Medicina e arte

a cura di Luciano De Fiore

Il nero e l’azzurro

Parliamo ancora di ferite. Di una delle più gravi: quella inferta alla memoria collettiva. Lo spunto è la mostra Ten Drawings for Projection (1989-2011), di William Kentridge allo Eye Filmmuseum: se capitate ad Amsterdam quest’estate, non perdetela.

È una ferita ricorrente che, una volta apparentemente risanata, riprende a sanguinare. L’arma che la causa è l’oblio, la dimenticanza che la falsa coscienza, il tedio o la malafede spalancano quando non si vuole fare fino in fondo il lutto rispetto ad avvenimenti drammatici o a fasi storiche traumatiche. Nel caso dell’artista sudafricano, l’apartheid e la legge promossa e voluta da Nelson Mandela nel 1995, attraverso la Truth and Reconciliation Commission (TRC) che aveva come mandato raccogliere e registrare le testimonianze dei colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime dell’apartheid, e delle vittime di tali violazioni, con la possibilità di concedere l’amnistia ai rei confessi. Di fatto, Mandela e il suo governo avevano scelto la strada della riconciliazione nazionale, attraverso la costruzione di un dialogo tra vittime e carnefici, in antitesi al paradigma della “giustizia dei vincitori” o di una corte penale internazionale tipo Norimberga, orientata alla sola punizione dei colpevoli, a vantaggio invece della valorizzazione del perdono reciproco come strumento di ricomposizione sociale e politica della comunità civica. Una strada già percorsa in altre occasioni: nell’antichità, in Grecia, a chiusura della dittatura dei Trenta Tiranni (403 a.C.), e in epoca moderna in Spagna, alla caduta del franchismo.




Pur comprendendo le ragioni di Mandela, Kentridge – figlio di due importanti avvocati anti-apartheid – non fu d’accordo. A suo avviso, la ripresa del Sudafrica avrebbe dovuto comportare anche una punizione esemplare per i responsabili del segregazionismo razzista. Si rendeva conto però che così veniva a incarnare un sentimento che nella Storia è stato identificato, a torto o a ragione, col risentimento. Questo si attizza soprattutto quando il passato sembra non voler passare; l’intera esistenza umana appare come la cima di una opprimente memoria cumulativa. Il passato che non passa offre materiali al rancore e allo spirito di vendetta. Sentimenti che Mandela voleva evitare.

Tuttavia, teniamo a conservare nelle nostre memorie collettive una serie di sconfitte e di perdite. Consacriamo loro anche ricorrenze e date: come il Giorno della Shoah, che tramanda il ricordo dell’olocausto; o l’11 settembre per gli Stati Uniti; il 16 ottobre che rammenta il rastrellamento nel ghetto di Roma. Ma elaborare il lutto, non solo e non tanto sul piano personale, significa riproporlo ad libitum? Da sempre si cerca un punto di equilibrio, impervio e scabro, tra l’esigenza di non scordare ed il suo contrario, dimenticare invece, per superare e non fissare l’ira in un perenne rancore che può fungere da collante identitario, ma che fossilizza il trauma anche quando il sentimento del danno subìto è tramontato, alimentando una vittimologia popolare potenzialmente malsana, malinconica e rancorosa. Allora, può esser saggio fermare il pendolo. Può essere più liberatorio del ricordo, la sua faccia nascosta – come dice Borges –, l’oblio. Anche a prezzo di rinunciare a far giustizia? Forse, a patto di scegliere volta per volta cosa dimenticare, senza scivolare nella rimozione. Ovviamente è impercorribile qualsiasi cammino che non comporti l’onere del dolore.

Il lavoro del lutto, insomma, può fungere da antidoto al sentimento di vendetta. Un modo per fare il lutto è sublimarlo nella creazione artistica. Come fa Kentridge in questa mostra straordinaria: dieci brevi cortometraggi, realizzati in più di 20 anni, meditazioni intime e personali dell’artista, ma in stretta risonanza con la recente turbolenta storia del suo Paese. I film segnano una svolta per Kentridge: il suo ingresso nel mondo dell’arte internazionale anche nelle vesti di artista impegnato, interessato all’arte politica proprio per l’ambiguità e la contraddizione che la contraddistinguono, fatta com’è di gesti incompleti e conclusioni incerte: «Non ho mai provato a raffigurare l’apartheid, ma questi disegni e i film sono certamente generati e si nutrono della società brutalizzata lasciata dalla sua scia». Anche questa sua arte non è un manifesto attivista contro i crimini, ma una storia personale in cui il male è mescolato nella complessità dell’esistenza, la cui cifra resta l’incertezza.

La particolare tecnica di animazione utilizzata da Kentridge, per cui disegna, cancella e ridisegna ripetutamente a carboncino parti dei suoi bozzetti, permette di lasciare anche visivamente nel presente tracce del passato. In film come Johannesburg, 2nd Greatest City After Paris (1989), Felix in Exile (1994), History of the Main Complaint (1996) e Other Faces (2011), spiccano due personaggi: Soho Eckstein, un ricco industriale e immobiliarista di Johannesburg, e Felix Teitlebaum, il suo opposto, un sognatore, un uomo che riflette sulla vita e si chiede cosa stia accadendo nel mondo. Entrambi i personaggi sembrano cloni di uno stesso individuo, come le due metà in cui si scinde l’ingegner Carlo Valletti in Petrolio, di Pier Paolo Pasolini. Nei film di Kentridge, i due non sono identità fisse ma si ibridano di continuo. Nel corso della serie, i due personaggi si avvicinano sempre di più e l’artista li “usa” per esplorare una visione della condizione umana che non si centra su nessuna verità, ma sul dubbio e sull’apertura al cambiamento.
Come in Pasolini, è l’azzurro il colore che Kentridge usa per connotare la trasformazione in positivo. I suoi corti, di solito all’inizio impastati dal nero delle miniere, dei volti dei bantu, dei crimini e della prevaricazione segregazionista, si allagano poi di azzurro, riempiti da un’acqua rigenerante e salvifica. Che si sposa con quella del mare di fronte al museo, adagiato su una punta del porto, di fronte alla stazione centrale di Amsterdam.




Pasolini dunque ritorna. E non a caso, se è vero che il grande artista sudafricano era stato ospite del Padiglione Italia alla Biennale del 2015, presentando nell’occasione Triumphs & Laments, opera realizzata in carboncino e riassunta infine nella figura del corpo straziato di Pasolini, disteso per terra nello sterro dell’idroscalo di Ostia, «incarnazione della vittima di tutti i tempi, lo schiavo, il Cristo morto. E al tempo stesso, cadavere di tutto il rimosso di una nazione». Ancora una volta, arte a presidio della memoria.