Dalla letteratura

Notizie dall’ESMO19 di Barcellona

La promessa di ESMO 2019: tradurre la ricerca in una migliore assistenza

È un segnale positivo che il primo comunicato stampa dell’ESMO19 sia stato dedicato ai nuovi studi presentati a Barcellona sul rapporto tra efficacia e costi dei nuovi farmaci oncologici. Se ne è poi parlato a lungo per tutto il congresso, anche se le conclusioni di Kerstin Vokinger (Università di Zurigo) hanno da subito fatto notizia, se è vero che già nel suo studio i costi dei nuovi farmaci non sono risultati associati a benefici clinici in nessuno dei Paesi presi in esame. Peraltro, nella sua Svizzera alcune delle terapie più costose contro il tumore della prostata e il carcinoma polmonare hanno riportato punteggi più bassi, secondo l’ESMO Magnitude of Clinical Benefit Scale (ESMO-MCBS), rispetto a farmaci più economici che hanno ottenuto punteggi più alti.

Nulla di meglio quindi per inverare l’obiettivo dichiarato del congresso di quest’anno: tradurre i risultati della ricerca scientifica in una migliore pratica clinica, cioè in concreti benefici nell’assistenza ai pazienti. Restano non poche domande, sui quali il congresso non cessa di interrogarsi: i processi avviati in esperienze-pilota possono entrare a far parte della struttura delle istituzioni? In che modo le reti oncologiche possono essere espanse e utilizzate dalle istituzioni e cosa queste possono imparare dalle reti organizzate dai clinici? Quale impatto a lungo termine dovrebbero avere questi programmi sugli organismi sanitari?

Quel che è certo, è che si va verso un probabile mutamento radicale nell’organizzazione delle oncologie: i nuovi molecular tumor board che tengono conto della profilazione genetica affiancheranno, quando non soppianteranno, la tradizionale partizione su base istologica. Quali risorse sono già disponibili o devono essere pianificate per far fronte alla riorganizzazione? Quali strutture saranno necessariamente coinvolte, quali dovranno invece essere modificate o ampliate? In breve: come faremo a gestire il passaggio dal desiderio all’intenzione e dall’intenzione all’attuazione concreta?

Luciano De Fiore

Farmaci oncologici innovativi, il beneficio clinico vale il prezzo?

Pur essendo più costosi dei trattamenti standard, molti dei farmaci oncologici introdotti negli ultimi anni hanno portato benefici trascurabili per i pazienti. È questa la conclusione a cui sono giunti due studi presentati al Meeting annuale dell’European Society for Medical Oncology, i quali hanno indagato il rapporto tra il costo mensile dei farmaci oncologici introdotti negli ultimi 10-15 anni e alcuni parametri clinici, come la sopravvivenza, la qualità di vita e le complicanze associate ai trattamenti. Il primo studio ha analizzato il valore dei farmaci oncologici approvati tra il 2004 e il 2017 in Francia per il trattamento di tumori solidi. Prendendo come riferimento l’ESMO Magnitude of Clinical Benefit Scale (ESMO-MCBS), più della metà di questi agenti è risultata associata a un basso valore clinico aggiunto rispetto alle opzioni terapeutiche standard. Più di due terzi, invece, prendendo come riferimento l’Added Therapeutic Benefit Ranking (ASMR), l’indice utilizzato dall’ente regolatore francese. Inoltre, i nuovi farmaci sono risultati associati a un costo maggiore medio mensile di 2525 € rispetto ai quelli standard. «Questo è il primo studio in Francia che mette in relazione il prezzo dei farmaci con degli indici di valutazione indipendenti» – ha commentato Marc Rodwin della Suffolk University di Boston, tra gli autori della ricerca –, «e ha dimostrato che, anche se c’è un collegamento tra costi e valore aggiunto, questo è molto debole»1.




Il secondo studio, invece, ha indagato il rapporto tra benefici clinici e prezzo in riferimento ai farmaci oncologici approvati tra il 2009 e il 2017 per il trattamento dei tumori solidi in quattro Paesi europei e negli Stati Uniti, utilizzando l’ESMO-MCBS e l’American Society of Clinical Oncology Value Framework (ASCO-VF). Dai risultati è emerso che in media i nuovi farmaci oncologici costano meno della metà in Europa rispetto agli Stati Uniti. Nello specifico, per quanto riguarda quelli caratterizzati da un basso valore clinico aggiunto i prezzi vanno dai 4361 $-5273 $ al mese in Europa ai 12.436 $ al mese negli Stati Uniti. «I prezzi dei farmaci non sono risultati associati al beneficio clinico in nessuno dei Paesi che abbiamo analizzato» – ha spiegato Kerstin Vokinger, dell’University of Zurich, co-autore dello studio – «per esempio, in Svizzera alcuni degli agenti più costosi tra quelli destinati al trattamento del tumore della prostata o del polmone hanno i punteggi ESMO-MCBS più bassi, mentre quelli più economici hanno i punteggi più elevati»2. «Il prezzo è uno dei fattori principali che limitano l’accesso ai nuovi farmaci oncologici» – ha commentato Barbara Kiesewetter della Medical University of Vienna, membro dell’ESMO-MCBS Working Group – «ma possiamo usare questo score per stabilire quali sono i trattamenti che forniscono il maggiore beneficio clinico ai pazienti. Individuando i farmaci il cui prezzo è giustificato dal valore clinico possiamo favorire l’accesso alle migliori terapie standardizzate».

