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Di cosa parliamo quando parliamo di salute. Parafrasando Raymond Carver, potremmo arrivare a qualsiasi conclusione. Quando parliamo di salute parliamo della vita. Almeno così dovrebbe essere. Ma i quindici minuti di durata media del colloquio tra il paziente e il medico non sembra possano permetterlo.

L’articolo di Lidia Borghi e dei suoi colleghi dell’ospedale San Paolo di Milano (pag. 149) ci dice che c’è una base da cui ripartire: è la disponibilità di buona parte dei medici e della maggioranza dei pazienti ad aprire la porta del loro incontro ad argomenti che sembrerebbero non collegati alla malattia. Ha ripreso a fare ginnastica? E come va il lavoro, la nipotina cresce, suo figlio si è sposato? Il ragionamento clinico può trarre vantaggio da una conversazione aperta ma non è solo questo il punto: è un passaggio essenziale per restituire umanità non tanto al paziente (che tutto sommato non ne avrebbe neanche bisogno) ma al medico. Anche lui può dire della propria passione sportiva, della nipotina o del matrimonio del figlio. Una relazione tra pari e non paternalistica è la premessa di una comprensione reciproca: anche per l’accettazione di una più tollerabile condizione di incertezza dovuta al ridimensionamento di una medicina onnipotente.

Quello che manca è il contesto. La cornice capace di favorire un’assistenza sanitaria attenta alla dimensione qualitativa. Il mito dell’efficienza impone “soluzioni” tecnologiche al di là di qualsiasi evidenza disponibile. Lo spiega bene Enrico Coiera (pag. 124): gli investimenti per la information technology nei sistemi sanitari sono dettati da un pregiudizio che prescinde da robuste prove di efficacia e, soprattutto, di sicurezza. La realtà della cartella clinica elettronica è esemplare: oggi non c’è interoperabilità tra sistemi informativi e gli ospedali non parlano tra di loro, il medico di medicina generale non è in rete con lo specialista, la farmacia ignora il pediatra di libera scelta. I dati del paziente sono esposti a rischi di ogni genere – tra hacker e industrie farmaceutiche (vedi pag. 113) – e la rete che teoricamente dovrebbe prendersi cura dell’intero percorso di salute non poggia su strumenti informativi funzionali che facilitino realmente il lavoro. Di contro, la compilazione della documentazione clinica assorbe un tempo infinito e sottrae attenzione che potrebbe essere dedicata al paziente.

La conferma della mancanza di una cornice che dia spazio alla componente qualitativa dell’assistenza viene dalle pagine del BMJ: sotto una lettera aperta ci sono 66 firme internazionali che hanno sollecitato maggiore attenzione per la ricerca qualitativa. La direzione della rivista ha risposto facendo presente che gli studi qualitativi ottengono meno citazioni e meno download. Una replica sconcertante perché mostra la deponenza anche di questa rivista a quegli aspetti bibliometrici che già condizionano drammaticamente le dinamiche e le carriere accademiche. Gli autori della lettera chiedevano altro, facendo presente il valore della qualitative research: «Qualitative studies help us understand why promising clinical interventions do not always work in the real world, how patients experience care, and how practitioners think. They also explore and explain the complex relations between the healthcare system and the outside world, such as the sociopolitical context in which healthcare is regulated, funded, and provided, and the ways in which clinicians and regulators interact with industry» (Greenhalgh T, et al. An open letter to The BMJ editors on qualitative research. BMJ 2016; 352: i563).

L’affidabilità di uno studio non dipende dal disegno con il quale è stato eseguito ma dalla rilevanza del quesito di ricerca, dalla plausibilità dei metodi, dalla coerenza dei risultati ma soprattutto dalla indipendenza degli autori e dalla trasparenza della ricerca.

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