Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Cosa fare e cosa non fare per comunicare la ricerca?

Nell’atto del comunicare vanno tenute chiaramente presenti alcune regole generali. Le ha sintetizzate Annamaria Testa, una delle figure più conosciute della comunicazione pubblicitaria internazionale in una sessione della Riunione annuale 2014 della Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane. Ecco le principali:

1) ogni volta che si comunica si devono effettuare delle scelte di efficacia in quanto l’eccesso di informazione crea “rumore”;

2) si comunica avendo sempre in mente il destinatario e quindi calibrando il livello e la densità della comunicazione non su quello che noi vogliamo dire ma sulle competenze e sulla capacità del destinatario di accogliere pezzi di informazioni;

3) tutta la parte che non è costituita da parole ma da grafica e immagine è quella che prima di tutto ci cattura, in quanto non parla alla nostra parte razionale – che codifica invece le parole – ma si rivolge alla nostra parte intuitiva, istintiva.

La nostra percezione del mondo e il nostro modo di decodificarlo sono molto complicati, il nostro cervello lo fa in frammenti infinitesimali di secondo mettendo assieme ciò che sappiamo, ciò che sentiamo, ciò che abbiamo imparato, le esperienze passate, e i dati di contesto, che sono fondamentali: le stesse identiche parole inserite in contesti diversi e in cornici diverse o accompagnate da immagini diverse infatti cambiano fortemente il loro significato.

Tutte le volte che ci proponiamo di comunicare facciamo un atto deliberato, a partire da alcune informazioni, da un obiettivo di trasmissione di contenuti, da un pubblico specifico a cui ci rivolgiamo. C’è pertanto una progettualità nel comunicare con l’intento di volersi far capire; se si vuole comunicare per raggiungere un obiettivo è necessario partire da alcuni interrogativi fondamentali: per chi sto comunicando? quali sono le sue competenze? quali sono le cose che devono arrivare a destinazione? quali sono le strade emotive che si possono utilizzare o da cui al contrario tenersi distanti per fare arrivare determinati contenuti? È un processo complicato che viene affrontato ogni qual volta si comunica, specie quando lo si fa in un ambito e relativamente ad una materia ad altissimo contenuto fattuale e ad altissima intensità emotiva come quelli inerenti la medicina, la scienza e la salute.




Il tema della persuasione è cruciale in ambito di comunicazione ed è particolarmente pertinente quando l’interlocutore ha una forte idea preconcetta, rafforzata da luoghi comuni magari consolidati dai social media. Anna Maria Testa si rifà proprio all’arte della persuasione per rispondere al quesito su come l’esperto/lo scienziato può comunicare la scienza e l’evidenza scientifica al pubblico avendo la meglio sul luogo comune e sull’opinione/convincimento fondato esclusivamente sulla componente emotiva.

D’altronde, ha proseguito Annamaria Testa, i pregiudizi sono spesso un fattore identitario e chi li ha tende a mantenerli proprio perché parte della propria identità.




Se si vuole cercare di persuadere (ossia fare in modo che l’interlocutore cambi spontaneamente opinione) si deve ricercare un territorio comune; e lo si può fare risalendo fino alle matrici di tutte le convinzioni. Non è attaccando d’istinto chi la pensa diversamente da noi che lo porteremo dalla nostra parte, al contrario si farà molta più fatica a persuaderlo perché si ritrarrà. È un lavoro lungo e difficile ma è l’unico che si può mettere in atto. Tutto ciò che è persuasione deve paradossalmente essere fatto in maniera delicata. Oltre alla “delicatezza”, la persuasione necessita anche di altre componenti. In ambito di comunicazione scientifica spesso quello che manca è sia una dose di empatia, sia una profonda attenzione ai livelli di complessità linguistica. L’assunto “se io lo capisco, gli altri lo capiscono” è profondamente errato. La comprensione linguistica di gran parte della popolazione è a livello elementare: il che significa che se il laureato con master conosce il significato di 80.000 parole, altri gestiscono il significato di sole 7.000 parole. Laddove utilizzo un linguaggio che risulta ostico se non incomprensibile, si sta comunicando molto semplicemente all’altro: “tu non capisci perché non sei all’altezza, non sei competente, non sei intelligente” e contestualmente “io non sono minimamente interessato a farmi capire da te e quindi non sono minimamente interessato a te”. Testa ha citato a questo proposito Paul Watzlawick per il quale ogni comunicazione ha una componente di contenuto incorniciata in una componente di relazione. Il fatto che la relazione suoni accettabile o meno decide del fatto che il contenuto sia preso almeno in considerazione e possibilmente accettato o meno.

La costante fatica di interrogarci rispetto a ciò che diciamo e a quanto l’altro capisce è una precondizione non solo per farsi capire ma anche per farsi dare ragione. Pertanto ancora una volta la comunicazione si conferma essere un fatto progettuale: dietro a qualsiasi atto comunicativo deve esserci un progetto.