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. The price of added value for new anti-cancer drugs in France 2004-17. ESMO 2019, Abstract 1629O_PR.

2. Clinical benefit and prices of cancer drugs in the US and Europe. ESMO 2019, Abstract 1631PD_PR.




Radioterapia adiuvante nel carcinoma prostatico? La risposta dal RADICALS-RT

Nei pazienti con carcinoma prostatico la radioterapia adiuvante post-operatoria non ha alcun effetto positivo sulla progression free survival. Lo rivelano i dati – molto attesi – del trial RADICALS-RT, presentato al congresso annuale dell’ESMO. I ricercatori, coordinati da Chris Parker della Royal Marsden NHS Foundation Trust and Institute of Cancer Research di Londra, hanno randomizzato 1396 pazienti trattati chirurgicamente per carcinoma prostatico in centri di Danimarca, Canada e Irlanda a cicli di radioterapia immediata o alla strategia standard di osservazione + eventuale radioterapia di salvataggio. A un follow-up mediano di 5 anni, la PFS era dell’85% nel gruppo radioterapia e dell’88% nel gruppo terapia standard (hazard ratio [HR] 1,10; 95% intervallo di confidenza [IC] 0,81-1,49; p=0,56). Secondo Parker, «i risultati del trial ci suggeriscono che la radioterapia immediata dopo la chirurgia e quella di salvataggio in caso di recidiva hanno lo stesso impatto sulla mortalità. Questo indica con forza che l’osservazione deve essere l’approccio standard da adottare nel paziente appena operato di carcinoma prostatico. La buona notizia è che molti pazienti eviteranno gli effetti collaterali della radioterapia». I dati del trial sono stati confermati da una meta-analisi collaborativa denominata ARTISTIC e presentata anch’essa a ESMO 2019 effettuata sui dati di RADICALS-RT e di due trial simili, RAVES e GETUG-AFU17. A detta di Claire Vale della MRC Clinical Trials Unit dell’University College London, leader del team di ricercatori autori della meta-analisi, «i risultati di ARTISTIC forniscono una grande evidenza per supportare l’utilizzo di routine dell’approccio osservazione + eventuale radioterapia di salvataggio»1.

David Frati

Bibliografia

1. Parker C, Clarke NW, Cook A, Kynaston HG, et al. Timing of radiotherapy (RT) after radical prostatectomy (RP): first results from the RADICALS RT randomised controlled trial (RCT). ESMO 2019_Abstract LBA49_PR.

