Trattamento del paziente con sindrome coronarica acuta
in età avanzata e con copatologie.
“Quando il gioco si fa duro…”

Luca Angelo Ferri1, Giorgio Bassanelli1, Nuccia Morici2, Leonardo De Luca3, Stefano De Servi4,
Stefano Savonitto1

Riassunto. La crescita dell’aspettativa di vita anche in età avanzata e la migliore sopravvivenza di pazienti con patologie multiple richiedono capacità di confrontarsi con quadri clinici complessi a elevato rischio di complicanze iatrogene. I progressi farmacologici e interventistici nel trattamento delle sindromi coronariche acute incoraggiano tuttavia a un atteggiamento terapeutico più attivo rispetto al passato. Nonostante la scarsità di evidenze derivate da trial randomizzati in pazienti anziani e con comorbilità, i dati osservazionali mostrano che anche questi pazienti si giovano di un trattamento invasivo precoce e di un approccio farmacologico più aggressivo. Tale approccio è più facilmente perseguibile in Centri, o in reti di Centri, in grado di offrire una completa assistenza intensiva, interventistica e chirurgica.

Parole chiave. Aspettativa di vita, sindrome coronarica acuta.

Treatment of acute coronary syndrome in older adults and high-risk patients.“When the going gets tough…”.

Summary. The increasing life expectancy in older adults and the better survival of patients with multiple pathologies require the capability to treat complex clinical conditions with an increased risk of iatrogenic complications. Nevertheless, recent improvements in the pharmacological and interventional treatment of acute coronary syndrome (ACS) have promoted a shift from therapeutic nihilism to a more active management of complex ACS cases. Despite the paucity of specific randomized clinical trials, observational studies seem to show benefit of an early invasive treatment in these patients. This approach requires close cooperation of clinical intensivists, interventional cardiologists and cardiovascular surgeons either in a specialized heart center or in a network of hospitals.

Key words. Acute coronary syndrome, life expectancy.

Introduzione

Il miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi economicamente più sviluppati e il conseguente invecchiamento della popolazione hanno prodotto un significativo cambiamento nelle caratteristiche dei pazienti con sindrome coronarica acuta (acute coronary sindrome - ACS), con progressivo aumento dei ricoveri di pazienti anziani e con patologie multiple1-3. La stessa denominazione delle Unità Coronariche è per lo più evoluta verso quella più completa di Unità di Terapia Intensiva Cardiologica (UTIC)4, a rendere conto anche dell’aumento dei pazienti con cardiopatie non coronariche (per es., miocardiopatie) la cui sopravvivenza, e quindi la necessità di cure “end-stage” anche prolungate, è in continua crescita.

Sebbene non vi sia una universale definizione di paziente “anziano”, il cut-off di 75 anni è quello maggiormente utilizzato in letteratura5-7: del resto, è proprio intorno ai 75 anni di età che si osserva un importante peggioramento della prognosi e delle complicanze dopo evento acuto7.

Il cambiamento avvenuto nell’ultimo decennio in Italia è ben descritto nella recente pubblicazione dei dati sequenziali dei registri promossi dall’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) che ha preso in considerazione le caratteristiche cliniche e le modalità di trattamento dei pazienti di età ≥75 anni ricoverati con infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI) nelle UTIC italiane8. Complessivamente, tali pazienti rappresentano circa il 40% di tutti i ricoveri per ACS. Dal 2001 si è assistito a un significativo aumento delle copatologie, con maggiore rappresentazione dei pazienti con diabete mellito (dal 24% del 2001 al 36% del 2010), disfunzione renale (dall’8% al 21%) e precedente rivascolarizzazione coronarica (dal 13% al 27%). Si è osservato un aumento nella prescrizione dei farmaci orali prognosticamente attivi (betabloccanti dal 47% al 71%, statine dal 37% all’82%, l’utilizzo di duplice terapia antiaggregante dal 9% al 75%). Anche il ricorso a un approccio invasivo è cresciuto notevolmente: se nel 2001 solo il 27% dei pazienti di età ≥75 anni era stato sottoposto a coronarografia, questa cifra è salita al 70% nelle survey più recenti, mentre quelli trattati con rivascolarizzazione sono passati dal 10% al 52%. La mortalità a 30 giorni si è infine ridotta dal 14,5% del 2001 al 9,5% del 2010 (figura 1). Complessivamente, i dati sembrano indicare una maggiore disponibilità da parte dei cardiologi a farsi carico e a trattare in modo attivo i pazienti anziani affetti da ACS, sebbene tale popolazione sia sotto-rappresentata nei grandi trial e presenti un numero elevato di copatologie – come diabete, anemia, insufficienza renale, ipertensione e fibrillazione atriale (FA), nonché una maggiore “fragilità” – che di per sé complicano in modo significativo il trattamento9,10. Gli scarsi dati disponibili da trial randomizzati supportano tale approccio5-7,11,12. Da qui nasce la necessità di sviluppare competenze e conoscenze specifiche che consentano di trattare in modo efficace e sicuro una popolazione, sempre più rappresentata nella pratica clinica quotidiana, con elevato rischio ischemico ma anche di complicanze iatrogene.




