Ascite e insufficienza renale

Salvatore Piano1, Marta Tonon1, Paolo Angeli1

1Unità di Medicina Interna a Indirizzo Epatologico, Dipartimento di Medicina (DIMED), Università di Padova.

Pervenuto su invito il 31 marzo 2016.

Riassunto. L’ascite è la più comune complicanza della cirrosi epatica. Compare come conseguenza di una abnorme vasodilatazione del circolo splancnico con riduzione del volume circolante efficace e attivazione dei sistemi vasocostrittori endogeni, causando ritenzione idrosalina. I pazienti con ascite hanno un elevato rischio di sviluppare ulteriori complicazioni della cirrosi epatica quali iponatriemia, peritonite batterica spontanea e insufficienza renale acuta e presentano una scarsa sopravvivenza. Recentemente, nuovi studi hanno permesso di comprendere meglio la fisiopatologia dell’ascite e dell’insufficienza renale acuta nei pazienti con cirrosi epatica. Inoltre, sono stati proposti nuovi criteri diagnostici per la diagnosi di insufficienza renale acuta e sindrome epatorenale. Verranno qui riportati lo stato dell’arte sulla fisiopatologia, diagnosi e trattamento dell’ascite e dell’insufficienza renale acuta nel paziente cirrotico. Inoltre, verranno elencati i punti che rimangono tuttora irrisolti e che necessitano di essere chiariti nel prossimo futuro.

Parole chiave. Albumina, ascite, insufficienza renale, paracentesi, sindrome epatorenale, terlipressina.

Ascites and acute kidney injury.

Summary. Ascites is the most common complication of cirrhosis. Ascites develops as a consequence of an abnormal splanchnic vasodilation with reduction of effecting circulating volume and activation of endogenous vasoconstrictors system causing salt and water retention. Patients with ascites have a high risk to develop further complications of cirrhosis such as hyponatremia, spontaneous bacterial peritonitis and acute kidney injury resulting in a poor survival. In recent years, new studies helped a better understanding of the pathophysiology of ascites and acute kidney injury in cirrhosis. Furthermore, new diagnostic criteria have been proposed for acute kidney injury and hepatorenal syndrome and a new algorithm for their management has been recommended with the aim of an early diagnosis and treatment. Herein we will review the current knowledge on the pathophysiology, diagnosis and treatment of ascites and acute kidney injury in patients with cirrhosis and we will identify the unmet needs that should be clarified in the next years.

Key words. Acute kidney injury, albumin, ascites, hepatorenal syndrome, paracentesis, terlipressin.

L’ascite

L’ascite è la più comune complicanza della cirrosi epatica con un’incidenza del 50% a 10 anni nel paziente con cirrosi compensata1. L’insorgenza di ascite rappresenta un evento che cambia notevolmente la prognosi di tali pazienti, in quanto si associa a un elevato rischio di sviluppare insufficienza renale acuta, peritonite batterica spontanea, iponatriemia e a un’elevata mortalità2.