Atezolizumab in prima linea nell’NSCLC, lo studio IMpower110

Atezolizumab in prima linea migliora significativamente la overall survival (OS) rispetto alla sola chemioterapia (cisplatino o carboplatino e a pemetrexed o gemcitabina) in pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule squamoso e non squamoso (NSCLC) in stadio avanzato privo di mutazioni ALK o EGFR (wild-type - WT). Lo dimostra lo studio IMpower110, presentato a Barcellona. IMpower110 è uno studio di Fase III, randomizzato, aperto, per valutare l’efficacia e la sicurezza della monoterapia con atezolizumab rispetto a cisplatino o carboplatino e pemetrexed o gemcitabina (chemioterapia) in pazienti mai trattati con chemioterapia, selezionati in base al PDL-1, affetti da NSCLC avanzato non squamoso o squamoso senza mutazioni ALK o EGFR (wild-type; WT). In totale sono stati arruolati 572 partecipanti (555 WT) randomizzati con un rapporto 1:1 per ricevere: – monoterapia con atezolizumab, fino alla perdita del beneficio clinico (in base alle valutazioni dell’investigator), tossicità inaccettabile o decesso; oppure – cisplatino o carboplatino (a discrezione dello sperimentatore) in associazione con pemetrexed (non squamoso) o gemcitabina (squamoso), seguiti da una terapia di mantenimento con pemetrexed da solo (non squamoso) o dalle migliori cure di supporto (squamoso) fino alla progressione della malattia, a una tossicità inaccettabile o al decesso. L’endpoint di efficacia primaria è la sopravvivenza globale (OS) per il sottogruppo PD-L1 (TC3/IC3-WT; TC2/3/ IC2/3-WT; e TC1,2,3/IC1,2,3-WT), secondo quanto determinato dal test SP142. Gli endpoint secondari principali comprendono: la sopravvivenza libera da progressione (PFS), la percentuale di risposta oggettiva (ORR) e la durata della risposta (DoR). La popolazione di sicurezza comprendeva 286 pazienti nel braccio A e 263 nel braccio B. Gli AE (TRAE) e i TRAE di grado 3-4 si sono verificati rispettivamente nel 60,5% (braccio A) e nell’85,2% (braccio B) dei soggetti, e rispettivamente nel 12,9% (braccio A) e nel 44,1% (braccio B). Lo studio ha raggiunto l’endpoint primario in un’analisi intermedia in cui è stato dimostrato che la monoterapia con atezolizumab migliora la OS di 7,1 mesi rispetto alla sola chemioterapia (mediana OS=20,2 versus 13,1 mesi; HR=0,595, 95% IC: 0,398-0,890; p=0,0106) in pazienti con elevata espressione del marcatore PD-L1 (TC3/IC3-WT). La sicurezza di atezolizumab è risultata coerente con il profilo di sicurezza noto e non sono stati identificati nuovi segnali di sicurezza. Questo il commento di Filippo de Marinis, Direttore dell’Oncologia Medica Toracica dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e tra gli autori del trial: «I risultati dello studio IMpower110 hanno fornito evidenze significative dimostrando che il farmaco in monoterapia è efficace in prima linea nei pazienti con questo tipo di tumore, sia in forma squamosa che non squamosa, e in particolar modo in quei pazienti che presentano un’alta espressione di PDL-1. I dati dello studio IMpower110 aggiungono un ulteriore tassello nella strategia terapeutica nel tumore al polmone e confermano atezolizumab come valida opzione di trattamento in I linea per questo tipo di pazienti. È di qualche settimana fa, infatti, la notizia che l’autorità regolatoria europea ha approvato questo farmaco, in associazione a chemioterapia, per il trattamento del tumore del polmone sia a piccole cellule in fase avanzata sia in quello non a piccole cellule mai trattato precedentemente. Questo vuol dire che un numero sempre più ampio di pazienti con carcinoma polmonare potrà beneficiare dell’immunoterapia, in base a una strategia terapeutica personalizzata».

Carcinoma ovarico: olaparib + bevacizumab per la terapia di mantenimento

Una terapia di mantenimento più intensa, basata sull’aggiunta del PARB inibitore olaparib a bevacizumab, si associa a un beneficio clinico nelle pazienti affette da carcinoma ovarico, con e senza mutazione di BRCA. Sono stati presentati al Meeting annuale dell’European Society for Medical Oncology i risultati molto interessanti del trial di fase III PAOLA-1/ENGOT-ov25.

Lo studio ha reclutato 806 pazienti con carcinoma ovarico di stadio III/IV e caratterizzate da una precedente risposta parziale o completa alla terapia con chemioterapia standard e bevacizumab. In seguito alla conclusione del ciclo di chemioterapia, le pazienti sono state randomizzate (in rapporto 2:1) per ricevere il PARP inibitore olaparib o un placebo in aggiunta a bevacizumab. L’endpoint primario dello studio era costituito dalla sopravvivenza libera da progressione di malattia (PFS). Il follow-up medio dello studio è stato di 24 mesi per il braccio sperimentale e di 22,7 mesi per il braccio sottoposto a placebo + bevacizumab e la PFS media è risultata pari a 22,1 e 16,6 mesi, rispettivamente (HR 0,59; IC 95% 0,49-0,72; p<0,0001). «Lo studio riporta l’HR più elevato e la maggiore PFS che abbiamo mai visto», ha commentato Isabelle Ray-Coquard del Centre Léon Bérard di Lione, tra gli autori della ricerca. «Inoltre, la selezione delle pazienti non prevedeva limitazioni in termini di outcome chirurgico o presenza della mutazione BRCA, quindi le partecipanti rappresentano la popolazione generale delle donne con carcinoma ovarico avanzato». L’analisi dei sottogruppi ha poi messo in evidenza un guadagno maggiore, in termini di PFS, nelle pazienti con mutazione BRCA e deficit della ricombinazione omologa (HRD) con un HR di 0,31 e 0,33, rispettivamente. In queste pazienti, infatti, la PFS media è arrivata a raggiungere i 37,2 mesi, una sopravvivenza impensabile solo qualche anno fa per questo genere di pazienti. «I risultati relativi ai gruppi con BRCA e HRD identificano, per la prima volta, una popolazione di pazienti con un maggiore beneficio clinico associato all’aggiunta di olaparib al trattamento con bevacizumab», ha sottolineato Ray-Coquard.