Il paziente anziano

Trattamento invasivo dell’infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI)

L’angioplastica primaria si è andata affermando come la strategia riperfusiva più efficace e sicura nei pazienti anziani con STEMI. Dando seguito ai risultati di piccoli trial randomizzati che, nel complesso, hanno mostrato una significativa riduzione dell’end primario di morte, reinfarto o ­ictus a 30 giorni utilizzando l’angioplastica primaria rispetto alla fibrinolisi in pazienti anziani (14,9% vs 21,5%, OR 0,64, IC 95% 0,45-0,91, P=0,013)5, recenti registri osservazionali hanno mostrato come negli ultimi 10 anni sia aumentato il numero dei pazienti anziani sottoposti a coronarografia (dal 40% all’87%) e tra questi i pazienti sottoposti ad angioplastica primaria (dal 65% al 94% dei pazienti sottoposti a coronarografia)13-15. L’angioplastica primaria nei pazienti anziani è associata a una riduzione della mortalità a 30 giorni (OR 0,47; CI 95%, 0,31-0,71), 1 anno (OR 0,86, CI 95%, 0,58-1,30) e 5 anni (OR 0,82, CI 95%, 0,56-1,19)15, sebbene essa rimanga significativamente maggiore rispetto a quella della popolazione più giovane (mortalità intra-ospedaliera del 13% vs 3,4%). Risultati simili si sono osservati anche nel registro multicentrico del Réseau de Cardiologie de Franche-Comté: dal 2001 al 2006 l’angioplastica primaria è divenuta la modalità riperfusiva prevalente rispetto alla fibrinolisi (OR 6,9, CI 95%, 3,1-15), associandosi a una significativamente minore mortalità a 30 giorni (9,2 vs 23%, p<0,0001)16. Una recente meta-analisi che ha incluso 6.298 pazienti trattati con angioplastica primaria e impianto di stent ha confermato che, nonostante una più alta incidenza di morte durante il follow-up rispetto ai pazienti più giovani, non si è osservato un maggiore rischio di reinfarto, trombosi intrastent o nuova rivascolarizzazione nella popolazione anziana17, senza differenze significative tra l’impiego di stent metallici e medicati18. In maniera sorprendente, l’approccio invasivo è aumentato anche nei pazienti anziani con shock cardiogeno, con una significativa riduzione della mortalità intraospedaliera (da 80% nel 2001 a 41% nel 2014)19 in questa popolazione che, fino a pochi anni fa, era considerata off-limits per l’interventistica.

Il trial randomizzato STEMI-RADIAL ha chiaramente dimostrato che l’angioplastica primaria condotta per via radiale si associa a una ridotta incidenza di sanguinamenti maggiori e complicanze vascolari in sede di accesso (1,4% vs 7,2%, p<0,0001), che si traduce in un superiore beneficio clinico netto (incidenza cumulativa di morte, sanguinamento maggiore, ictus e reinfarto: 4,6 vs 11%, p=0,0028)19. Sebbene i dati del trial STEMI-RADIAL siano ottenuti in una popolazione di pazienti più giovane (età media 62 anni), i risultati sembrano estendibili anche a pazienti anziani, così come suggerito da uno studio prospettico osservazionale che include 307 pazienti >75 anni sottoposti ad angioplastica primaria20.

Trattamento invasivo dell’infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI)

