. Infatti, una più elevata spesa per i farmaci porta a una riduzione delle risorse per il personale di ricerca e per il personale clinico per la gestione della malattia.

Quali potrebbero essere le soluzioni? Avevamo proposto anni fa di dividere i farmaci biologici6 – che sono i più costosi – in due gruppi. Da una parte gli imatinib-like drugs, cioè farmaci in grado di guarire o migliorare significativamente la sopravvivenza dei pazienti con la leucemia mieloide cronica o con il GIST, o quelli come il rituximab o il trastuzumab che – usati nel trattamento di certi linfomi e di determinati tumori della mammella – hanno un notevole impatto sulla sopravvivenza. Dall’altra, i medicinali usati per esempio nel trattamento del cancro del polmone e dei tumori gastroenterici che hanno un impatto medio-basso sulla sopravvivenza, spesso limitato ad alcuni mesi. Ovviamente, il costo dei farmaci inclusi nei due gruppi non dovrebbe essere equivalente come oggi succede. Una simile proposta è stata recentemente formulata anche negli Stati Uniti3.

Occorre, inoltre, ricordare che, a causa del costo elevato, molti cittadini europei sono discriminati perché i loro Paesi non possono rimborsare alcuni prodotti. Le aziende farmaceutiche potrebbero ridurre il costo dei farmaci estendendone così l’accesso a più pazienti in Europa. Va anche ricordato che, se è vero che soltanto un principio attivo su mille studiato dall’industria viene registrato – con un forte impatto sui costi della ricerca –, le spese per la promozione restano molto rilevanti e potrebbero essere ridotte. A iniziare dai troppi convegni macroscopicamente sponsorizzati dall’industria e ripetuti in maniera eccessivamente frequente. Congressi, tra l’altro, dove non si discute mai del costo-beneficio della terapia presentata e dell’impatto sul budget dei nostri ospedali e istituti di ricerca.

Infine, accanto alla problematica dei costi, vi è il problema della carenza periodica dei farmaci, il cosiddetto “shortage” che affligge da una decina di anni molti Paesi industrializzati: non solo gli Stati Uniti, dove è stato per la prima volta denunciato, ma anche in Australia, in Canada e i tanti altri Paesi compresa l’Italia, senza che nessuno – neanche il presidente Obama – sia riuscito a intervenire con efficacia. Negli Stati Uniti si calcola che il 70%7 degli ospedali pubblici denunci la carenza periodica di oltre 15 farmaci nei sei mesi precedenti. Non si tratta solo di farmaci oncologici, ma anche di antidolorifici, antibiotici, cardiologici, ecc. La motivazione che viene addotta dall’industria riconduce il fenomeno a problemi nella produzione dei farmaci, ma si può ben pensare che l’origine sia piuttosto nel prezzo troppo basso di molti di questi medicinali che li rende quindi non più convenienti per il produttore. Alcuni di questi farmaci sono invece insostituibili e la mancata disponibilità può portare al ritardo nell’erogazione di cure potenzialmente risolutive. L’AIFA e gli oncologi collaborano da anni per contenere il costo dei farmaci oncologici, ma evidentemente con scarso successo. Va detto, comunque, che il cost-sharing, il risk-sharing e il payment by results sono stati introdotti ormai da 10 anni e comportano un possibile “sconto” e il pagamento della terapia biologica solo quando si ottiene un risultato. È una via che va percorsa con più determinazione rispetto a oggi, alleggerita dalla burocrazia che ne rende difficile l’applicazione.

Bibliografia

1. Hoofnagle JH, Sherker AH. Therapy for hepatitis C. The cost of success. N Engl J Med 2014; 370: 1552-3.

2. Kollewe J. World’s 10 bestselling prescription drugs made $75bn last year. The Guardian 27 marzo 2014, http://www.theguardian.com/business/2014/mar/27/bestselling-prescription-drugs

3. Kantarjian HM, Fojo T, Mathisen M, Zwelling LA. Cancer drugs in the United Stated: justum pretium - the just price. J Clin Oncol 2013; 31: 3600-4.

4. Tirelli U, de Castro G Jr, Awada A. Keynote comment: reimbursement for molecularly targeted anticancer agents. Lancet Oncol 2006; 7: 2-3.

5. Bruzzi P. Trasparenza: lezioni di disegno. Recenti Prog Medicina 2014; 105: 46-7.

6. Tirelli U, Berretta M, Bearz A, Carbone A. Grouping of molecularly targeted anti-cancer agents based on cost-effectiveness analysis. Eur Rev Med Pharmacol Sci 2011; 15: 1355-6.

7. Szabo L. Drug shortages endanger cancer patients, study finds. USA TODAY 3 Giugno 2013, http://www.usatoday.com/story/news/nation/2013/06/03/drug-shortages-cancer-patients/2382597/