Fabio Ambrosino




NSCLC metastatico: schema chemotherapy-free grazie alla combinazione di immunoterapia

La combinazione di nivolumab + ipilimumab a basso dosaggio ha mostrato di migliorare la sopravvivenza globale in un sottogruppo di pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule avanzato rispetto alla sola chemioterapia. Lo dimostrano i dati del trial CheckMate 227, presentati al congresso annuale dell’ESMO. Nella prima fase del trial, 1189 pazienti con espressione di PD-L1 >1% sono stati randomizzati a ricevere tre differenti trattamenti: nivolumab + ipilimumab a basso dosaggio, nivolumab da solo e chemioterapia da sola. I 550 pazienti con espressione di PD-L1 <1% sono stati randomizzati a ricevere nivo + ipi a basso dosaggio, nivolumab + chemioterapia e chemioterapia da sola. I pazienti con espressione di PD-L1 ≥1% trattati con nivolumab più ipilimumab hanno registrato una sopravvivenza globale mediana di 17,1 mesi (IC 95% 15,0-20,1 mesi) rispetto ai 14,9 mesi (IC 95% 12,7-16,7 mesi) dei pazienti trattati con chemioterapia (HR 0,79, IC 97,72% 0,65-0,96, p=0,007). Sopravvivenza libera da progressione, tassi di risposta obiettivi e durata della risposta erano tutti maggiori con nivolumab più ipilimumab rispetto alla chemioterapia. La sopravvivenza globale è risultata maggiore con nivolumab più ipilimumab vs chemioterapia anche nei pazienti con PD-L1 <1% e in tutti i pazienti randomizzati (quelli con PD-L1 <1% e >1%). Risultati che, secondo il primo autore dello studio, Solange Peters del Centre Hospitalier Universitaire Vaudois di Losanna, cambiano la pratica clinica perché aprono la strada a una opzione terapeutica chemoterapy-free per la cura dei pazienti con patologia avanzata. Per quanto riguarda i limiti legati al disegno dello studio, Peters ha spiegato che essendo iniziato prima che la combinazione di chemioterapia più immunoterapia o l’immunoterapia da sola fossero approvate per il trattamento di prima linea di NSCLC, la combinazione di nivo + ipi non è stata confrontata con gli attuali standard di cura1. «Sfortunatamente, non abbiamo incluso un braccio di confronto con la combinazione di chemioterapia + nivolumab nella coorte PD-L1 positiva, ma solo in quella negativa», ha detto. Tuttavia, un’analisi esplorativa ha suggerito che nivolumab + ipilimumab è più efficace di nivolumab da solo nel gruppo PD-L1 positivo, che a sua volta è più efficace della chemioterapia. Inoltre la combinazione nivo + ipi ha dimostrato una maggiore attività rispetto a nivolumab + chemioterapia nei pazienti con PD-L1 negativo. «Il passo importante ora sarà quello di sviluppare un algoritmo che permetta di selezionare il miglior trattamento di prima linea per ciascun paziente», ha aggiunto Peters. In attesa dei risultati di sopravvivenza a cinque anni, che permetteranno di vedere anche quale trattamento fra quelli disponibili (chemioterapia + anti PD-1, anti PD-1 da solo e combinazione di anti PD-1 e anti CTLA-4) è effettivamente migliore degli altri, un altro punto dirimente è quello di confrontare le tossicità. Le strategie terapeutiche a disposizione mostrano profili di sicurezza molto diversi in termini di grado, prevalenza e insorgenza di eventi avversi (diarrea, rash e fatigue per la combinazione nivo + ipi, tossicità gastrointestinale ed ematologica per la chemioterapia). Il basso dosaggio di ipilimumab (1 mg ogni 6 settimane) ha permesso però di tenere sotto controllo alcuni effetti collaterali, rendendo lo schema più tollerabile con conseguenti bassi tassi di interruzione. Sui nuovi dati del Checkmate 227, Marina Chiara Garassino (Istituto Nazionale dei Tumori di Milano) ha dichiarato: «Questi dati mostrano che abbiamo una nuova opzione terapeutica per il trattamento di prima linea del NSCLC metastatico, da aggiungere alle attuali opzioni terapeutiche di chemioterapia + immunoterapia indipendentemente dal livello di PD-L1 o immunoterapia come agente singolo per i pazienti con valori di PD-L1 di almeno il 50%». Ma sulla effettiva capacità di cambiare la pratica clinica, ha aggiunto: «Resta da capire quale sia il trattamento migliore per ogni paziente: chemioterapia + immunoterapia, immunoterapia da sola o immunoterapia + immunoterapia». Per personalizzare le cure saranno quindi necessari ulteriori informazioni sui biomarcatori.

Benedetta Ferrucci

Bibliografia

1. Peters S, Ramalingam SS, Paz-Ares L, et al. Nivolumab (NIVO) + low-dose ipilimumab (IPI) vs platinum-doublet chemotherapy (chemo) as first-line (1L) treatment (tx) for advanced non-small cell lung cancer (NSCLC): CheckMate 227 Part 1 final analysis. ESMO 2019, Abstract LBA4_PR.