I pazienti affetti da NSTEMI sono mediamente più anziani rispetto a quelli con STEMI, e più numerose tra di essi sono le donne. Il primo studio randomizzato ad aver arruolato esclusivamente pazienti di età ≥75 anni con NSTEACS è stato l’Italian Elderly ACS study6: i pazienti sono stati randomizzati a una strategia precocemente invasiva (coronarografia e, quando indicata, angioplastica entro 72 ore dall’inizio dei sintomi) oppure a una strategia inizialmente conservativa (angiografia e rivascolarizzazione solo in caso di ricorrenza ischemica in terapia). Lo studio aveva inizialmente come obiettivo l’arruolamento di 504 pazienti con follow-up di 6 mesi, ma, per le difficoltà di arruolamento tipicamente osservate nei pazienti anziani, si è concluso con 313 pazienti con un follow-up di 12 mesi. L’età media della popolazione è stata di 82 anni, e il 50% era rappresentato da donne. L’endpoint primario (composto dall’incidenza cumulativa di mortalità, reinfarto, ictus invalidante, reospedalizzazione per causa cardiovascolare o sanguinamento) è stato significativamente ridotto (HR: 0,43; 95% CI: 0,23-0,80) dall’approccio invasivo precoce nei pazienti con troponina elevata al momento del ricovero (circa il 60% dei pazienti arruolati), sebbene tale beneficio non sia risultato significativo considerando l’intera popolazione studiata (27,6% vs 34,6%: HR=0,80; CI 95%, 0,53-1,19). Analizzando i dati non in base al protocollo di trattamento assegnato (“intention to treat”) bensì in base al trattamento effettivamente svolto in corso di ospedalizzazione (“per treatment”, ossia includendo nel gruppo dei pazienti trattati in modo invasivo anche coloro inizialmente assegnati a trattamento conservativo, ma successivamente sottoposti a coronarografia durante ricovero per instabilizzazione clinica), si è peraltro osservata un’incidenza significativamente minore degli eventi avversi a un anno nel gruppo di pazienti trattati in modo invasivo (40,5% vs 24,7%; HR 0,56; CI 95%, 0,37-0,83, p=0,003), dovuta principalmente a una significativamente minore incidenza delle recidive di infarto (13% vs 6%) e dell’aggregato di infarto e morte (27,5% vs 14,3%)21. In questo studio, le pazienti di genere femminile hanno presentato outcome intraospedalieri simili a quelli riscontrati nel genere maschile e migliori outcome a 1 anno (27,6 vs 38,7%); tuttavia, le pazienti non sottoposte a strategia invasiva hanno accusato una mortalità tre volte superiore, sia in fase acuta (8,5% vs 2,7%; p=0,05) sia a un anno (21,6 vs 8,1%; p=0,002)22. È importante infine notare come, all’interno della popolazione arruolata nel trial, anche per quanto riguarda pazienti così anziani l’80% delle morti a un anno riconoscano una causa cardiovascolare e in particolar modo ischemica23, sottolineando l’importanza di un atteggiamento terapeutico attivo sia durante la fase acuta sia nel successivo follow-up.

I dati di questo singolo studio randomizzato trovano conferma nella sottoanalisi del trial TACTICS-TIMI 38, in cui il sottogruppo di pazienti con almeno 75 anni ha particolarmente beneficiato di una precoce strategia invasiva, con una riduzione assoluta di morte e infarto a 6 mesi (10,8% vs 21,6%, p=0,016) in proporzione significativamente maggiore rispetto al gruppo di pazienti più giovani11. In questo studio tuttavia – dove a differenza dell’Italian Elderly ACS study si è fatto utilizzo sistematico di tirofiban ed eparina non frazionata e di approccio per via femorale – si è osservata una percentuale di sanguinamenti maggiori periprocedurali molto più elevata nei pazienti con più di 75 anni (16,6% vs 6,5%; p=0,009), dato che non ha trovato riscontro nell’Italian Elderly ACS study (solo il 2,5% di sanguinamenti severi a 1 anno)6. È per questo motivo che ci sentiamo di raccomandare ovunque possibile un approccio per via radiale anche per i pazienti affetti da NSTE-ACS, sebbene le evidenze non siano così forti come nello STEMI.

Sono stati infine presentati al congresso 2015 dell’American College of Cardiology i dati dell’After Eighty Study24, uno studio randomizzato che ha arruolato pazienti con NSTE-ACS ed età ≥80 anni dopo stabilizzazione in terapia farmacologica. Solo 457 dei 4187 pazienti sottoposti a screening (11%) sono stati arruolati. Tra questi, i pazienti trattati in modo invasivo hanno mostrato, a un follow-up mediano di 18 mesi, una riduzione dell’occorrenza di infarto miocardico (17% vs 30%) e della necessità di rivascolarizzazione urgente (2% vs 11%) rispetto ai pazienti trattati con terapia medica, in assenza di una maggiore incidenza di sanguinamenti o ictus cerebri. La mortalità per tutte le cause non si è ridotta significativamente.

La terapia antitrombotica nel paziente anziano

Sia per i pazienti trattati invasivamente sia per quelli trattati conservativamente, la terapia antitrombotica è di primaria importanza nella fase acuta e in prevenzione secondaria dopo ACS25. Così come per i pazienti più giovani, le attuali linee-guida raccomandano 12 mesi di duplice terapia antiaggregante a prescindere dal posizionamento di stent coronarico26-27. In accordo con lo spirito pratico della presente trattazione, è possibile riassumere alcuni messaggi sintetici.

