Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Salute e diritti dei cittadini

L’intervento in Aula della Senatrice Nerina Dirindin il 28 luglio 2015 a commento del decreto legge sugli enti locali è l’invito a ragionare sulla centralità dei diritti dei cittadini nel prendere decisioni politiche. «Chiedo a un Governo di centrosinistra che consideri prioritari non l’equilibrio di bilancio ma i diritti dei cittadini, perché questi vengono prima degli equilibri di bilancio», ha affermato la Senatrice. Il primo diritto della persona è di partecipare alle decisioni che riguardano la salute, e il cittadino deve essere messo nelle condizioni di essere informato correttamente e in maniera esauriente. È la premessa per superare l’asimmetria informativa che condiziona non solo il rapporto tra il medico e il suo paziente, ma anche – se non soprattutto – la relazione tra i cittadini e la salute. Il secondo diritto è di non essere esposti all’offerta di interventi sanitari inappropriati. «Combattere l’inappropriatezza non vuol dire rinunciare semplicemente a pagare con soldi pubblici le prestazioni che vengono prescritte o che i cittadini richiedono; vuol dire informare i cittadini […] del fatto che alcune prestazioni sono inappropriate non perché fanno spendere, ma perché sono costose e dannose e presentano rischi superiori ai benefici che possono ottenere». Il terzo diritto riguarda l’accesso alle cure: su cento persone, undici rinunciano a una prestazione sanitaria per ragioni economiche o perché manca l’offerta sul territorio. La sanità italiana, a livello centrale, «è troppo debole nel verificare la garanzia dei livelli essenziali di assistenza nelle Regioni e nelle aziende sanitarie». Il quarto diritto riguarda la necessità di comprendere il senso della riduzione della spesa sanitaria. Per restare in tema, i cittadini hanno diritto ad un governo che sia capace di disinvestire: in primo luogo, cessando di garantire la gratuità degli interventi che oggi sappiamo non essere efficaci o più costosi di altri ugualmente efficaci. Scegliere con saggezza, però, significa anche non accettare di introdurre nel servizio sanitario l’innovazione che non garantisca un progresso in termini di efficacia, sicurezza e miglioramento sostanziale e misurabile della qualità della vita delle persone.




Ne deriva un quinto diritto: quello ad un servizio sanitario che sia capace di migliorare attraverso la quotidiana valutazione della qualità delle prestazioni fornite e dei risultati ottenuti. Sarebbe bello se il tanto auspicato “riordino” di Istituto Superiore di Sanità, Agenzia Nazionale per i Servizi Regionali e Agenzia Italiana del Farmaco andasse in questa direzione. Molto spesso, invece, si ha l’impressione che si pensi prima agli strumenti che alla definizione concreta di obiettivi precisi. Spendere di meno per la sanità è possibile: basterebbe investire di più per la tutela sociale, per le politiche ambientali, per il contrasto all’illegalità e alla corruzione. Ma è necessaria una politica con una visione ampia, articolata, sistemica.

Ne consegue un sesto diritto: quello a essere governati da persone competenti.

Disinformare è un diritto da proteggere?

Nel mese di agosto, ha fatto discutere – soprattutto negli Stati Uniti – la vicenda di un prodotto (Vascepa) che è l’unico a comparire nel listino di una società (Amarin) che lo tiene comprensibilmente in grande considerazione. Più diffidente è la Food and Drug Administration – agenzia regolatoria statunitense deputata alla valutazione dei medicinali – che nell’ottobre del 2013 si è pronunciata contro l’estensione delle indicazioni per l’uso del farmaco nella clinica cardiovascolare. Dopo uno studio iniziale che aveva dimostrato l’efficacia del prodotto nel ridurre i trigliceridi (il MARINE trial) proprio su sollecitazione della FDA l’azienda aveva avviato un altro studio sempre di fase 3 (l’ANCHOR trial) ottenendo una conferma dei risultati. Si trattava a quel punto di dimostrare un impatto positivo sulla riduzione del rischio cardiovascolare, esito non raggiunto da diversi altri trial condotti con preparati simili a Vascepa. Per questo, la FDA rifiutava l’estensione delle indicazioni, nonostante l’avvio dello studio REDUCE-IT: così che il nuovo trial riusciva, sì, a ottenere una “riduzione”, ma di certo non quella desiderata: il valore delle azioni della società crollava del 60%. La storia è raccontata nei particolari in un post di Ryan Abbott sul blog dell’Harvard Law Petrie-Flom Center and friends1.

Dall’autunno di due anni fa è iniziato un contenzioso tra Amarin e FDA, culminato in un’azione legale dell’industria nei confronti dell’agenzia, ritenuta colpevole di violazione del diritto alla libertà di espressione garantito dal First Amendment alla Costituzione statunitense. Una vittoria della libertà di espressione e del senso comune, ha commentato Forbes. La FDA aveva infatti vietato all’azienda di pubblicizzare il prodotto per le indicazioni non approvate. Il 5 giugno scorso, la FDA ha risposto con toni concilianti, sostenendo che il divieto si riferiva solo ad una parte dei messaggi diffusi dall’azienda e suggerendole di riposizionare Vascepa come supplemento dietetico, così da non rendere necessario il “via libera” regolatorio: insomma, la FDA pericolosamente vicina al ruolo di consulente industriale per le politiche di marketing.