NSCLC EGFR+, i dati di sopravvivenza dello studio FLAURA

Rispetto al trattamento con gli inibitori della tirosin-chinasi (TKI) di prima generazione, l’impiego di osimertinib in prima linea aumenta significativamente la sopravvivenza dei pazienti affetti da carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) con mutazione Ex19del/L858R di EGFR. È quanto emerge dai risultati dello studio FLAURA. Dai risultati è emerso un tasso di sopravvivenza complessiva di 38,6 mesi nei pazienti trattati con il TKI di terza generazione osimertinib rispetto ai 31,8 mesi del gruppo di pazienti trattati con i TKI di prima generazione, con un HR di 0,799 (p=0,0462). Al follow-up a tre anni il 54% dei soggetti in trattamento con osimertinib era ancora vivo, rispetto al 44% di quelli del gruppo di controllo. «I risultati sono significativi da un punto di vista sia statistico che clinico» – ha commentato Suresh Ramalingam del Winship Cancer Insitute dell’Emory University. «Questa è la prima volta che un TKI dimostra di poter allungare la sopravvivenza rispetto a un altro TKI». Inoltre, dopo la progressione di malattia, il 31% dei pazienti trattati con un TKI di prima generazione è passato al gruppo osimertinib; il 47% se si considera anche il periodo successivo alla conclusione dello studio. «Un dato conforme a quanto ci aspetteremmo in un setting di real world» – ha concluso Ramalingam – «in quanto solo il 50% dei pazienti che sviluppano la mutazione T790M sono candidabili al trattamento con osimertinib»1.

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Ramalingam SS, Gray JE, Ohe Y, et al. Osimertinib vs comparator EGFR-TKI as first-line treatment for EGFRm advanced NSCLC (FLAURA): final overall survival analysis. ESMO 2019, Abstract LBA5_PR.

Nivolumab + ipilimumab: i dati a 5 anni del trial CheckMate 067

Anche se il congresso ESMO19 non sarà ricordato per le novità in tema di melanoma, alcuni dati presentati sono più che interessanti. Più della metà dei pazienti con melanoma metastatico trattati con la combinazione nivolumab + ipilimumab sono vivi a 5 anni dall’inizio del trattamento. Un risultato impensabile prima dell’avvento dell’immunoterapia, rivelato dai dati a 5 anni del trial CheckMate 0671. Spiega James Larkin della Royal Marsden NHS Foundation Trust di Londra, coordinatore dello studio: «Nel passato, per il melanoma metastatico praticamente non esistevano opzioni terapeutiche. Gli oncologi lo consideravano un caso a sé tra i tumori, non più trattabile una volta metastatizzato. La chemioterapia tradizionale non ha mai funzionato bene con il melanoma, ma l’immunoterapia trasforma questo quadro molto negativo in uno in cui circa il 50% dei pazienti ha a disposizione un trattamento efficace. La priorità ora è trovarne uno anche per il restante 50%». I ricercatori coordinati da James Larkin hanno randomizzato 945 pazienti naïf con melanoma di stadio III o IV non resecabile al trattamento con NIVO+IPI, NIVO+placebo o IPI+placebo fino alla progressione o a livelli di tossicità inaccettabili. A 5 anni i tassi di OS sono risultati del 52% nel gruppo NIVO+IPI, del 44% nel gruppo NIVO+placebo e del 26% nel gruppo IPI+placebo. Il tempo medio di randomizzazione alla terapia successiva è stato di 8 mesi nel gruppo IPI+placebo, 25,2 mesi nel gruppo NIVO+placebo e non ancora raggiunto nel gruppo NIVO+IPI. «Sappiamo che una immunoterapia in combinazione ha effetti collaterali importanti, che portano molti pazienti a dover interrompere il trattamento. Ma questo non sembra danneggiare il successo del trattamento. In altre parole, gli outcome clinici nei pazienti che interrompono il trattamento a causa degli effetti collaterali sembrano essere altrettanto positivi di quelli raggiunti dai pazienti che non interrompono il trattamento, l’immunoterapia sembra riuscire a “educare” il sistema immunitario anche con un trattamento di breve durata».

David Frati

Bibliografia

1. Robert C, Grob JJ, Stroyakovskiy D, et al. 5-year survival outcomes of the CheckMate 067 phase 3 trial of nivolumab plus ipilimumab (NIVO+IPI) combination therapy in advanced melanoma. ESMO 2019, Abstract LBA68_PR.




Immunoterapia neoadiuvante per il tumore della mammella triplo negativo?

