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«L’aspettativa di vita è aumentata nel tempo, ma è improbabile che il merito di questo incremento sia della ricerca biologica di base». Ne è convinto John P.A. Ioannidis che ha chiuso con un’agguerrita Viewpoint una lunga serie di contributi usciti sul JAMA nell’arco di nove mesi (Ioannidis JPA. Is it possible to recognize a major scientific discovery? JAMA 2015; 314: 1135-7). Piuttosto, l’allungamento della vita media è merito della riduzione dell’abitudine al fumo, del miglior controllo della pressione arteriosa, del contrasto dell’inquinamento, del maggiore esercizio fisico e di un’alimentazione più sana. Se viviamo di più dobbiamo dire “Grazie!” a stili di vita più salutari. Senza dimenticare i risultati di politiche sociali più attente ad una maggiore tutela dell’infanzia e della donna e a una migliore igiene. Altri progressi possiamo attenderceli in un futuro vicino, grazie all’innovazione nelle comunicazioni, nei trasporti e nell’informatica.

Quello del direttore del Meta research innovation center di Stanford sarà pure un “punto di vista” ma è sostenuto da dati difficili da smentire: la disuguaglianza tra i diversi Paesi riflette l’asimmetria del progresso, e le differenze dell’attesa di vita nelle diverse nazioni – e all’interno dei Paesi stessi in base alla geografia della crescita – sono sconcertanti. In Giappone, il 92% dei quindicenni spegnerà almeno 60 candeline ma ne avrà la gioia solo il 66% dei loro coetanei russi. In Inghilterra, dopo gli 80 anni il 60% delle persone descrive la propria salute come buona, molto buona o eccellente e quasi tre donne su quattro – così come l’80% degli uomini – di quell’età non hanno difficoltà a camminare velocemente. Una situazione imparagonabile a quella della maggioranza delle altre realtà mondiali.

Però, nel suo nuovo libro – The health gap (London: Bloomsbury, 2015) – Sir Michael Marmot spiega che qualsiasi intervento si intenda mettere in atto nei confronti della popolazione anziana non dovrebbe essere mirato alla terza età ma ai giovani: «The best way to reduce social inequities in health at older ages is undoubtedly to start at the beginning of life». Motivare a diversi stili di vita, rendere possibili abitudini capaci di proteggere la salute, lavorare a livello politico per un ambiente meno inquinato: questa è la strada per rendere meno difficile il compito del medico alle prese con una complessità altrimenti irriducibile nella presa in carico della salute dell’anziano.

«Invecchiare è un’esperienza multidisciplinare», fa recitare Richard Ford al dépliant di una casa per anziani d’alto bordo nel suo ultimo romanzo (pagina 530) e forse per questo arriviamo sempre impreparati ad affrontarla. Ma se la vita è una questione di sottrazioni – ne sono convinti il protagonista del libro e l’amico Eddie, malato terminale – la saggezza del medico sarà sempre di più nella capacità di prendere decisioni che non siano in contrasto con i desideri di chi soffre: la praticabilità di un approccio anche invasivo nell’anziano (pagina 495) è una buona notizia, ma ancora di più lo è il diffondersi di una cultura della prudenza che riflette sulla ragionevolezza di un’assistenza sanitaria che pretende di essere valutata sulla quantità delle prestazioni effettuate (pagina 475).

«La vita è un lusso di cui pochi vogliono privarsi»: lasciamolo pensare alle case di riposo per ricchi statunitensi.

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