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La sanità è tra gli ambiti dove maggiormente si concentra l’attenzione della nuova presidenza degli Stati Uniti. Oltre all’intenzione di cambiare l’Affordable care act così fortemente voluto da Barak Obama, sono in gioco i vertici e soprattutto le politiche delle agenzie istituzionali, dai National institutes of health alla Food and drug administration (FDA).

Per questo, la viewpoint preparata da Robert Califf per il JAMA ha il sapore di un documento di commiato, di un testamento culturale da parte di chi ha retto l’agenzia regolatoria statunitense nelle ultime stagioni e sta per tornare a lavorare agli studi clinici della Duke University. Col vento a favore della real world evidence di cui si sentono gli effetti in molti paesi, si esce rassicurati dalla lettura delle frasi di Califf che sottolineano l’importanza delle sperimentazioni controllate randomizzate per generare evidenze che non mettano a repentaglio la salute dei pazienti: «base essenziale per l’approvazione dei prodotti» in un contesto informativo troppo complesso per lasciare che sia solo il medico a decidere senza che le agenzie diano il necessario supporto.

Rischi e benefici di farmaci e dispositivi medici devono essere considerati con attenzione e la loro valutazione deve produrre “strumenti decisionali strutturati” utili alla pratica clinica (possibilmente diversi dai foglietti illustrativi di cui parla Paolo Nori nel suo libro, pag. 103). La definizione delle più appropriate strategie assistenziali devono dunque essere informate in modo esauriente per mettere il medico nelle condizioni di decidere insieme al malato, fermo restando – precisa Califf – che la considerazione delle preferenze del paziente resta una “emerging science” e come tale ancora alla ricerca di un consenso definitivo su modalità e percorsi di realizzazione.

Una cornice chiara e comprensibile è dunque la base per allineare gli interessi delle istituzioni a quelli degli altri attori della sanità, sostiene il direttore della FDA. L’informazione è uno dei punti critici e la conferma giunge da un altro articolo del JAMA firmato da Jerry Avorn, farmacoepidemiologo della Harvard Medical School. Le agenzie regolatorie devono raccogliere ed elaborare dati ma anche essere capaci di organizzarli e restituirli ai professionisti rendendoli utilizzabili facilmente. Come riuscirci? Ispirandosi al lavoro di comunicazione svolto dalle industrie farmaceutiche, la cui forza è nel poter contare su agenti bene addestrati e capaci di interagire con i clinici per motivarli a utilizzare i prodotti pubblicizzati. Avorn fornisce una serie di esempi di programmi pubblici di informazione sui farmaci articolati secondo modelli di promozione industriale, premiati da ottimi risultati sia in termini di efficacia dell’assistenza, sia di controllo della spesa sanitaria. Ma, come leggiamo nell’editoriale di Formoso e Font (pag. 75), purtroppo si tratta di esperienze tanto originali quanto poco diffuse.

In una sanità esasperatamente frammentata, un’attività informativa svolta dalle istituzioni pubbliche avrebbe un significato politico importante perché sarebbe un segnale di attenzione all’equità di cura della salute dei cittadini. Non solo in Italia, infatti, gli investimenti in attività di formazione sono molto diversi a seconda delle Regioni: basti pensare alla disomogeneità della spesa per acquisti di riviste, banche dati e point-of-care tool tra le diverse aziende sanitarie del nostro Paese. Selezionare, valutare e sintetizzare le evidenze dovrebbe essere una prerogativa essenziale del Ministero della salute e delle grandi istituzioni sanitarie: la mancanza di iniziativa in questa direzione non può essere risolta con una delega di responsabilità al singolo medico, affidando a lui l’onere di prendere decisioni cliniche in linea con le migliori prove di efficacia disponibili.

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