Cosa fare o meglio cosa non fare quando va comunicato qualcosa di negativo in ambito di salute in assenza però di soluzioni e/o dati positivi? Si sta in contatto con il mondo attraverso gli organi di senso perché il mondo ci restituisce istantaneamente indicazioni utili a decidere cosa fare nell’istante immediatamente successivo. Specie quando la comunicazione è negativa, si deve accompagnare a qualcosa di minimamente positivo, qualcosa che possa essere considerato un kit di sopravvivenza. Se poi una comunicazione negativa se non addirittura ansiogena non serve a migliorare per niente lo stato della persona, né del contesto, né dell’ambiente, allora è il caso di domandarsi se abbia senso farla.

E circa il passato caso Di Bella e il recente caso Stamina, Annamaria Testa è andata al nocciolo della questione: nel momento in cui la realtà da gestire è drammatica (malattia senza cura, sofferenza senza soluzione) e non ci sembrano sufficienti le informazioni e gli strumenti a disposizione per reagire (quelli proposti dalla scienza), si è molto permeabili a qualsiasi promessa miracolosa, magica. Va inoltre tenuto a mente che per un medico un termine come “cellula staminale” ha un significato molto articolato (sa cosa sono, a cosa servono, ecc.)., mentre per un profano equivale ad un termine magico (ciò che forse fra vent’anni ci renderà giovani per sempre, servirà a rifarci gli organi, ecc.). Se si associa allora il termine magico alla realtà di una malattia drammatica è facile truffare le persone. Assisteremo a nuovi casi Di Bella o Stamina, perché esisterà sempre qualcuno che per disperazione accetterà l’abbraccio di qualche imbonitore.

“La fatica del presidio della logica, del buon senso, della correttezza non finisce mai. È come pulire la casa: bisogna farlo tutti i giorni”.

A cura di Manuela Baroncini

Comunicazione e ricerca: più che un matrimonio, una coppia di fatto

Quali difficoltà incontra la ricerca quando deve essere comunicata? Sicuramente quella di esser comprensibile ed empatica, pensante per intelligenza emotiva ha raccomandato Daniela Condorelli, giornalista, nel corso della tavola rotonda svolta durante la Riunione annuale della Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane. Deve essere capace di muoversi sul registro dell’incertezza ma anche traducibile in percorsi pratici. Deve essere indipendente, onesta e partecipata dai destinatari della comunicazione stessa: giornalisti, ricercatori e attivisti devono essere capaci di mettersi in gioco e scendere nelle piazze dei social network. E, non da ultimo, qualsiasi comunicazione deve fare affidamento sul potere delle immagini per riuscire a spiegare e a raccontare una storia attraverso una narrazione grafica.

“La sensazione quotidiana di ognuno di noi – ha sottolineato il giornalista Roberto Satolli - è che ci siano colli di bottiglia in cui finisce per strozzarsi un’efficace comunicazione, in particolare quando c’è di mezzo la salute e la medicina”. Abbiamo visto come la televisione ha fornito informazioni sul caso Stamina o come web e social media fanno da cassa di risonanza ai vari movimenti contro la sperimentazione animale, contro i vaccini, pro omeopatia: “cambiano i media, i canali, gli attori, ma la difficoltà rimane sempre la stessa: comunicare la ricerca in modo efficace”. Dialogare con persone che soffrono problemi di salute significa molto spesso dover imparare a comunicare l’incertezza, ha sottolineato la neurologa dell’Istituto Besta e ricercatrice del Network Italiano Cochrane Graziella Filippini. E va fatto cercando anche strumenti per accompagnare la comunicazione dell’incertezza con indicazioni su opzioni o percorsi alternativi.

In sostanza, per comunicare in modo efficace c’è bisogno di empatia. Ma c’è bisogno anche, con le parole di Daniela Condorelli, di “coniugare emotività della comunicazione e integrità della ricerca: i due estremi di questo rapporto difficile”.
A proposito di integrità, la comunicazione dovrebbe rispondere a due requisiti:

• “vera”, cioè sottoposta a una valutazione di qualità del risultato;

• “indipendente” da conflitti di interesse, quello dell’industria farmaceutica ad esempio, ma anche l’indipendente dal proprio interesse e dalla propria ideologia.




Una domanda cruciale è stata rivolta da Eugenio Santoro, informatico del Mario Negri: “i social media fanno bene o fanno male alla comunicazione della ricerca?” La ricerca resta la grande assente sui social media, mentre è lì che nasce il confronto, è lì che bisogna essere presenti, è lì che i movimenti della disinformazione agiscono. Quindi, per dirla con le parole di Davide Bennato, sociologo docente all’Università di Catania, “i ricercatori devono sporcarsi le mani” sforzandosi di confrontarsi nelle “piazze” dei social media, luoghi e canali di comunicazione da cui non è possibile prescindere. E non solo, secondo Condorelli: i giornalisti devono recuperare integrità, rigore e capacità di scandalizzarsi. Un atteggiamento che ci si dovrebbe attendere anche dalle società scientifiche. “Se esistessero davvero, dovrebbero farsi sentire”, ha spiegato Paolo Vercellini, ginecologo della Clinica Mangiagalli di Milano: “ogni volta che sono contattato per essere intervistato nella mia area di interesse il giornalista mi ha chiesto la ‘novità’; c’è sempre la ricerca di qualcosa che faccia colpo. Penso che le società scientifiche debbano prendere una posizione più rigorosa e assumersi il compito di una comunicazione ponderata e di buonsenso”.