• Il rischio di emorragia gastroenterica aumenta con l’età: è preferibile pertanto nei pazienti anziani utilizzare il minore dosaggio efficace di aspirina (75 mg/die)28 ed è raccomandabile l’utilizzo di inibitori di pompa protonica29.

• Dopo ACS è indicato il trattamento con un inibitore del recettore dell’ADP per 12 mesi. Si possono utilizzare: a) clopidogrel al dosaggio di 75 mg/die, che ancora oggi risulta essere il farmaco più collaudato nei pazienti anziani e meno gravato da complicanze emorragiche27; b) ticagrelor al dosaggio di 90 mg ogni 12 ore: rispetto a clopidogrel si è osservata una riduzione degli eventi ischemici nel follow-up, al prezzo di un aumentato rischio di eventi emorragici maggiori30,31; c) prasugrel, indicato in caso di angioplastica coronarica. L’utilizzo di prasugrel al dosaggio pieno di 10 mg/die non è raccomandato in pazienti di età >75 anni visto l’aumento di sanguinamenti osservati nel follow-up: qualora si optasse per trattamento con prasugrel, l’indicazione è di ridurre il dosaggio a 5 mg/die32. Più in generale, visto l’aumentato rischio di sanguinamento, l’utilizzo dei nuovi farmaci antitrombotici (ticagrelor e prasugrel) dovrebbe avvenire solo dopo attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio o nei casi di allergia a clopidogrel.

• I pazienti anziani sono in generale a maggiore rischio di sanguinamento, ma presentano una risposta molto eterogenea al trattamento con clopidogrel, mostrando in una considerevole percentuale dei casi un’insoddisfacente azione antiaggregante33. In questo senso risultano particolarmente interessanti regimi terapeutici che prevedano l’impiego di farmaci – come prasugrel o ticagrelor – con una risposta antiaggregante più prevedibile rispetto a clopidogrel34, utilizzati a un dosaggio ridotto rispetto a quello adottato nella popolazione più giovane. Tale ipotesi è alla base del trial Elderly ACS-2 [NCT01777503], tuttora in corso, che paragona una dose ridotta di prasugrel (5 mg/die) al trattamento standard con clopidogrel 75 mg/die in 2000 pazienti di età ≥75 anni trattati con angioplastica per ACS.

• Tra gli anticoagulanti, fondaparinux al dosaggio di 2,5 mg/die sottocute dovrebbe essere l’anticoagulante di scelta nella fase acuta, soprattutto nei pazienti trattati conservativamente35. Qualora si optasse per trattamento con eparina a basso peso molecolare, quest’ultima va dosata attentamente in base ai valori stimati di filtrazione glomerulare. L’utilizzo sistematico di inibitori della glicoproteina IIb/IIIa in pazienti anziani non è raccomandato.

• In pazienti trattati con angioplastica coronarica, è ragionevole utilizzare bivalirudina invece di eparina non frazionata e inibitori della glicoproteina IIb/IIIa, visto il minore rischio di sanguinamento e la minore mortalità a un anno a essa associata36,37.

• Nei pazienti trattati con fibrinolisi sistemica per STEMI, è raccomandato l’utilizzo di trombolitico a dosaggio dimezzato rispetto allo schema abituale, associato alla somministrazione sottocutanea di enoxaparina al dosaggio di 0,75 mg/kg, acido acetilsalicilico e clopidogrel 75 mg senza carico38,39.

Il paziente con insufficienza renale cronica

In considerazione del processo di glomerulosclerosi che ha inizio già nell’età giovane adulta, una gran parte dei pazienti anziani presenta valori ridotti di filtrazione glomerulare. A causa della presenza di sarcopenia senile, tuttavia, i valori di creatininemia non crescono proporzionalmente alla progressiva riduzione della filtrazione glomerulare40,41: ne deriva la necessità di ricorrere a metodi diversi per quantificare più correttamente al funzione renale. Le più importanti informazioni riguardo ai pazienti con insufficienza renale sono di seguito schematicamente sintetizzate.

• Al fine di stimare la filtrazione glomerulare a partire dai valori di creatininemia, si possono utilizzare diverse formule: MDRD, CKP-EPI e la formula di Cockcroft-Gault41: quest’ultima si è dimostrata la più adeguata per l’utilizzo nella pratica clinica quotidiana, anche perché è l’unica a tenere in considerazione il peso corporeo41,42.

