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Evidence based medicine: a movement in crisis? Questo il titolo di un articolo pubblicato sul BMJ il 13 giugno 2014. A distanza di poco più di due settimane, il contributo di Trisha Greenhalgh, Jeremy Howick e Neal Maskrey era stato aperto in full-text da 38.623 utenti del sito del settimanale inglese. Più di 5300 lettori avevano scaricato il file dell’articolo in pdf. Due grandi quotidiani come il New York Times e El Mundo avevano citato il lavoro. Su Facebook, 34 persone avevano postato la segnalazione nella propria bacheca. Su Twitter, 1699 tweet da 1436 diversi account avevano contribuito a tener vivo il confronto: solo uno su tre dalla Gran Bretagna, nel 10% dei casi dagli Stati Uniti, solo 8 dall’Italia. Circa il 60% dei tweet è stato effettuato da persone estranee al mondo scientifico e medico. È il settimo articolo più condiviso nella storia del BMJ.

Alla luce di questi risultati, bisognerebbe chiedere agli autori – che parlano a nome dell’Evidence Based Medicine Renaissance Group – se davvero pensano che la EBM attraversi un periodo di crisi. Trascorsi venti anni dal manifesto che ne decise la nascita, la medicina basata sulle prove è più viva che mai dopo un’adolescenza non facile in cui ha corso il rischio di chiudersi in se stessa.

Anzi, sembra oggi voler tornare a sottolineare i propri principi fondanti: considerare prioritaria la componente etica della cura al malato, personalizzare le decisioni assistenziali piuttosto che adottare regole universali, condividere le decisioni con il paziente attraverso il dialogo, rinsaldare la relazione tra il curante e il malato valorizzando gli aspetti umani della cura, applicare questi stessi principi a livello di salute comunitaria per promuovere una sanità pubblica ancorata alle evidenze scientifiche.

Recenti progressi prova ad andare in questa direzione, per esempio invitando alla lettura di un’originale rassegna sui bisogni spirituali nella cura ospedaliera (pagina 281) che sollecita maggiore rigore nella formazione e nella definizione/valutazione delle capacità di chi si trova a svolgere il difficile compito di sostenere la domanda di supporto religioso nelle strutture assistenziali. Così come proponendo il punto di vista del Gruppo di studio in bioetica e cure palliative della Società Italiana di Neurologia a proposito di diagnosi precoce o preclinica di malattia di Alzheimer (pagina 295). O, infine, suggerendo di leggere il commento di Stefania Rodella riguardo il dibattito sull’efficacia delle checklist in sala operatoria (pagina 271).

La raccomandazione vale per le checklist così come per la EBM: prima di dire che qualcosa è in crisi, converrebbe provarla davvero.

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