La giornata di un medico

Giuseppe Gristina1

A clinician’s journey.

Summary. Some patients may change the mind and life of doctors. These last ones don’t know when, where and how this meeting will happen, but when it takes place, doctors understand that their life will never be the same.

«We work in the dark – we do what we can – we give what we have.

Our doubt is our passion and our passion is our task.

The rest is the madness of art»

Henry James. The Middle Years, 1893

Successe più di venti anni orsono, prima dell’alba.

Un collega andò a parlare con i chirurghi. Non si trovò un accordo su come procedere. Le opinioni erano divergenti. Vi furono molte telefonate, furono richiesti altri esami di laboratorio.

Ancora parole. Poi una TC addominale testimoniò il peggio. Ma loro decisero ugualmente di aspettare, di inviare il paziente in terapia intensiva e aspettare.

Si trattava di un bimbo di cinque anni, ricoverato nel reparto di chirurgia tre giorni prima per probabile appendicite.

Quando la barella rotolò attraverso le porte della nostra terapia intensiva, era in franco shock settico.

Cinque minuti più tardi andò in arresto cardio-circolatorio.

Volai. Le mie mani compressero il piccolo torace con furia, costringendo tutta la mia energia a trasferirsi nel piccolo cuore esausto.

Durò quindici minuti, poi, ancora una volta, il tracciato ECG riapparve sul monitor, la pressione era quasi normale.

L’infermiera al mio fianco mi guardò in modo strano e disse che non mi aveva mai sentito imprecare durante una rianimazione cardio-polmonare.

Non ricordo di aver imprecato, ricordo invece molto bene un travolgente, diabolico imperativo di mantenere in vita il bambino.

Ed eccolo lì, ancora vivo, ancora a rischio di morire da un momento all’altro.

L’iniziale sollievo lasciò il posto a una prostrazione fisica e psichica; una sensazione di vuoto interiore che non avevo mai sperimentato.

Guardandomi negli occhi, l’infermiera fece un cenno verso la porta del reparto.

I genitori del ragazzo erano là fuori, in attesa di qualcuno che gli dicesse che il loro bambino stava meglio.

Non avevano la minima idea di quello che era accaduto mentre loro erano lì ad aspettare.

Li feci entrare e iniziai a parlargli.

Le parole che usai erano quelle di sempre, ripetute centinaia di volte in quella stessa stanza, ma scorrevano esitanti in quel momento, suonavano vuote.

Dissi loro che il bambino era giunto in terapia intensiva morente, che il suo cuore si era fermato, che eravamo riusciti a farlo ripartire, ma non c’era modo di prevedere cosa sarebbe successo di lì in avanti.

Le mani mi tremavano.

Il padre ascoltava come se la sua vita dipendesse da questo dialogo, cercando disperatamente di adattare quanto dicevo al ricordo dei giorni che lui, la moglie e il bimbo avevano trascorso in ospedale, in attesa, rassicurandosi tra loro che non vi era alcun pericolo reale.

D’altronde, se la situazione fosse stata così grave, sicuramente qualcuno avrebbe detto loro qualcosa, e fatto tutto il necessario per evitare qualsiasi complicazione.

Compresi che il padre si rendeva conto che avevo lottato per salvare la vita di suo figlio, e lo vidi aggrapparsi a quella consapevolezza.

Per la madre, non c’era conforto: ogni fibra del suo corpo era pervasa dal risentimento, dall’incredulità e dal dolore devastante che riempiva ormai la stanza.

Quando non ci furono più parole, tutti fissammo il pavimento illuminato dalle lame delle prime luci dell’alba che attraversavano la serranda abbassata.

Fu allora che mi sentii sopraffatto dall’onere soffocante della responsabilità e della vergogna per le cose che non erano state fatte, per le cose che non erano state dette, per la tragica serie di errori inesplicabili che avevano ridotto in pezzi quella famiglia nello spazio di quattro giorni.

Poche ore dopo, il bambino fu finalmente portato in sala operatoria dove fu chiaro che la sepsi e l’arresto cardio-circolatorio erano la conseguenza di un ascesso appendicolare che, perforandosi, aveva prodotto una peritonite purulenta.

Lo restituirono vivo ma ormai in coma.

Perché? Come si era arrivati a questo? Nessuno poteva sottrarsi a queste domande, tanto meno i genitori.