C’è poco da fare: rispetto a pochi anni fa, il mondo è cambiato. L’opposizione alla FDA – sostengono Jerry Avorn, Ameet Sarpatwar e Aaron S. Kesselheim sul New England Journal of Medicine2 – nasce dalla convinzione che «in una situazione di libero mercato, la decisione individuale della singola persona sia preferibile alle determinazioni di un’agenzia governativa, anche a proposito dei farmaci». In un mondo diffusamente informato, dovremmo accettare la transizione dal primato degli esperti alla “saggezza delle folle” fino alla nuovissima “competenza dell’individuo”?

Uno degli aspetti chiave è nella valutazione dell’informazione: quella disponibile è tale da essere una garanzia per il cittadino? Sono ormai disponibili evidenze macroscopiche di una generalizzata condotta industriale poco trasparente che ha il comprensibile obiettivo di massimizzare i profitti e, soprattutto, di abbreviare i tempi del rientro negli investimenti sostenuti. Negli ultimi 15 anni – osservano Avorn e i suoi colleghi di Harvard – sono state elevate multe per 15 miliardi di dollari a industrie farmaceutiche colpevoli di aver pubblicizzato usi fuori indicazione (e quasi sempre inefficaci o pericolosi) di propri farmaci: ma qualcuno sostiene che quella delle sanzioni sia ormai solo una delle voci di costo previste dalle aziende nella pianificazione degli investimenti su nuovi medicinali.

Altro punto critico è il sentimento anti-regolatorio diffuso in molti Paesi avanzati: la crisi economica lo ha inasprito, dal momento che non poche difficoltà vissute dalle imprese sono addebitate a un’eccessiva burocrazia e a impedimenti amministrativi che influenzerebbero negativamente il mercato. Negli ultimi anni, anche la FDA ha risposto a questa nuova situazione allentando le maglie del proprio controllo. Restando al problema dell’uso off-label dei medicinali, è stato permesso alle industrie: di rispondere ai quesiti dei medici sull’utilizzo fuori indicazione, di finanziare eventi di continuing medical education e di distribuire reprint su queste tematiche.

Altre revisioni delle policy regolatorie dell’agenzia sono previste per i prossimi mesi, sempre in direzione di una maggiore autonomia delle aziende nell’informare i medici sui possibili usi ulteriori dei loro farmaci. «Sempre che i messaggi diffusi rispettino i principi di accuratezza» e talora accompagnate da un disclaimer a precisare che la FDA «has not reviewed the data». Un commento sul blog del New York Times sostiene che non è detto che queste regole nuove si traducano in una assoluta licenza per le industrie di disinformare il personale sanitario3.




Ad ogni buon conto, essere accurati, nell’informazione scientifica, è un compito non facile a giudicare dagli … incidenti di percorso segnalati quotidianamente: i risultati di un singolo studio possono non essere indicativi o a tal punto robusti da rappresentare una “evidenza”; anche la pubblicazione su una rivista indicizzata (o peer-reviewed) non è un marchio di qualità del contenuto; il disegno metodologico di molti trial lascia a desiderare, così come la scelta degli endpoint. Altre e forse ancora più serie preoccupazioni nascono dal timore che la gestione dell’informazione da parte di un’azienda – comprensibilmente condizionata dal voler massimizzare l’impatto della propria comunicazione – tenda a selezionare i dati, nascondendo quanto non utile – o addirittura potenzialmente dannoso – per raggiungere il proprio obiettivo.

L’articolo del New England è critico: indebolire le regole della promozione dei medicinali può creare un incentivo per le industrie a ottenere un’approvazione iniziale per un’indicazione ristretta sulla base di prove di efficacia e sicurezza facili da produrre, per poi avviare un’azione aggressiva a sostegno dell’uso fuori indicazione. «Protecting and promoting your health» è il claim che leggiamo sul sito della FDA. Non è detto che l’attenzione alla libertà di espressione delle imprese vada a vantaggio dei cittadini: tanto più in un’epoca di risorse limitate, anche incentivare l’uso di farmaci inutili (e non dannosi) può nuocere alla salute, perché può tradursi in una limitazione dell’accesso ai medicinali efficaci.

L’articolo della rivista della Massachusetts Medical Society è pessimista ma, in altra sede, uno degli autori suggerisce una ragione per non esserlo4: la maggiore libertà regalata all’industria è un motivo in più che rende indispensabile l’informazione indipendente.