Fisiopatologia dell’ascite nel paziente con cirrosi epatica

In accordo all’ipotesi della vasodilatazione arteriosa periferica (IVAP), il primum movens nella comparsa di ascite è rappresentato dall’ipertensione portale, che determina una iperproduzione di vasodilatatori nel distretto splancnico quali l’ossido nitrico, il monossido di carbonio, l’adrenomedullina, gli endocannabinoidi, ecc., che sono i responsabili della severa vasodilatazione arteriosa osservata in tali pazienti3. La conseguente riduzione del volume circolante efficace causa l’attivazione dei barocettori e i recettori di volume e la conseguente attivazione dei sistemi vasocostrittori endogeni (ortosimpatico, renina-angiotensina-aldosterone, produzione non osmotica di vasopressina)4. L’attivazione di tali sistemi vasocostrittori determina un incremento della gittata cardiaca e ritenzione di sodio e acqua a livello del tubulo contorto prossimale renale (per effetto dell’ipertono simpatico), del tubulo contorto distale (per effetto dell’aldosterone) e a livello del tubulo collettore (per effetto della vasopressina). Nelle fasi iniziali della malattia questo circolo iperdinamico compensa l’ipovolemia relativa; tuttavia, con il progredire della malattia l’incremento della ritenzione idrosalina determina la comparsa di ascite ed edemi. Successivamente, un ulteriore riduzione del volume circolante efficace determina un incremento dei sistemi vasocostrittori endogeni, con severa vasocostrizione renale e conseguente sindrome epatorenale. Per diversi anni la teoria della vasodilatazione arteriosa periferica ha rappresentato il principale meccanismo fisiopatologico dell’ascite, dell’iponatriemia e della sindrome epatorenale nel paziente con cirrosi epatica. Tuttavia, è stato recentemente evidenziato che nelle fasi più avanzate della malattia la gittata cardiaca si riduce determinando un’ulteriore riduzione del volume circolante efficace, ipotensione sistemica e ipoperfusione renale4. Inoltre, la traslocazione patologica di batteri o prodotti batterici dal lume intestinale al circolo portale e/o sistemico stimola il sistema immunitario attraverso il legame con i pattern recognition receptor. La risposta immunitaria determina quindi la liberazione di citochine proinfiammatorie che attivano ulteriormente la produzione di vasodilatatori quali l’ossido nitrico e il monossido di carbonio, incrementando la vasodilatazione splancnica e inducendo disfunzione multi-organo5.

Diagnosi differenziale dell’ascite nel cirrotico

In più del 95% dei casi l’ascite in un paziente con cirrosi epatica è secondaria all’ipertensione portale. Tuttavia, in una piccola percentuale dei pazienti l’ascite può essere secondaria a neoplasie, tubercolosi, patologie pancreatiche, ecc. L’approccio iniziale a un paziente con ascite deve includere una anamnesi dettagliata, una valutazione degli indici di funzionalità epatica e renale, una ecografia addominale e una valutazione del liquido ascitico6. Quest’ultima è fondamentale in quanto è in grado di dare 3 informazioni essenziali: 1) è in grado di escludere cause di ascite non correlate alla cirrosi; 2) è in grado di escludere la presenza di una peritonite batterica spontanea (PBS); 3) è in grado di identificare una popolazione di pazienti a elevato rischio di sviluppare una PBS che potrebbero beneficiare di una profilassi antibiotica (figura 1).




Riguardo al primo punto il gradiente di albumina tra siero e ascite (albumina sierica-albumina su liquido ascitico - SAAG) rappresenta il miglior marker diagnostico. Infatti, un SAAG >1,1 è indicativo di una ipertensione portale con un’accuratezza del 97%. Riguardo al secondo punto, una concentrazione di PMN su liquido peritoneale >250 el/µL è diagnostica per PBS e gli esami colturali possono permettere di identificare il germe coinvolto nella PBS e permettere di titolare la terapia antibiotica. Infine, una concentrazione di proteine totali su liquido ascitico <1,5 g/dl rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di peritonite batterica spontanea (PBS) e, in pazienti con epatopatia avanzata (Child Pugh score ≥9, bilirubina ≥3 mg/dl, creatinina ≥1,2 mg/dl e/o sodiemia ≤130 mmol/L), rappresenta un’indicazione alla profilassi della PBS con norfloxacina in quanto ha dimostrato di prevenire l’insorgenza di PBS e migliorare la sopravvivenza in questi pazienti7.

Quindi, in conclusione, un’adeguata analisi del liquido ascitico deve comprendere: albumina, proteine totali, conta dei polimorfonucleati (PMN) e un esame colturale (utilizzando flaconi per emocoltura riempiti al letto del paziente). Nel caso in cui la diagnosi di ascite secondaria alla cirrosi non sia chiara, possono essere utili il dosaggio di amilasi, la citologia, la ricerca dei micobatteri e il pro-BNP. La severità dell’ascite viene definita secondo un criterio clinico per cui l’ascite di grado 1, o lieve, rappresenta l’ascite che è identificata solo grazie all’esame ecografico; il grado 2, o moderata, rappresenta una ascite moderata che si associa a un simmetrico aumento del volume dell’ascite; il grado 3, o massiva, è caratterizzato da una marcata distensione addominale6.