Il mio senso di colpa persisteva; anche se sapevo che era inadeguato, ingiustificato, fuori luogo, questa consapevolezza non riusciva a bilanciare la sua forza oppressiva.

Una settimana dopo, il bambino morì, silenziosamente. Il cuore rallentò pian piano fino a fermarsi.

Il direttore del reparto mi chiamò a casa.

I genitori del ragazzo volevano vedermi.

Andai a casa loro e trascorsi con loro alcune ore.

Erano svuotati, e c’era poco da dire, ma la mia presenza sembrò in qualche modo necessaria, un legame con il bambino, forse.

Il giorno successivo, per la prima volta, andai al funerale di un paziente che avevo trattato in terapia intensiva, ma la pesantezza che si era impossessata di me, anima e corpo, rifiutava di allentare la presa.

Nel mese di luglio, come un automa, lasciai Roma per la vacanza che avevo programmato sulle Dolomiti.

Giorno dopo giorno, scalavo le pareti rocciose respirando profondamente l’aria solenne e sottile; i miei pensieri immersi in niente più che mantenere la presa su quelle rocce.

Salii sulla cima del monte Tosa nelle Dolomiti di Brenta, e durante la discesa mi venne un’idea.

Tornare in autunno e aprire una nuova via di arrampicata su una parete di 150 metri di IV grado.

Il percorso sarebbe stato dedicato al bambino che non avevo salvato.

Ne discussi con la mia guida prima di ripartire per Roma e lui accettò.

Salimmo in ottobre.

L’ascesa fu estenuante e richiese grande impegno fisico e massima concentrazione.

Mi spostavo lentamente, scegliendo le prese con la massima cura saggiandone la resistenza, testando la tenuta degli spit conficcati nella parete, ricontrollando ogni volta che i moschettoni fossero ben chiusi e che le corde non si fossero aggrovigliate.

Non ho mai permesso al mio sguardo di volgersi verso la vetta sopra di me o a valle sotto di me, e, quando la salita si fece più dura, tenni fisso lo sguardo sulla roccia a 20 centimetri dal mio naso.

Dopo otto ore, raggiunsi la cima.

Era un posto magnifico con un panorama sconfinato, senza età; le nuvole avvolgevano la cima dell’Adamello, e la vista si poteva perdere dal ghiacciaio della Presanella fino al massiccio dell’Ortles.

Lì, sentii il bimbo staccarsi da me e lì potei finalmente lasciarlo, e riposare.

Scendemmo lentamente in corda doppia, con calma, e fu molto piacevole.

Ero pienamente consapevole di aver subito un cambiamento.

Lo scudo che mi aveva fino ad allora permesso di mantenere una distanza di sicurezza dalla sofferenza attorno a me era stato frantumato, e sentii il peso della responsabilità che la mia professione mi conferiva come qualcosa che fa riflettere, ma non più in grado di soffocarmi.

La pace era stata in qualche modo fatta e il mio spirito non era più prigioniero.




Più di due decenni sono passati da quella notte, e la medicina intensiva è diventata sempre più complessa, tecnologica, basata sull’evidenza e guidata dai dati.

Ma ogni caso che giunge alla nostra osservazione è il risultato dell’incontro tra una vita individuale, un insieme di forze capaci di mettere fine a quella vita, un’evidenza scientifica che ci dice come affrontarlo.

L’incontro è però sempre unico, irripetibile, e non saprai mai come finirà se non arrivando in cima.

Come medici, siamo costretti ad andare avanti e indietro tra questi due poli: la persona malata e la malattia, siamo obbligati ad agire, agire sempre, rapidamente, razionalmente, anche quando non siamo affatto sicuri di cosa sia meglio per quella singola persona che sta davanti a noi.

Non ho trovato ancora una risposta, ma le montagne e il bimbo mi hanno impartito alcune lezioni: muoversi lentamente; soppesare le opzioni come se la vita dipendesse da questo; evitare di guardare troppo in alto o troppo in basso; concentrarsi sul problema a portata di mano; riposare con gratitudine quando viene offerto riposo, e, soprattutto, ripararsi dal freddo. Non solo quello delle rocce in ombra.

Bibliografia

– Gristina GR. Grief and renewal: a clinician’s journey. Intensive Care Med 2013; 39: 2042-3.