• Nell’Italian Elderly ACS study, circa l’80% dei pazienti presentava valori stimati di filtrazione glomerulare ridotti all’ingresso in ospedale: la filtrazione glomerulare è risultata un fattore predittivo indipendente di mortalità a un anno (figura 2), e proprio la formula di Cockcroft-Gault è risultata la migliore nel predire la prognosi nei pazienti anziani43. È peraltro chiaro come sia necessario adottare tutte le misure possibili per evitare un deterioramento della funzione renale durante il ricovero correlato a un significativo aumento della mortalità a un anno (HR: 2,73; 95% CI: 1,87-4,0)44.

• La maggioranza dei pazienti anziani con ACS e insufficienza renale è trattata in modo conservativo temendo un ulteriore peggioramento della funzione renale dopo procedure intravascolari. Nell’Italian Elderly ACS study, tuttavia, i pazienti sottoposti a esame coronarografico non hanno presentato incidenze maggiori di insufficienza renale acuta intraricovero45. Peraltro, stratificando i pazienti secondo i valori di filtrazione glomerulare alla presentazione (utilizzando un cut-off di 45 ml/min), si è osservato come i pazienti con disfunzione renale trattati conservativamente presentino una mortalità a un anno significativamente aumentata (22,9%); l’unico intervento associato a una riduzione di mortalità a un anno in questo sottogruppo di pazienti è stata la rivascolarizzazione coronarica. I dati pubblicati nei registri sembrano confermare questo riscontro: nel registro SWEDEHEART, infatti, la rivascolarizzazione coronarica è stata associata a una riduzione del 36% della mortalità a un anno in pazienti con insufficienza renale avanzata46.

• Tra gli inibitori del recettore piastrinico P2Y12, ticagrelor nello studio PLATO ha mostrato risultati significativamente migliori rispetto a clopidogrel nei pazienti con insufficienza renale cronica, riducendo significativamente gli endpoint ischemici e la mortalità a un anno, con aumento non statisticamente significativo dei sanguinamenti maggiori classificati secondo la scala PLATO47.

• Nell’insufficienza renale cronica di grado severo, l’utilizzo di fondaparinux ed enoxaparina è controindicato: qualora sia necessario utilizzare terapia anticoagulante, è più prudente in questi pazienti utilizzare eparina non frazionata, che può essere facilmente monitorata e antagonizzata. La tendenza emorragica dei pazienti con insufficienza renale cronica e l’escrezione esclusivamente renale di molti farmaci antitrombotici rendono assolutamente necessario in questi pazienti adeguare il dosaggio degli inibitori della glicoproteina IIb/IIIa e dell’enoxaparina27.

• Nei pazienti affetti da insufficienza renale severa e candidati a trombolisi sistemica, è consigliabile utilizzare metà dosaggio del fibrinolitico38.




L’anemia

L’anemia è definita dall’OMS come valori di emoglobina <13 g/dl negli uomini e <12 g/dl nelle donne48. È un reperto non infrequente in corso di ACS ed è un riconosciuto fattore di rischio per complicanze sia ischemiche sia emorragiche.

• Nell’Italian Elderly ACS study, circa il 30% dei pazienti era anemico al momento del ricovero e l’anemia si è confermata come fattore di rischio indipendente per la mortalità a un anno, in maniera proporzionale ai valori di anemia (figura 3)49. L’associazione tra anemia ed età, anemia e filtrazione glomerulare o peso corporeo si è dimostrata debole in questo studio: l’anemia rimane dunque fattore predittivo indipendente di mortalità anche dopo correzione per le più importanti covariabili.

• Le attuali linee-guida26,27 raccomandano una strategia più restrittiva riguardo la trasfusione di emazie concentrate, che è considerata indicata solo per valori di emoglobina <7 g/dl e di ematocrito <25%: l’infusione di emoderivati potrebbe infatti essere associata a una prognosi peggiore, sebbene l’evidenza attualmente disponibile a riguardo non sia molto solida50,51.

• Una volta riscontrata la presenza di anemia, è importante procedere alla ricerca di eventuali fonti di sanguinamento, soprattutto escludendo la presenza di fonti emorragiche dal tratto gastroenterico, vista la necessità di trattare con terapia antiaggregante a lungo termine.

• In presenza di anemia è necessario titolare con cura i farmaci antitrombotici, scegliendo gli agenti più consolidati e associati a una minore incidenza di sanguinamento (per es., clopidogrel vs i nuovi inibitori del recettore ADP). Altre decisioni, come la scelta di accesso radiale in caso di procedure invasive o l’utilizzo di bivalirudina in caso di angioplastica coronarica, possono ridurre il rischio di complicanze emorragiche.