Tutte le persone coinvolte, a vario titolo, nel processo di comunicazione hanno responsabilità e queste responsabilità vanno governate accettando il confronto anche in situazioni o ambienti all’apparenza scomodi, come i social media. Sbaglieremmo, ha sostenuto Davide Bennato, a credere che in rete prevalgano i protagonisti stravaganti o antagonisti, perché esiste una maggioranza di utenti disposta a dialogare in modo costruttivi. Ciononostante, sarebbe un errore credere che, perché partecipata, la Rete sia di per sé “democratica”: “il web non è democratico perché è la società a non esserlo”.

Concludendo, in questa relazione dialettica tra ricerca e comunicazione non mancano difficoltà quotidiane e la strada non è semplice. “Più che un matrimonio vero e proprio, sembra una coppia di fatto” si legge in uno dei numerosi tweet che hanno raccontato la Riunione. Come se poi, tra un matrimonio e una coppia di fatto, ci fosse una differenza sostanziale di qualche tipo.

A cura di Norina Di Blasio

L’aggiornamento scientifico evidence-based a portata di app

Nell’ambito della salute è in atto un profondo cambiamento culturale, caratterizzato dall’uso sempre più frequente di smartphone e tablet, che ha consentito lo sviluppo di nuove tecnologie in grado di rendere più fruibili le informazioni anche tramite i software scaricabili su smartphone (healthcare applications – apps).

La “mobile Health”, termine che fa riferimento all’uso di dispositivi di comunicazione mobile come smartphone e tablet per accedere a servizi e informazioni sulla salute, ad oggi comprende più di 10.000 apps disponibili ed è in costante e continua crescita. Una recente revisione sistematica sull’uso di tali applicazioni in campo medico (Mosa et al. 2012) descrive la loro applicabilità in diversi ambiti (diagnosi, uso di farmaci, calcolo di parametri clinici, percorsi di cura, consultazione della letteratura scientifica, gestione del paziente, formazione medica continua), evidenziandone le potenzialità per le diverse categorie di utenti (figura 1).




Tra le applicazioni considerate nello studio, gli autori prendono in esame quelle sviluppate, soprattutto dalla National Library of Medicine statunitense, per consentire un accesso rapido alla letteratura scientifica e favorire l’aggiornamento professionale.

Tale funzione viene offerta anche da singole riviste medico-scientifiche, sia di carattere generale, come il BMJ e il NEJM, sia specialistiche (ad esempio, Pediatrics, Circulation). Il BMJ, ad esempio, ha reso disponibile una propria versione in forma di app nel 2010 e già nel maggio 2012 il sito bmj.com ha registrato 101 218 accessi da cellulari e tablet (BMJ 2012;345:e4877).

Un ulteriore sviluppo in questo ambito potrebbe riguardare applicazioni che consentono al personale sanitario un aggiornamento su una determinata disciplina o un argomento clinico di interesse, attraverso l’accesso ad evidenze scientifiche provenienti da un set di riviste specialistiche, opportunamente selezionate. La creazione di una app con queste caratteristiche potrebbe rientrare tra i progetti futuri della Regione Lazio per ottimizzare l’uso delle risorse bibliografiche e promuovere una pratica clinica basata sulle evidenze. Tra questi progetti, il principale è rappresentato dalla realizzazione di una biblioteca medica virtuale, sulla scia di altre esperienze regionali avviate con successo negli ultimi anni.

Come nella programmazione di applicazioni da utilizzare nella pratica clinica quotidiana, il National Health Service inglese intende coinvolgere direttamente il personale sanitario lanciando l’iniziativa “Code4Health”, allo stesso modo lo sviluppo di una applicazione per un aggiornamento scientifico evidence-based dovrebbe prevedere il coinvolgimento di bibliotecari/documentaristi esperti di metodi per la ricerca bibliografica.

Bibliografia

Mosa AS1, Yoo I, Sheets L. A systematic review of healthcare applications for smartphones. BMC Med Inform Decis Mak. 2012 Jul 10;12:67. doi: 10.1186/1472-6947-12-67.

Hoeksma J. Turning doctors into coders. BMJ 2013;347:f514

A cura di Simona Vecchi
e Eliana Ferroni

Dipartimento di Epidemiologia
del Servizio Sanitario Regionale –
Regione Lazio