Terapia dell’ascite nel paziente cirrotico

Il trattamento di prima linea dell’ascite va titolato in base alla severità dell’ascite e ha come obiettivo quello di determinare un bilancio sodico negativo (figura 2). Nell’ascite moderata il primo provvedimento è quello di ridurre misuratamente l’introito di sodio a circa 5-6 gr di sale al dì (80-120 mmol/die)6. Il secondo si basa sulla terapia diuretica. Considerato il ruolo primario dell’iperaldosteronismo secondario nel determinare la ritenzione idrosalina nel paziente cirrotico, il farmaco di scelta è un diuretico antialdosteronico (spironolattone/canrenoato di potassio) che si è dimostrato più efficace di un diuretico dell’ansa (furosemide) nel trattamento dell’ascite8. Il trattamento prevede una dose iniziale di 100 mg/die, incrementabile fino a un massimo di 400 mg/die6. Nei pazienti al primo episodio di scompenso ascitico questo trattamento è in genere sufficiente e l’aggiunta della furosemide non apporta un maggiore beneficio9. Al contrario, in pazienti con scarsa risposta all’antialdosteronico, o con ascite recidivante, la terapia di scelta è quella di un’associazione tra furosemide (partendo da 40 mg al dì fino a un massimo di 160 mg/die) e antialdosteronico10. I diuretici possono indurre disordini elettrolitici e insufficienza renale acuta prerenale ed è quindi necessario monitorare la funzionalità renale e gli elettroliti durante il trattamento, in particolare in occasione di una modifica delle dosi di diuretico.




In pazienti con ascite massiva, la paracentesi evacuativa rappresenta la terapia di scelta6. Può essere complicata da disfunzione circolatoria post-paracentesi (PPCD), che viene definita come un incremento dell’attività reninica plasmatica di almeno il 50% rispetto al basale, dopo 5-7 gg dalla paracentesi. La PPCD si associa a una più rapida comparsa di ascite, a un aumentato rischio di sviluppare iponatriemia, sindrome epatorenale e a una ridotta sopravvivenza11. L’infusione di albumina (alla dose di 8 gr per litro di ascite evacuata) è la migliore strategia terapeutica per prevenire la PPCD dopo paracentesi di ampio volume (>5 l) in quanto risulta superiore al trattamento con altri plasma expander11. Inoltre, in una meta-analisi del 2012 di trial clinici randomizzati controllati, la somministrazione di albumina si è dimostrata associata a una migliore sopravvivenza rispetto ad altri plasma expander12. In caso di paracentesi di volume inferiore a 5 l, altri plasma expander potrebbero rappresentare un’alternativa equivalente. Dopo la paracentesi evacuativa è necessario intraprendere una terapia con antialdosteronici +/- furosemide per prevenire la recidiva dell’ascite.