Il diabete

La prevalenza del diabete mellito nella popolazione con ACS ed età >65 anni varia tra il 22% e il 33%: tale condizione è associata a un aumentato rischio di mortalità, di ospedalizzazione e limitazione funzionale, per una maggiore esposizione alle complicanze cardiovascolari e microvascolari, sia acute sia croniche52.

Il 21% dei pazienti con STEMI e il 27% con NSTEMI sono diabetici o scopriranno di esserlo durante il ricovero53, mentre nel 25-50% dei pazienti ricoverati per ACS si evidenziano livelli glicemici superiori alla norma54: in questi casi l’iperglicemia può essere secondaria a diabete mellito non ancora diagnosticato55, ma anche un effetto della risposta allo stress acuto, soprattutto negli STEMI con disfunzione ventricolare sinistra56. Negli STEMI, infatti, il riscontro di iperglicemia all’ingresso è associato a una maggiore mortalità, soprattutto per i pazienti non noti per essere diabetici57.

Nella popolazione anziana, a essere associato a peggiore prognosi non pare tanto il diabete mellito di per sé, quanto la presenza delle sue complicanze, in particolare il deterioramento della funzione renale e la presenza di ridotta frazione di eiezione quale esito di pregresso evento infartuale58. Questo potrebbe essere spiegato dal fatto che il diabete mellito nei pazienti anziani con ACS può essere stato la causa di precedenti infarti e di ridotta frazione di eiezione, che diventa quindi il principale fattore prognostico negativo. Tuttavia, un paziente anziano affetto da un diabete mellito che non abbia determinato lo sviluppo di complicanze cardiovascolari e renali non pare avere un rischio di morte a un anno significativamente superiore a quello previsto per la sua età.

Negli anni più recenti si è osservata nei Paesi occidentali una riduzione della mortalità per cause cardiovascolari, ma il dato sembra non aver interessato la popolazione diabetica59: questo è verosimilmente secondario sia al maggiore rischio cardiovascolare, sia a interventi terapeutici meno aggressivi in questo sottogruppo di pazienti. Infatti, dati che provengono da registri evidenziano come i pazienti diabetici con SCA sono trattati in maniera subottimale, in termini sia di rivascolarizzazione miocardica sia di terapia antipiastrinica60. Nei pazienti diabetici sono peraltro presenti alterazioni della funzione piastrinica che causano una relativa resistenza alla terapia antiaggregante (vedi oltre)61.

Le linee-guida prevedono alcune raccomandazioni specifiche per i pazienti diabetici con ACS:

• bisogna evitare sia l’iperglicemia (>180-200 mg/dl) sia l’ipoglicemia (<90 mg/dl), basandosi sulla pubblicazione di alcuni studi che hanno rimesso in discussione la pratica clinica di un controllo glicemico più aggressivo62-63;

• nei pazienti diabetici è indicato uno studio coronarografico precoce. La conseguente strategia di rivascolarizzazione (angioplastica coronarica o bypass aorto-coronarico) dovrebbe essere discussa da un team multidisciplinare (“heart team”) dopo valutazione delle caratteristiche cliniche e dell’anatomia coronarica del singolo paziente. In questo senso, i registri e i trial randomizzati hanno evidenziato che i pazienti diabetici con malattia coronarica multivasale beneficiano di una migliore sopravvivenza dopo trattamento con bypass coronarico64;

• nel caso di angioplastica coronarica, si dovrebbero utilizzare stent medicati che hanno mostrato una significativa riduzione della mortalità e di infarto miocardico rispetto a quelli non medicati65;

• come già sottolineato, la terapia antipiastrinica ha molta importanza in questi pazienti a causa del noto stato di iper-reattività piastrinica. A tale proposito è noto che il diabete mellito e l’iperglicemia inducono resistenza all’acido acetilsalicilico e al clopidogrel, indipendentemente dal dosaggio giornaliero66. Appaiono quindi di notevole interesse clinico le recenti evidenze sulla significativa riduzione degli eventi ischemici nei pazienti diabetici con l’utilizzo di ticagrelor67 e ancora di più con prasugrel68;

• per quanto riguarda la valutazione glicemica, è consigliabile registrare una glicemia all’ingresso di ogni paziente con infarto miocardico ed eventualmente monitorarla di frequente nei pazienti diabetici o con primo riscontro di iperglicemia: in questi ultimi è indicato anche un attento studio metabolico con dosaggio dell’emoglobina glicata69.

