Ciò che facciamo ha un senso
2 luglio 2008
Egregio direttore,

avrà notato anche lei quanto l’opinione pubblica, specie in queste ultime settimane, sia ricettiva di notizie e giudizi tutt’altro che lusinghieri su medici e sanità. La grande stampa, peraltro, assolve il suo dovere di informazione e, dunque, inadempienze, sprechi, errori e, addirittura, crimini debbono essere denunciati. Quantunque, circa gli errori, le cifre non siano concordi, e tra contestazioni e conferme, ci sia da temere che rincorse ed incertezze continueranno ad alimentare sfiducia. Là dove, invece, dovrebbe affermarsi preliminarmente la categoria opposta: vale a dire proprio il rapporto di fiducia tra medico e malato. Questa è la regola, e tuttavia (come sopra accennato), immancabili sono le eccezioni.
Però… …Però, accanto alle critiche, non dovrebbero mancare – o, almeno, dovrebbero essere più solerti – i riconoscimenti alla buona sanità e, soprattutto, ai tanti – e sono i più – operatori che onorano la medicina italiana con competenza, probità e spirito di sacrificio. E si dovrebbe ampliare l’orizzonte: in tempi come gli attuali in cui globalizzare è l’imperativo quotidiano, non dovremmo limitarci alla soglia di una provincia. Torna alla mente l’episodio, così plasticamente riportato da quell’eccellente cronista “globale” che è Giovanni Porzio, nella prefazione ad un recente volume: “ Non tornerò con dubbio e con il vuoto. Lettere di Medici senza frontiere”.
«[…] Una volta a Goma, ero disperato. Un uomo, uno dei 400mila profughi che dal campo di Mugunga si erano riversati sulla strada per il Rwanda, era morto tra le mie braccia e i suoi quattro figli, minuscoli uccellini denutriti, erano in fin di vita. Il burocrate delle Nazioni Unite a cui avevo chiesto aiuto si era rifiutato di caricarli sulla sua fiammante Toyota. L’unica speranza era la tenda di “Medici senza frontiere”, a mezz’ora di cammino.
Il medico, una giovane donna italiana, con il camice sporco di sangue, il viso segnato dalle notti insonni e i nervi tesi dall’adrenalina, tentava da sola di arginare l’ondata di piena: gli infermi e i moribondi crollavano esausti nella spianata di fango dov’era piantata la tenda, che ormai straripava e ansimava di gemiti. Neppure per un istante, mentre le spiegavo il caso dei miei piccoli orfani, interruppe il suo lavoro: isolava i malati più gravi,  preparava la soluzione fisiologica, attaccava i sacchetti delle flebo ai rami degli arbusti, cercava la vena per inserire l’ago.
Poi d’un tratto: “Dove sono? Andiamo a prenderli. Guida tu, io non ce la faccio”.
“Come ti chiami?”
“Non è importante”.
Volevo dirle che per me sì, per me e per quei quattro bambini il suo nome era importante. Ma rispettai il suo desiderio di anonimato. Poca pubblicità, nessun protagonismo: sono la filosofia, e lo scudo protettivo, dei volontari di “Medici senza frontiere”. Il grande pubblico non conosce i loro nomi, non vede i loro volti alla tv, non immagina in quali condizioni siano costretti a vivere e a operare. […]»
Prevedo l’obiezione: «si tratta di individualità eccezionali in contesti eccezionali». Io credo che non sia così: sono convinto che ci siano tanti, tantissimi medici bravi e generosi. E che essi non si considerino soggetti “speciali”; tutt’altro. Come scrive – in una lettera ai familiari – un’altra di queste persone “non” eccezionali: «Noi non siamo super eroi, offriamo solo parte delle nostre energie e un poco del nostro tempo, e a qualcuno, qualche volta, una chance in più di sopravvivere. Ma soprattutto, crediamo che ciò che facciamo abbia un senso.»

dott. Massimo Neri, Catanzaro