Alcuni pazienti con cirrosi possono presentare ascite refrattaria alla terapia diuretica. Viene definita “ascite refrattaria” l’ascite che non può essere mobilizzata dalla terapia diuretica o che recidiva precocemente dopo paracentesi13. Esistono due tipi di ascite refrattaria: l’ascite resistente ai diuretici e l’ascite intrattabile con diuretici. La prima rappresenta circa il 10% di tutti i casi di ascite refrattaria ed è caratterizzata da un’inefficace mobilizzazione dell’ascite alla dose massima di diuretici utilizzabile in questi pazienti (400 mg di antialdosteronico e 160 mg di furosemide). La seconda rappresenta invece circa il 90% di tutti i casi di ascite refrattaria ed è caratterizzata dall’impossibilità di mobilizzare l’ascite incrementando la terapia diuretica per comparse di complicanze (insufficienza renale, iponatriemia, encefalopatia epatica, ecc.). Il trattamento iniziale più comune è rappresentato dall’esecuzione periodica di paracentesi evacuative associate a infusione di albumina6,11. Il posizionamento di shunt porto-sistemico intraepatico posizionato per via transgiugulare (TIPS) rappresenta una valida alternativa in pazienti selezionati in quanto è in grado di ridurre la velocità di ricomparsa dell’ascite e il numero di paracentesi evacuative14,15. L’effetto della TIPS sulla sopravvivenza è controverso. Infatti, in una meta-analisi dei trial clinici randomizzati controllati non ha dimostrato una differenza di sopravvivenza tra i pazienti trattati con TIPS e quelli trattati con terapia standard16. Al contrario, una meta-analisi più recente, che ha incluso i dati individuali dei pazienti ammessi nei trial clinici, ha dimostrato un beneficio, in termini di sopravvivenza, nei pazienti trattati con TIPS17. È importante tenere presente che nei trial clinici randomizzati controllati condotti finora, i pazienti con insufficienza epatica avanzata (bilirubina >5 mg/dl, INR >2, encefalopatia epatica e insufficienza renale) sono stati sistematicamente esclusi e di conseguenza la TIPS non dovrebbe essere posizionata in questi pazienti. Il posizionamento della TIPS può essere complicato da insorgenza di encefalopatia epatica e insufficienza cardiaca16. L’ecocardiografia può essere utile nel selezionare i pazienti a elevato rischio di sviluppare uno scompenso cardiaco. Infatti, un rapporto E/A ≤1, che rappresenta un marker surrogato di disfunzione diastolica, è stato associato a un elevato rischio di inefficacia del trattamento e di scarsa sopravvivenza18.

Recentemente, è stato introdotto un nuovo device per il trattamento dell’ascite refrattaria: l’alpha pump. Questo sistema è costituito da un doppio catetere intraddominale (uno inserito nella cavità peritoneale e uno all’interno della vescica) collegato a una pompa inserita sottocute in grado di inviare il liquido ascitico dalla cavità peritoneale alla vescica a una velocità controllata tramite un computer esterno. In un singolo studio pilota, questa metodica si è dimostrata in grado di ridurre la necessità di paracentesi evacuative19, ma ulteriori studi randomizzati controllati sono necessari prima che possa essere applicata alla pratica clinica quotidiana.

Altri trattamenti medici sono stati sperimentati nei pazienti con ascite refrattaria. I vaptani, una classe di farmaci antagonisti dei recettori V2 della vasopressina, si sono dimostrati in grado di incrementare il volume urinario, aumentare la concentrazione di sodio e ridurre la frequenza delle paracentesi evacuative in pazienti con cirrosi e ascite recidivante20. Tuttavia, un trial randomizzato controllato di fase 3 sull’utilizzo per lungo termine del satavaptan è stato sospeso per un’aumentata mortalità nel braccio trattato con satavaptan rispetto al placebo20. La somministrazione di midrodina, un antagonista dei recettori alfa adrenergici in grado di incrementare l’escrezione di sodio nel paziente con cirrosi e ascite, si è dimostrata in grado di migliorare il controllo dell’ascite in un singolo trial clinico randomizzato controllato21. Nella gestione del paziente ascitico è, inoltre, importante evitare la somministrazione di antinfiammatori non steroidei, in quanto la loro somministrazione è associata a un elevato rischio di sviluppare insufficienza renale e resistenza ai diuretici per l’effetto antagonista sulla produzione renale di prostaglandine. Allo stesso modo, gli ACE inibitori e gli alfa-litici dovrebbero essere evitati. Inoltre, qualora fosse necessaria la somministrazione di antibiotici, deve essere evitata quella di aminoglicosidi che si associano a un elevato rischio di sviluppare insufficienza renale acuta. Nel 2010, uno studio retrospettivo22 ha messo in discussione l’utilità dei betabloccanti in pazienti con cirrosi epatica e ascite refrattaria. Infatti, in questo studio i pazienti trattati con betabloccanti presentavano una maggiore mortalità dei pazienti non trattati ed è stato ipotizzato che questo possa essere secondario a un incrementato rischio di disfunzione circolatoria post-paracentesi23. È necessario che in futuro vengano condotti studi con un adeguato disegno prima che siano possibili raccomandazioni in merito.