L’aggiunta dell’immunoterapia alla chemioterapia migliora il tasso di risposta patologica completa nelle pazienti con carcinoma della mammella triplo negativo. Ecco quanto emerge dai risultati dello studio KEYNOTE-522 – il primo trial di fase II nell’ambito dell’immunoterapia del tumore della mammella – presentati a Barcellona. Lo studio ha reclutato 1174 donne, randomizzate in rapporto 2:1 per ricevere, per 5 o 6 mesi prima di essere sottoposte a intervento chirurgico, pembrolizumab o placebo in aggiunta alla chemioterapia con antracicline, taxani e platino. Dopo l’intervento chirurgico le pazienti hanno continuato il trattamento relativo al braccio sperimentale di appartenenza per successivi 9 cicli. Dopo 15,5 mesi di follow-up, il tasso di risposta patologica completa – valutato per le prime 602 pazienti – è risultato pari al 51,2% del gruppo placebo e al 64,8% nel gruppo sottoposto a trattamento con pembrolizumab (p=0,00055). «Abbiamo messo in evidenza una differenza del 13,6%» – ha commentato Peter Schmid del Barts Cancer Insitute della Queen Mary University di Londra, tra gli autori dello studio –, «che rappresenta un beneficio clinicamente significativo». Anche dai risultati relativi alla sopravvivenza libera da eventi, poi, è emerso un trend favorevole per il trattamento con pembrolizumab, con un HR pari a 0,63. «Pur essendo dati preliminari» – ha sottolineato Schmid – «suggeriscono che l’aggiunta dell’immunoterapia alla chemioterapia neo-adiuvante potrebbe prevenire le recidive in questa popolazione. Tuttavia, abbiamo bisogno di dati a lungo termine per averne la certezza». Per quanto riguarda il profilo di sicurezza del trattamento, infine, eventi avversi di grado 3 o 4 si sono verificati nel 78% delle pazienti in trattamento con pembrolizumab e nel 73% di quelle del gruppo placebo. Quelli legati in modo specifico all’immunoterapia, tuttavia, si sono verificati rispettivamente nel 42% e nel 21% delle pazienti. «L’immunoterapia aggiunge qualche effetto collaterale» – ha concluso Schmid – «ma non sono emersi nuovi segnali relativi alla sicurezza del trattamento».

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Schmid P, Cortés J, Pusztai L, et al. KEYNOTE-522: Phase 3 study of pembrolizumab + chemotherapy vs placebo + chemoterapy as neoadjuvant treatment, followed by pembrolizumab vs placebo as adjuvant treatment for early-stage high-risk triple negative breast cancer. ESMO 2019, Abstract LBA8_PR.

Tumore della mammella HR+/HER2-, nuovi dati a favore degli inibitori di CDK4/6

Al dunque, le novità nella terapia dei tumori mammari hanno costituito forse la nota clinica più saliente del meeting ESMO di quest’anno. Per esempio, nuove evidenze mostrano che i trattamenti basati sull’impiego di inibitori di CDK4/6 in aggiunta a fulvestrant migliorano la sopravvivenza complessiva delle pazienti con carcinoma della mammella avanzato HR+/HER2-. È quanto emerge dai risultati di due trial – MONALEESA-3 e il MONARCH 2 – presentati a Barcellona. Lo studio MONALEESA-3 ha indagato l’efficacia di un trattamento con ribociclib e fulvestrant in prima e seconda linea, prendendo in considerazione solo pazienti in post-menopausa1. I risultati hanno messo in evidenza come questo protocollo terapeutico sia in grado, rispetto a uno basato solo sulla somministrazione di fulvestrant, di aumentare significativamente la sopravvivenza complessiva in questa popolazione, sia in prima che in seconda linea, con una riduzione del 28% del rischio di morte (OS mediana non raggiunta vs 40,0 mesi; HR=0,724; IC 95%: 0,568-0,924; p=0,00455). Inoltre, il trattamento è risultato efficace sia nelle pazienti non sottoposte in precedenza a una terapia ormonale che in quelle in cui in questo approccio era risultato fallimentare. In prima linea di trattamento è stata raggiunto anche l’endpoint della sopravvivenza libera da progressione, con una PFS mediana di 33,6 mesi per ribociclib in combinazione con fulvestrant, rispetto a 19,2 mesi nel braccio placebo (HR=0,546; IC 95%: 0,415-0,718). Inoltre, la necessità di utilizzare la chemioterapia è stata ritardata in tutte le pazienti trattate con ribociclib e fulvestrant (HR=0,696; IC 95%: 0,551-0,879). «I dati mostrano chiaramente che se le donne in post-menopausa ricevono un inibitore di CDK4/6 vanno incontro a un beneficio clinico significativo» – ha sottolineato Dennis Slamon dell’University of California, tra gli autori della ricerca – «e non solo per quanto riguarda la sopravvivenza libera da progressione, i cui dati relativi erano già stati pubblicati, ma anche in termini di sopravvivenza complessiva che è l’endpoint più complicato da raggiungere». Il trial MONARCH 2 ha invece preso in considerazione un protocollo terapeutico basato sull’impiego di abemaciclib e fulvestrant per il trattamento delle pazienti con carcinoma della mammella HR+/HER2-, a prescindere dallo status menopausale, in seguito a fallimento della terapia ormonale2. Anche in questo caso dai risultati è emerso un miglioramento della sopravvivenza complessiva associato al trattamento con l’inibitore del CDK4/6. «Il take-home message di questo studio è che questi agenti allungano in modo significativo il periodo di tempo in cui le pazienti restano in remissione e migliorano la sopravvivenza», ha commentato George Sledge, Stanford University School of Medicine, primo autore dello studio. «Quindi è ragionevole pensare a questi farmaci come lo standard di cura per le pazienti con tumore della mammella metastatico».