Il paziente con fibrillazione atriale

Nei pazienti che si presentano con ACS, la FA può essere epifenomeno dell’evento acuto (l’aritmia infatti complica acutamente il 6,3% degli infarti miocardici) o essere già presente come reperto anamnestico al momento del ricovero70. In presenza di FA è indicato associare alla doppia terapia antipiastrinica anche la terapia anticoagulante orale. Questo comporta un aumento del rischio emorragico71,72: l’aggiunta di un secondo antipiastrinico all’aspirina, infatti, aumenta il rischio di sanguinamento dal 2-3% al 4-6%, e l’aggiunta a questi della terapia anticoagulante orale porta il rischio al 10-14%. I sanguinamenti fatali sono circa 1/10 di tutti i sanguinamenti e sono rappresentati per metà da emorragie intracraniche e per l’altra metà da sanguinamenti dell’apparato gastroenterico73. I pazienti anziani con ACS e FA sono perciò ad alto rischio di sanguinamento e tale rischio aumenta con l’incremento della terapia antitrombotica74,75.

Nonostante vi sia una carenza di dati riguardo alla durata della terapia antipiastrinica e riguardo a quale farmaco antipiastrinico interrompere per primo, sembra attualmente consigliabile che la triplice terapia con aspirina, clopidogrel e anticoagulante debba essere attentamente bilanciata tra rischio trombotico ed emorragico (quantificati rispettivamente secondo il CHA2DS2-VASc score e il HAS-BLED score), e durare il minor tempo possibile. È inoltre consigliabile mantenere livelli di INR più bassi (2-2,5), anche se nessuno studio prospettico ha evidenziato una riduzione dei sanguinamenti con questa strategia76.

L’utilizzo di prasugrel e ticagrelor al momento non è consigliato, in riferimento al riscontro – anche se solo in uno studio osservazionale77 –di un’assenza di beneficio e un maggiore rischio emorragico. Inoltre, l’attuale mancanza di uno specifico antidoto per i nuovi anticoagulanti orali ne impone un cauto utilizzo in triplice terapia, soprattutto nei pazienti a elevato rischio emorragico come gli anziani.

Per quanto riguarda la scelta dello stent da impiantare nel caso di angioplastica coronarica, sappiamo che in caso di impianto di stent non medicato è consigliata la terapia con doppio antiaggregante per un mese e in caso di stent medicato per almeno 6 mesi, sebbene il rischio di trombosi intrastent tra 1 e 12 mesi sia simile per entrambi i dispositivi78. Sulle recenti linee-guida ESC per rivascolarizzazione miocardica79, si consiglia di impiantare uno stent medicato nei pazienti con basso rischio emorragico (HAS-BLED≤2) e di valutare nello specifico le caratteristiche del paziente in caso di rischio elevato (≥3).

Nei pazienti a elevato rischio di sanguinamento, si può considerare la possibilità di somministrare il solo clopidogrel associato ad anticoagulante sulla base di un piccolo studio randomizzato80 che ha mostrato una riduzione dei sanguinamenti – in assenza di un aumento degli eventi trombotici – nei pazienti sottoposti a stenting coronarico trattati con questo approccio farmacologico invece che con la tradizionale triplice terapia. Per confermare questi dati serviranno però trial randomizzati di grandi dimensioni, alcuni dei quali sono già in corso e confrontano la duplice e la triplice terapia con i nuovi anticoagulanti orali in corso di ACS.

È raccomandata un’adeguata gastroprotezione con l’utilizzo di un inibitore di pompa protonica, che ha dimostrato di ridurre i sanguinamenti in pazienti con storia di sanguinamento gastrointestinale o a elevato rischio emorragico81.

La fragilità

Al di là dei tipici indicatori clinici e di laboratorio fin qui descritti, la valutazione del rapporto rischio/beneficio delle possibili strategie terapeutiche nel paziente anziano, e soprattutto del grande anziano, non può esulare da una stima più generale dello stato di autonomia e performance.

La fragilità può essere definita come una condizione di diminuita resistenza a eventi stressogeni, per riduzione delle riserve fisiologiche di vari organi e sistemi, che si traduce in improvvisi e sproporzionati cambiamenti nello stato di salute e nell’autonomia del paziente ed è associata a un maggiore rischio di esito infausto in corso di eventi avversi anche minori82,83.

Dal punto di vista clinico, la fragilità si presenta come:

• estrema affaticabilità;

• inspiegabile perdita di peso;

• ridotto consumo calorico;

• riduzione della velocità della marcia;

• riduzione della forza degli arti.