Indipendentemente dal trattamento specifico dell’ascite, il paziente con cirrosi epatica e scompenso ascitico presenta una scarsa sopravvivenza, di circa il 56% a 5 anni2, e necessita quindi di essere inviato presso un centro trapianti per la valutazione della eleggibilità al trapianto di fegato. Infine, il paziente cirrotico ascitico è estremamente fragile e, dopo uno scompenso acuto richiedente l’ospedalizzazione, presenta un elevato rischio di essere riospedalizzato entro 30 giorni dalla dimissione per un nuovo scompenso24. Per tale ragione, tali pazienti necessitano di una assistenza particolare dopo la dimissione. Un programma di cure, sviluppato nel 2013, in grado di garantire esami bioumorali, radiologici ed endoscopici tempestivi e l’accesso programmato a un ambulatorio e a un day hospital si è dimostrato in grado di ridurre le riospedalizzazioni a 30 gg dalla dimissione e a migliorare la sopravvivenza rispetto alla terapia standard in pazienti cirrotici con ascite dimessi dopo uno scompenso acuto24.

Prospettiva a cinque anni

Nonostante siano stati fatti notevoli progressi nella gestione del paziente cirrotico con ascite, rimangono ancora numerosi i punti da chiarire, in particolare:

la nuova ipotesi fisiopatologica sullo sviluppo di ascite nel paziente cirrotico, che vede centrale il ruolo dell’infiammazione, dovrà essere dimostrata in modelli sperimentali e in studi clinici;

la storia naturale dell’ascite di grado 1 e la necessità o meno di trattare l’ascite di grado 1 rimane da chiarire;

la sicurezza dell’utilizzo dei betabloccanti in pazienti con ascite refrattaria andrà chiarita con studi prospettici, possibilmente randomizzati controllati;

l’efficacia e la sicurezza dell’alpha pump dovranno essere valutate in studi clinici randomizzati controllati di fase 3;

l’utilizzo dei vasocostrittori quali la midodrina e/o terlipressina nel trattamento dell’ascite refrattaria dovrà essere valutato in studi futuri;

nuovi trial clinici randomizzati controllati dovranno verificare la sicurezza dei vaptani nei pazienti con cirrosi epatica avanzata.

L’insufficienza renale nel paziente cirrotico

Criteri diagnostici e stadiazione

I pazienti con cirrosi epatica presentano un elevato rischio di sviluppare insufficienza renale acuta (AKI)25. L’AKI si associa a un’elevata mortalità ospedaliera in tali pazienti. Nonostante la creatinina sierica presenti numerosi limiti di accuratezza nel paziente cirrotico26, è il marcatore più utilizzato per la diagnosi di AKI ed è tuttora il biomarker di riferimento per la diagnosi di AKI nel paziente cirrotico. Per anni l’insufficienza renale nel paziente con cirrosi epatica è stata definita secondo un cut-off di creatinina di 1,5 mg/dl27. Tuttavia, l’acuzie dell’insufficienza renale richiede un criterio temporale e uno quantitativo di variazione della funzione renale. Tali criteri erano stati chiaramente definiti solo per la sindrome epatorenale di tipo 1 (incremento di creatinina del 100% rispetto al basale in meno di 2 settimane con valore finale >2,5 mg/dl) e in alcuni trial clinici randomizzati controllati (incremento del 50% rispetto al basale con valore finale >1,5)10,11. Recentemente, l’introduzione in ambito nefrologico dei criteri RIFLE, AKIN e KDIGO ha permesso di meglio chiarire la definizione di AKI nel paziente cirrotico. Infatti, numerosi studi hanno dimostrato che l’applicazione di tali criteri è un ottimo predittore di mortalità sia a breve sia a lungo termine nei pazienti con cirrosi epatica28-31. L’International Club of Ascites ha quindi proposto nuovi criteri diagnostici per l’insufficienza renale acuta nel paziente cirrotico, accettando di fatto i criteri KDIGO. In base a tali criteri, si definisce “AKI” un incremento di creatinina sierica ≥0,3 mg/dl nelle 48 ore o di almeno il 50% rispetto al basale negli ultimi 7 giorni25. Il valore basale di creatinina deve essere l’ultimo valore disponibile nei precedenti 3 mesi. Inoltre, l’AKI viene stadiato in 3 classi di gravità in base all’incremento percentuale di creatinina rispetto al basale:

