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Il dibattito sulla governance dei medicinali continua a essere in primo piano sulle riviste internazionali di medicina e politica sanitaria. Il New England Journal of Medicine del 29 marzo 2017 pubblica una Perspective di Daniel Carpenter dedicata a Scott Gottlieb, da poco nominato dal Presidente Donald Trump nuovo commissioner della Food and drug administration (FDA): «It seemed clear from Trump’s short list for commissioner that the primary qualification was not scientific acumen, public health credentials, or a successful career in biopharmaceutical science and innovation, but rather an ideological commitment to creating a “free marketplace” of therapeutics». L’attacco dello studioso di Harvard al possibile nuovo commissario è violento: troppi conflitti di interessi per i trascorsi rapporti con industrie farmaceutiche e poca credibilità scientifica, al contrario del predecessore Robert Califf.

Solo poco più prudenti i due autori di un altro pungente commento, uscito lo stesso giorno sulla rivista della Massachusetts medical society: «The central challenge for the agency is to decide what evidence should be required before a drug can be deemed “safe” and “effective”. Stated more bluntly, the agency faces a speed-versus-safety trade-off: the faster it approves drugs, the more likely it is that an unsafe, ineffective drug will be approved. The more cautiously the FDA approves drugs, the more likely it is that an effective drug will be denied approval, and a delayed approval results in less benefit offered to current patients». Amitabh Chandra, anche lui docente a Harvard, e Rachel E. Sachs, della Washington School of Law, indicano quattro questioni centrali all’ordine del giorno per la FDA: la metodologia e lo scopo della valutazione dei prodotti, il rapporto con le industrie, la determinazione dei prezzi (tra divieto per la FDA di negoziarli con le aziende e indifferibilità di una politica farmaceutica improntata alla sostenibilità), i rapporti con i cittadini e la gestione della pressione delle associazioni di pazienti e, infine, la trasparenza di procedure e di definizione delle decisioni.

L’abbandono della prospettiva tradizionale utile alla valutazione dell’efficacia e della sicurezza dei nuovi medicinali, in favore di una verifica prospettica affidata ai cosiddetti real world data di farmacoutilizzazione è il punto di arrivo di un sistematico lavoro ai fianchi dell’epidemiologia clinica classica, fondata su rigorose sperimentazioni controllate randomizzate di confronto tra strategie cliniche diverse a partire da un interrogativo di ricerca basato su un bisogno di salute reale. Anni di rubbish EBM hanno finito col mettere in discussione anche la metodologia più intransigente della ricerca clinica, proponendo come “novità” qualcosa che non lo è. La produzione di informazione sui farmaci nelle fasi successive alla commercializzazione è praticata da tempo per migliorare la salute della popolazione e la traduzione di queste informazioni in politiche sanitarie e farmaceutiche concrete è un’opportunità preziosa: lo dimostrano gli studi citati da Bishal Gyawali (pag. 171) e le ricerche presentate da Mirko Di Martino (pag. 165) e dal gruppo di epidemiologi di Torino nel lavoro di Teresa Spadea et al. (pag. 168). Sono esempi concreti di real world data utilizzati per il bene delle persone e da esperienze come queste si dovrebbe ripartire.

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