Bibliografia

1. Government regulation of commercial speech: is Amarin Pharma’s breakout moment? Bill of Health blog. 7 settembre 2015. https://goo.gl/Rq0dk8

2. Avorn J, Sarpatwari A, Kesselheim AS. Forbidden and permitted statements about medications: loosening the rules. New Engl J Med 2015; 373: 967-73.

3. Henning PJ. F.D.A.’s ‘Off-Label’ Drug Policy Leads to Free-Speech Fight. New York Times blog – White collar watch. 10 agosto 2015. http://goo.gl/BFb7lZ

4. Avorn J. Is the nation making a u-turn on regulating drug promotion? National resource Center for Academic Detailing blog. (senza indicazione di data). http://goo.gl/bjSZm5

Key Opinion Leader: maneggiare con cura

L’opinione è una convinzione che non ha in sé una garanzia di verità accertata. Considerata questa intrinseca debolezza, colpisce quanto spazio invece abbiano le opinioni sui giornali, in televisione, in Rete. Chiunque ha un’opinione, avvertiva l’Ispettore Callahan, e “opinione” è una parola ricorrente anche se dovrebbe essere vista con sospetto: il New York Times ha uno spazio molto in vista dedicato agli Op-Ed e in medicina spadroneggiano i Key Opinion Leader.

David P. Steensma è un oncologo statunitense che lavora al Dana-Farber Cancer Institute di Boston e ha preparato un articolo sui KOL per il Journal of Clinical Oncology1. È un articolo importante, non solo per l’argomento trattato, ma anche perché a pubblicarlo è la rivista della American Society of Clinical Oncology e la rubrica che lo ospita è uno degli spazi più prestigiosi del giornale, quello riservato alla “Art of Oncology”.

L’articolo di Steensma è molto equilibrato: con ironia, mette in guardia sul peso relativo delle opinioni rispetto alle evidenze, ma non prende una posizione ostile nei confronti dei colleghi che accettano di recitare la parte del Key Opinion Leader. Ruolo che, peraltro, non è sempre semplice da svolgere: può costare molto in termini di carriera professionale o può esporre al risentimento delle industrie non contente dei punti di vista indipendenti espressi da un KOL. La questione, però, va inserita nel più generale quadro dei rapporti tra medicina accademica e aziende.

I medici sono preoccupati del rischio che i cittadini abbiano una cattiva impressione delle influenze dell’industria sui comportamenti degli operatori sanitari? «I think that many physicians do have this concern – risponde Steensma –. There are certainly abuses that need to be called out; however the vast majority of physicians are not “in the pockets of pharma” and put their patients first, and sensational or unbalanced reporting can lead to misperception».

Negli Stati Uniti, con il Sunshine Act, sono stati resi pubblici i finanziamenti ricevuti dai medici: è un’iniziativa che può ridurre la frequenza delle interazioni tra i medici e le industrie farmaceutiche? «I think that reducing the frequency of interactions would be a negative outcome. We don’t want to reduce the frequency of interactions – instead we want them to be positive and productive, and transparent. The implementation of the Sunshine Act has been a failure, in my opinion. The website includes a lot of erroneous and extraneous data, and is difficult to navigate and difficult for patients to interpret. For instance, if my institution participates in a multi-center study of a valuable new drug (e.g., AG221 for IDH2 mutant leukemias, which many of my patients refractory to all other therapies have responded dramatically to) the Sunshine Act lists money given to the institution for data managers as if it were coming to me directly, because I am the local investigator. I do not see a penny of those funds but a patient could look and say: “Oh my doctor got thousands from a company for research, he might have just used that to buy a nice car”».




Le società scientifiche potrebbero svolgere un ruolo utile a dare regole migliori ai rapporti tra i propri iscritti e le aziende? «The medical societies already have a number of policies regarding interactions with respect to publications, presentations, and representation. All of the major societies (ASH, ASCO, etc.) take hundreds of thousands of dollars from industry annually, in support of activities we would all find worthwhile: the annual meeting, scholarships, research grants for young investigators, etc.».

Una serie di articoli pubblicata di recente sul New England Journal of Medicine sottolinea l’importanza della collaborazione tra medicina accademica e industria: è ora di abbassare la guardia?2 È sufficiente la trasparenza per proteggere l’integrità della professione medica? «Transparency helps but we also need a strong legal framework to protect from abuses. There are many pharmaceutical practices that harm patients that have little to do with physicians: exorbitant drug prices (especially in oncology, as Kantarjian has written about extensively), patent ever-greening and “pay to delay” and other practices designed to delay access to generics, etc.». Key Opion Leader: ci vorrebbero delle “istruzioni per l’uso” e ricordarsi sempre di maneggiarli con cura.

Bibliografia

1. Steensma DP. Key Opinion Leaders. Journal of Clinical Oncology 2015: JCO-2015. http://jco.ascopubs.org/content/early/2015/08/06/JCO.2015.63.1275.full

2. De Fiore L. Conflitto di interessi: è ora di abbassare la guardia? Recenti Prog Med 2015; 106: 305-7.