L’identificazione di queste 5 variabili nell’ambito del Cardiovascular Health Study ha portato alla creazione di uno score semi-quantitativo (Fried Score), individuando una popolazione anziana di pazienti fragili, pre-fragili e non fragili con differente rischio di mortalità a 7 anni (rispettivamente il 43%, il 23% e il 7%)84. In uno studio prospettico osservazionale su una popolazione di 754 individui anziani, il disordine più comunemente associato alla morte dei pazienti è stata la fragilità (circa il 28% dei casi), seguita dalla insufficienza d’organo, dal cancro e dalla demenza85. La prevalenza di fragilità nella popolazione appare del 9% tra i 75 e i 79 anni, 16% tra gli 80 e gli 84 anni, 26% sopra gli 85 anni86. Il Cardiovascular Health Study ha offerto anche la possibilità di indagare la presenza di sovrapposizione tra fragilità, comorbilità e disabilità87: fragilità e comorbilità erano presenti contemporaneamente nel 46% della popolazione, fragilità e disabilità in circa il 6%, mentre la contemporanea presenza di fragilità, disabilità e comorbilità in circa il 22%. È essenziale notare come la fragilità fosse presente da sola (senza comorbilità o disabilità) in oltre il 26% dei casi: questo supporta l’idea della fragilità come fattore indipendente distinto da altre condizioni cliniche.

Nell’ambito delle malattie cardiovascolari, la presenza di fragilità è stata associata a un aumentato rischio di mortalità in corso di scompenso cardiaco cronico88, chirurgia cardiaca89, angioplastica coronarica90 e impianto transcatetere di protesi valvolare aortica91. In uno studio prospettico multicentrico92 che ha arruolato 307 pazienti consecutivi con più di 75 anni affetti da NSTEMI, una condizione di fragilità era presente in circa il 49% dei pazienti ed è stata indipendentemente associata (OR 2.2; CI 95%, 1,3-3,7) a evento avverso (morte, reinfarto, nuova rivascolarizzazione, sanguinamento, dialisi, ictus cerebri), mortalità intraospedaliera (OR 4,6; CI 95%, 1,3-16,8), mortalità a un mese (OR 4,7; CI 95%, 1,7-13) e mortalità a un anno (OR 4,3; CI 95%, 2,4-7,8). Più recentemente, un sotto-studio del TRILOGY ACS trial ha mostrato come i pazienti individuati come fragili utilizzando il Fried score presentino valori di mortalità a un anno significativamente maggiori rispetto ai pazienti non classificati fragili (30,2% vs 15%; HR: 1,52; 95% CI: 1,18-1,98; p=0,002)93. Lo studio STORM ha peraltro documentato come l’aumento di mortalità osservato nei pazienti fragili sia per lo più dovuto a un significativo aumento delle cause di morte non cardiache94. Questa osservazione non può non essere considerata nella valutazione della “futilità” di interventi terapeutici complessi, anche a fronte di una loro “fattibilità” nel paziente anziano e fragile.

In sintesi, l’identificazione del paziente fragile dovrebbe essere parte del normale processo di cura del paziente anziano, soprattutto al fine di non esporre il paziente a interventi invasivi che non solo apporterebbero scarso beneficio, ma che con buona probabilità finirebbero per essere dannosi. Oltre all’utilizzo di score clinici, non sempre pratico nell’ambito dell’attività clinica quotidiana, è in questo senso utile ricordare che dei 199 pazienti con più di 80 anni trattati in modo invasivo per infarto miocardico acuto nell’ambito del Minneapolis regional STEMI system, tra i 166 pazienti che vivevano in modo indipendente o con minima assistenza, oltre il 90% sono ritornati a simili condizioni di vita dopo la dimissione ospedaliera95.

Conclusioni

Sebbene il trattamento delle ACS sia ormai standardizzato secondo le raccomandazioni delle linee-guida di pratica clinica, le evidenze nei pazienti a maggior rischio sono scarse. Vi è un consenso generale che maggiore è il rischio di eventi ischemici, maggiore sia il beneficio di un approccio invasivo basato sulla coronarografia e, laddove possibile, la rivascolarizzazione. Questo atteggiamento è ormai sistematicamente perseguito nei Centri più attrezzati, con maggiore esperienza nella cura di pazienti complessi, o in reti di Centri che seguano protocolli condivisi di tipo hub and spoke. In queste condizioni, vengono oggi trattati invasivamente e con beneficio anche pazienti fino a pochi anni fa trattati conservativamente nel timore di grave danno iatrogeno. La fase intraospedaliera ha tratto giovamento dall’utilizzo pressoché sistematico dell’approccio radiale al cateterismo arterioso e da un utilizzo meno aggressivo e più mirato delle terapie antitrombotiche. La maggiore prudenza deve ora essere riservata alla fase post-ospedaliera, con impiego ragionato delle terapie antitrombotiche, di chiare istruzioni fornite in fase di dimissione, di protocolli ben definiti nel caso di successive procedure chirurgiche e di minimizzazione della durata della terapia antitrombotica combinata.




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