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Slamon DJ, Neven P, Chia S, et al. Overall survival (OS) results of the phase III MONALEESA-3 trial of postmenoausal patients (pts) with hormone receptor-positive (HR+), human epidermal growth factor 2-negative (HER2-) advanced breast cancer (ABC) treated with fulvestrant (FUL) + ribociclib. ESMO 2019, Abstract LBA7_PR.

2. Sledge GW, Toi M, Neven P, et al. MONARCH 2: OVerall survival of abemaciclib plus fulvestrant in patients with HR+, HER2- advanced breast cancer. ESMO 2019, Abstract LBA6_PR.

Identificare la mutazione ALK con la biopsia liquida: lo studio BFAST

È possibile utilizzare la biopsia liquida per identificare i pazienti con NSCLC in cui è presente la mutazione ALK, avviandoli subito alle opzioni terapeutiche disponibili e migliorando significativamente l’outcome clinico. Lo dimostra il trial BFAST, presentato al congresso annuale dell’European Society of Medical Oncology. I ricercatori coordinati da Shirish Gadgeel del Rogel Cancer Center dell’University of Michigan hanno prelevato da 2188 pazienti con NSCLC di stadio IIIB/IV non trattato campioni ematici e mediante un next generation sequencing (NGS) hanno individuato 119 pazienti (5,4%) ALK+, avviandone 87 al trattamento con alectinib. Dopo un follow-up mediano di 12,6 mesi si è registrato un tasso di risposta globale (objective response rate - ORR) di 87,4% (95% IC 78,5-93,5) e una durata della risposta (DoR) del 75,9% (95% IC 63,6-88,2). La sopravvivenza libera da progressione (PFS) media non è stata raggiunta, ma la PFS a 12 mesi è stata del 78,4% (95% IC 69,1-87,7). FoundationOne® Liquid, utilizzato nello studio BFAST, è un test in grado di determinare sul DNA tumorale circolante (ctDNA) le quattro classi di alterazioni genetiche, l’instabilità dei microsatelliti (MSI) e le alterazioni del gene ALK. I test diagnostici attuali non sono sempre utilizzabili in tutti i pazienti in quanto associati a esami bioptici sul tessuto tumorale spesso invasivi, che limitano la disponibilità di tessuto necessaria per effettuare una diagnosi corretta. Questo conferma l’utilità clinica dell’NGS ematico come metodo aggiuntivo per fornire informazioni diagnostiche utili ai clinici nel processo decisionale terapeutico nel tumore del polmone. «Uno dei più grandi cambiamenti nella storia del trattamento dell’NSCLC è stato aver acquisito la capacità di identificare mutazioni genetiche target che guidano la progressione del tumore», commenta Shirish Gadgeel. «Ma ottenere un campione di tessuto tumorale da analizzare è spesso una sfida molto complessa. Nel trial BFAST utilizzando la biopsia liquida abbiamo identificato la stessa percentuale di pazienti con mutazione ALK che di solito troviamo con una normale biopsia, e i risultati del trattamento con alectinib sono sovrapponibili a quelli riscontrati negli studi sul farmaco finora pubblicati»1.

David Frati

Bibliografia

1. Gadgeel SM, Mok TSK, Peters S, Alexander JAA, et al. Phase II/III blood first assay screening trial (BFAST) in patients (pts) with treatment-naïve NSCLC: initial results from ALK+ cohort. ESMO 2019, Abstract LBA81_PR.