stadio 1: AKI con incremento di creatinina <2 volte rispetto al basale;

stadio 2: incremento di creatinina ≥2 volte, ma <3 volte rispetto al basale;

stadio 3: incremento di creatinina >3 volte rispetto al basale o AKI in un paziente con creatinina >4 mg/dl.

Fisiopatologia dell’insufficienza renale nel paziente cirrotico

Il paziente cirrotico è predisposto a sviluppare AKI, in particolare nelle fasi più avanzate della malattia, quando sono in atto tutte le alterazioni cardiocircolatorie descritte precedentemente. In tali condizioni, qualsiasi evento che turba l’omeostasi, quali la disidratazione, un eccesso di diuretici, un’emorragia o un’infezione, sono in grado di precipitare un AKI. Le infezioni batteriche, e in particolare la peritonite batterica spontanea, costituiscono l’evento scatenante più comune32. Le infezioni sono in grado di incrementare ulteriormente la produzione di vasodilatatori quali l’ossido nitrico e il monossido di carbonio nel distretto splancnico e stimolare la produzione di citochine pro infiammatorie, quali il TNF alfa, l’interleuchina 6 e l’interleuchina 1 beta, che deprimono la funzione cardiaca stimolando la sintesi di ossido nitrico33,34 peggiorando ulteriormente la disfunzione circolatoria e la perfusione renale (figura 3). Non solo le infezioni batteriche, ma anche la traslocazione batterica per se è in grado di determinare queste alterazioni; infatti, è stato osservato come i pazienti senza infezione, ma con DNA batterico circolante, presentino le stesse alterazioni emodinamiche osservate nei pazienti con peritonite batterica spontanea35. Un’iperattivazione dei sistemi vasocostrittori endogeni può successivamente determinare una significativa vasocostrizione nel distretto renale che è tipica della sindrome epatorenale. Tuttavia, è importante tenere conto che l’AKI nel paziente con un’infezione batterica non è necessariamente secondario a un’ipoperfusione renale, ma può essere il risultato di una risposta adattativa delle cellule tubulari in risposta a uno stimolo infiammatorio36,37. In particolare, il legame di sostanze di derivazione batterica, quali i pathogen associated molecular pattern con i pattern recognition receptor in sede tubulare, determina una cascata proinfiammatoria che, combinata alla disfunzione del microcircolo, induce le cellule tubulari a prioritizzare i processi di sopravvivenza cellulare (quali il mantenimento del potenziale di membrana e l’arresto del ciclo cellulare) a spese della “funzione renale”. Queste condizioni si possono verificare anche in presenza di un flusso renale normale e/o aumentato e determinano una severa riduzione del filtrato glomerulare (figura 3). Tale ipotesi trova una conferma nell’elevata espressione dei Toll like receptor 4 (un pattern recognition receptor) osservata in cellule tubulari renali di pazienti cirrotici con AKI e in un modello sperimentale di cirrosi38,39.