Twitter all’ESMO19

Continua a crescere l’utilizzo dei social media, e in particolare di Twitter, nei congressi ESMO, nonostante gli oncologi non siano tra i primissimi specialisti nel suo utilizzo. Tuttavia, l’immediatezza del mezzo che consente di diffondere e commentare subito i dati presentati, lo rende sempre più popolare anche tra gli oncologi europei, per quanto le metriche siano ancora distanti da quelle nordamericane. Tuttavia, una larga fetta dei tweet “europei” assolve ancora una funzione autocelebrativa (del genere: «Sono fiero di aver potuto presentare lo studio tale dei tali, e ringrazio quindi il congresso…»), mentre un’altra fetta consistente è costituita dai re-tweet, utili da un punto di vista informativo e per segnalare il proprio interesse per un risultato, ma che non aggiungono granché al merito di un dato. In prospettiva, riteniamo che le metriche che giudicano il numero dei tweet e il loro gradimento (i like) dovranno essere affiancate da altri parametri: non è più significativo conoscere soltanto la portata della fanbase o il numero di like ricevuti, dal momento che altri dati fondamentali possono dar conto dell’autorevolezza dei tweet. Per esempio, proporremmo di distinguere nelle metriche degli analytics i re-tweet dai tweet originali: non basta più fermarsi ai dati volumetrici, anche se il tasso di interazione – generato tenendo conto le varie metriche di coinvolgimento e il numero di follower o persone raggiunte – resta un elemento di valutazione imprescindibile.

A Barcellona, Il Pensiero Scientifico Editore è stato presente su Twitter grazie a @Oncoinfo_it. La nostra redazione al congresso ha inviato più di 120 tweet, facendo un ampio ricorso ai videotweet per dar conto di commenti autorevoli. Ciò ha consentito di guadagnare al canale più di 130 nuovi follower. Inoltre, tramite il premio del #TODT (tweet-of-the-day) ha premiato ogni giorno il tweet ritenuto più interessante e coinvolgente tra quelli inviati tra i congressisti, prescelti dunque non solo in base alla quantità di like ottenuti né ai re-tweet. Nello specifico, @Oncoinfo_it ha scelto i tweet di Stephen V. Liu (Georgetown University, Washington), Nicole Kuderer (University of Washington, Seattle) e infine Dario Trapani (IEO, Milano).

Luciano De Fiore




Tumore uroteliale, PFS maggiore con la combinazione immunoterapia/chemioterapia

Secondo i risultati dello studio IMvigor130, presentato al Congresso ESMO 2019 a Barcellona, i pazienti con carcinoma uroteliale metastatico godrebbero di una sopravvivenza libera da progressione più lunga se trattati con immunoterapia in I linea e chemioterapia, invece che con la sola chemioterapia. Rispetto a quest’ultimo trattamento, infatti, la chemioterapia più atezolizumab aumenta di 2 mesi il tempo medio di progressione dei tumori metastatici riducendo del 18% la probabilità di progressione. L’analisi intermedia relativa alla sopravvivenza globale mostra una tendenza al miglioramento con la combinazione, ma non in modo statisticamente significativo. C’è stata, inoltre, una tendenza al miglioramento della sopravvivenza nei pazienti con sovraespressione di PD-L1 trattati con atezolizumab da solo, rispetto alla chemioterapia.

Lo studio IMvigor130 ha somministrato in modo randomizzato, ma in egual numero, a 1213 pazienti con carcinoma uroteliale metastatico provenienti da 35 paesi, atezolizumab più chemioterapia a base di platino (braccio A), solo atezolizumab (braccio B), o placebo più chemioterapia a base di platino (braccio C). Gli endpoint comprimari di efficacia erano la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale valutata dallo sperimentatore (braccio A contro C) e la sopravvivenza globale (braccio B contro C). Dopo un follow-up mediano di 11,8 mesi, la sopravvivenza libera da progressione mediana è risultata di 8,2 mesi nel braccio A e di 6,3 mesi nel braccio C. Questo risultato corrispondeva a un rapporto di rischio statisticamente significativo (HR) di 0,82 (intervallo di confidenza al 95% [IC] 0,70-0,96; p=0,007). Nell’analisi intermedia, invece, la sopravvivenza globale mediana è stata rispettivamente di 16,0 contro 13,4 mesi nei bracci A e C (HR 0,83; IC 95% 0,69-1,00; p=0,027) e 15,7 contro 13,1 mesi nei bracci B e C, rispettivamente (HR 1,02; IC 95% 0,83-1,24). I tassi di risposta obiettiva sono stati rispettivamente del 47%, 23% e 44% nei bracci A, B e C. I tassi di risposta completi sono stati rispettivamente del 13%, 6% e 7% nei bracci A, B e C. Gli eventi avversi tali da indurre la sospensione del trattamento si sono verificati rispettivamente nel 34%, 6% e 34% dei pazienti nei bracci A, B e C.

L’autore dello studio, Enrique Grande (del MD Anderson Cancer Center Madrid), ha affermato che gli effetti collaterali della chemioterapia combinata e dell’immunoterapia erano coerenti con gli studi su altri tumori solidi. «Si tratta di una nuova opzione per il trattamento iniziale di pazienti con carcinoma uroteliale metastatico. È necessario un follow-up più lungo sulla sopravvivenza globale e continueremo a cercare biomarcatori per identificare quali pazienti rispondono al meglio a questa terapia».

Rebecca De Fiore