Diagnostica differenziale e gestione iniziale del paziente con insufficienza renale acuta

La gestione iniziale del paziente con AKI richiede l’attuazione di una serie di provvedimenti con l’obiettivo di trattare l’AKI e impedirne il peggioramento e favorire la diagnosi differenziale per un trattamento specifico (figura 4)25. Nei pazienti con stadio di AKI 1, è necessario ridurre o sospendere i diuretici, sospendere l’uso di farmaci nefrotossici (FANS, ACE-inibitori, aminoglicosidi, ecc.), somministrare soluzioni reidratanti, in caso di franca disidratazione, o sangue, in caso di emorragia digestiva. Devono essere ricercate e trattate infezioni batteriche concomitanti. Nel caso in cui tali provvedimenti non risultino efficaci e ci fosse una progressione da uno stadio 1 a uno stadio 2 o 3, bisogna sospendere i diuretici e iniziare espansione con albumina alla dose di 1 g/kg di peso corporeo per 2 giorni. In caso di mancata risposta alla terapia la diagnosi differenziale è principalmente tra una sindrome epatorenale e una nefropatia parenchimale (nella maggior parte dei casi una necrosi tubulare acuta). Bisogna quindi valutare il soddisfacimento dei criteri diagnostici della sindrome epatorenale per escludere la presenza di un danno renale parenchimale con esame urine, proteinuria delle 24 h ed ecografia renale (tabella 1). Con i nuovi criteri dell’ICA non c’è alcun cut-off di creatinina necessario per la diagnosi di sindrome epatorenale.

Nel caso in cui tali criteri siano soddisfatti, è necessario intraprendere una terapia specifica per la sindrome epatorenale con vasocostrittori e albumina (alla dose di 20-40 gr/die). Tra i vasocostrittori, la terlipressina è quello maggiormente studiato in trial clinici randomizzati controllati40-44 e ha dimostrato di essere superiore all’associazione di midodrina e octreotide nel trattamento della sindrome epatorenale. La terlipressina può essere somministrata come boli endovenosi o come infusione continua, ma quest’ultima si è dimostrata la migliore modalità in quanto risulta lievemente più efficace ed è associata a una minore insorgenza di effetti collaterali44. La noradrenalina può essere considerata un’alternativa alla terlipressina, ma necessita di monitoraggio continuo e può essere utilizzata solo in terapia intensiva45. Il trattamento va continuato fino alla normalizzazione della creatinina. Il trattamento con terlipressina e albumina è efficace nel 35-50% dei pazienti. In circa il 20% dei casi, la sindrome epatorenale può recidivare e in questi casi un nuovo trattamento con terlipressina e albumina è efficace. Va segnalato che in alcuni di questi pazienti si osserva una recidiva dell’HRS a ogni tentativo di sospendere la terlipressina ed essi possono necessitare di un trattamento a lungo termine fino al trapianto46. In caso di non risposta, la dialisi può rappresentare una possibile strategia terapeutica per i pazienti in lista d’attesa per trapianto di fegato, che tuttora rappresenta il trattamento ottimale del paziente con sindrome epatorenale47. Livelli basali elevati di creatinina e di bilirubina, e una scarsa risposta pressoria al terzo giorno dall’inizio della terapia, sono stati identificati come predittori prognostici negativi di risposta alla terapia con terlipressina e albumina48, per tale ragione è opportuno che il trattamento sia iniziato il prima possibile.

Il trattamento della nefropatia parenchimale va discusso caso per caso in relazione alla severità e al tipo di danno renale. Nei pazienti con necrosi tubulare acuta, la terapia medica di supporto dovrebbe essere la stessa di quella prevista per i pazienti non cirrotici, inclusa la terapia dialitica. Le differenti metodiche dialitiche (emodialisi, emofiltrazione continua veno-venosa, ecc.) non sono state specificamente confrontate in questi pazienti. Altre metodiche, quali la separazione e l’assorbimento frazionato del plasma (Prometheus) e/o la dialisi dell’albumina (MARS) non hanno dimostrato un significativo beneficio sulla sopravvivenza, sebbene la MARS abbia dimostrato di ridurre significativamente i valori di creatinina sierica rispetto alla terapia standard in pazienti con insufficienza epatica acuta su cronica49,50.







Lacune da colmare e prospettive a cinque anni

Nonostante i notevoli passi avanti nel trattamento dell’AKI, e in particolare della sindrome epatorenale nel paziente con cirrosi epatica, rimangono numerosi gli aspetti da chiarire in futuro.

Il primo è legato alla diagnosi differenziale della sindrome epatorenale. Infatti, per anni, si è ritenuto che la sindrome epatorenale fosse un tipo di AKI completamente funzionale, tuttavia, ciò è stato attualmente messo in discussione. Infatti, è stato osservato che i reni di pazienti cirrotici che avevano presentato un AKI su CKD e che non avevano né proteinuria (<500 mg/24 h) né ematuria (GR <50 el/µL) significative (criteri diagnostici per HRS), nella maggior parte dei casi presentavano segno di danno renale glomerulare e tubulare51. Appare, quindi, che i criteri attuali non siano in grado di differenziare chiaramente tra una HRS e un danno renale parenchimale. L’utilizzo di nuovi biomarcatori di danno tubulare sembra essere molto promettente. In particolare, la neutrophil gelatinase-associated lipocalin (NGAL) è risultata significativamente più elevata in pazienti con necrosi tubulare acuta rispetto ai pazienti con AKI pre-renale o HRS52,53. Tuttavia, i pazienti con HRS-AKI precipitata da infezioni batteriche presentavano valori di NGAL simili ai pazienti con ATN-AKI, suggerendo che in tali pazienti vi possa essere una quota di danno tubulare secondario all’infiammazione. Studi futuri dovranno meglio chiarire il ruolo dei biomarcatori di danno tubulare nella diagnosi differenziale dell’AKI nei pazienti con cirrosi epatica.

L’applicazione dell’algoritmo diagnostico-terapeutico recentemente proposto dall’ICA per la gestione dell’AKI in pazienti con cirrosi epatica è per lo più basato su opinioni di esperti e dovrà essere validato in futuri studi clinici.

L’efficacia e la sicurezza del trattamento con terlipressina e albumina in pazienti con HRS e creatinina <2,5 mg/dl dovranno essere valutate in futuri trial randomizzati controllati.

Il timing e la metodica ottimale della terapia dialitica in pazienti con AKI intrinseco e/o HRS non responder alla terapia medica dovranno essere dimostrati in studi futuri.

L’ultimo aspetto è anche quello forse più importante e riguarda il concetto di insufficienza epatica acuta su cronica (ACLF). Infatti, i pazienti con uno scompenso acuto della cirrosi possono presentare una sindrome clinica caratterizzata da insufficienza di uno o più organi (fegato, reni, encefalo, polmoni, sistema cardiocircolatorio e coagulazione) chiamata ACLF e che si associa a un’elevata mortalità ospedaliera54. In questo contesto, l’AKI non può essere considerato separatamente per due ragioni: 1) una classificazione prognostica basata sulle insufficienze d’organo è più accurata della stadiazione dell’AKI31; 2) il trattamento di un paziente con AKI e ACLF necessita di una strategia terapeutica che preveda la gestione di tutte le insufficienze d’organo. In questo contesto, ci sono dati preliminari che dimostrano come la severità delle insufficienze d’organo possa essere un predittore negativo di risposta alla terapia con terlipressina e albumina in corso di sindrome epatorenale55, e tale osservazione andrà dimostrata in studi futuri su un adeguato campione di pazienti. Inoltre, affinché vengano sviluppate strategie ottimali dell’AKI in corso di ACLF è necessario prima comprendere meglio la fisiopatologia dell’ACLF e un eventuale cross talk tra gli organi coinvolti nell’ACLF.




Conflitto di interessi: Salvatore Piano e Marta Tonon dichiarano l’assenza di conflitto di interessi; Paolo Angeli è membro dello Scientific Advisory Board della Sequana Medical.

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