Libri

Quattro storie: la malattia, il dolore, la compassione
«Amare è facile, compatire è difficile»
Niccolò Tommaseo
Quale è, a ben guardare, il retroterra del confronto, ineludibile, ma che oggi rischia di diventar lacerante, tra le diverse buone-coscienze, sul vivere e sul morire, sul soffrire e sul compatire? È il bisogno dei responsabili e dei consapevoli: di intervenire sul mondo in cui viviamo per cercare di avvicinarlo a quello in cui avremmo voluto vivere. «E non esiste miglior fermento per l’esistente che la buona letteratura – ha scritto un protagonista del mondo della politica e delle lettere – non c’è niente di meglio dei buoni romanzi.» 1 L’occasione per commentarlo – questo bisogno – vien data dall’apparire, quasi sincrono, di tre storie (anzi, quattro, perché una si fa in due parti) nutrite da un denominatore comune: «dalla più grande imperfezione dell’uomo», la malattia.




La prima storia è quella di Helen, buona samaritana, e di Nicola, antica amica, ora condannata da un tumore diffuso: La stanza degli ospiti, di Helen Garner. Traduzione di Delfina Vezzoli. Pagine 192. Milano: Mondadori 2009. Euro 18,50. ISBN 978-88-04-58465-0. Helen è una donna matura, soddisfatta della propria vita. Divorziata ma non sola, nonna felice, dietro di sé ha i segni di un’esistenza ricca di affetti e di esperienze. Forse è proprio in virtù di questa forza interiore faticosamente conquistata, che quando la sua sodale in gioventù le chiede di accoglierla a casa sua – nella stanza degli ospiti – non esita a concedergliela, anche se il compito si rivela da subito gravoso. Nicola, infatti, non ha più fiducia nella medicina tradizionale e, illusa da “cure” truffaldine, è in balia di pseudo medici ciarlatani che speculano su pazienti disperati. Il rapporto tra le due donne è affettuoso e teso, fatto di abbracci e di fastidi, perché la padrona di casa, pur aiutando in ogni modo l’amica, non tollera la sua cecità, l’incapacità di guardare negli occhi il proprio destino. È un conflitto tra due concezioni della vita (e della morte), illusione contro verità, dolcezza ostinata contro duro realismo. Ne sgorga, da questo conflitto, un narrar coraggioso: perché non ha reticenze, né ipocriti pudori, e non elude «il fato di ciascuno», le domande radicali che lo alimentano d’angoscia. Il giorno verrà; ma troverà, infine, le due amiche pacificate a fronte della realtà: ognuna pronta al proprio destino ed ambedue premiate dalla condivisione.
È un romanzo breve ed intenso che parla di sofferenza, fragilità ed inganni, ma ha anche momenti alti di ascolto e di pietà; con una scrittura tutt’altro che lacrimogena, e che, pensosa e lieve – virtù dell’arte – si fa balsamo nell’animo di chi la legge. Vi è anche da sottolineare il valore aggiunto di un messaggio, razionale e quanto mai tempestivo, sul curare e sul prendersi cura, su menzogna e verità, su fiducia e speranza. Si legga il dialogo a pagina 105: «... È l’unico modo» disse. «Se non ho fede, l’unica alternativa è lasciarmi andare e dire: getto la spugna. Sto morendo.» «Ma deve esserci una via di mezzo tra i due estremi», dissi, «non possiamo cercare di trovarla?» «Non posso arrendermi» disse. «Ma deve trattarsi per forza di arrendersi? Non potresti pensare di prendere un giorno alla volta?... Invece di dire “sto morendo o non sto morendo”, non potresti dire soltanto: “oggi sono viva?”» E alla pagina 137: «Stai usando quella maledetta clinica per distrarti.» Come un vecchio cane stanco, Nicola alzò la testa. Dissi: «Ti devi preparare.»... «Ho imparato» rispose «a presentare una facciata ottimista».
Ottimista. «Ma che cos’è l’ottimismo? Raccontare una bugia? Dire che non si muore più? Fare finta che la morte non ci sia? Nascondere il dolore?... Questo non è ottimismo, questo significa essere degli illusi e degli inconsapevoli. La morte c’è... Imparare a guardarla, allontana dalla strada della disperazione; dalla precarietà del nostro destino terreno sorge la coscienza dell’importanza e del valore del nostro essere...»2. Nel toccante racconto della Garner, c’è, purtroppo, a distogliere questo sguardo, l’inganno del “guaritore” che promette miracolosi risanamenti, profittando «dello spazio ambiguo concessogli da bisogni insoddisfatti o dalla credulità delle gente»3. «Nicola parlò»: «Helen, credi che tua sorella sarebbe venuta in un posto come questo?» «Neanche per sogno»... «Perché?» «Perché avrebbe capito subito che era una fregatura» (pagina 51).
Continuando a condurci sul terreno di quella che un critico ha definito «la sottocultura della sopravvivenza», la Garner sembra volerci ricordare, fedele ad una quotidianità discreta e interiormente esperita, che vita e morte costituiscono un unico, accidentato cammino, un itinerario che dobbiamo compiere; e il procedere – il vivere – sarà meno difficile se saremo capaci di non restare soli.



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«L’interesse per la malattia e la morte
è sempre, soltanto, un’altra espressione
dell’interesse per la vita»
Thomas Mann
Non sembra condividere tale realtà, la protagonista di due altri rapidi racconti, rapidi e acuminati come frecce scoccate verso il cuore di chi li legge. Giovane precaria nella anonima routine della megalopoli, ella sembra sopravvivere per sottrazione; ama l’assenza, il vuoto: quelle che lei considera quali difese dalla sporcizia della vita. Yoko Ogawa: Una perfetta stanza di ospedale. Traduzione di Massimiliano Matteri e Matake Yumiko. Pagine 128. Milano: Adelphi 2009. Euro 10,00. ISBN 978-88-459-2354-8. Ed ama il suo fratello malato che assiste quotidianamente. «Ogni volta che penso a mio fratello, il cuore mi sanguina come una melagrana scoppiata». Per dimenticarlo, non le resta che immergersi nel ricordo della “loro” quieta camera di ospedale.



Quella stanza in cui il ragazzo ha trascorso alcuni mesi prima di morire assurdamente giovane, era un luogo perfettamente ripulito dal sudiciume della vita. Poco a poco, sorella e fratello si rinchiudono nel mondo a parte che pare impermeabile alla corruttibilità della materia organica e dove regna l’asettica purezza dell’assenza di cibo, dell’assenza di odore. Ed è come se assaporassero la serenità perfetta che si prova all’inizio di una storia d’amore. «Se non si fosse ammalato, probabilmente non avrei mai saputo in che modo amarlo...» (pagina 51). «Anche la biblioteca mi piaceva, allo stesso modo in cui amavo la stanza di ospedale. Nemmeno lì si respirava odore di vita» (pagina 56). Ma ecco, nell’ultima pagina, il sospiro che richiama la contraddizione di ogni esistenza: «Come vorrei continuare a vivere così, con la purezza e nel silenzio di una materia inorganica. Quanto mi piacerebbe rimanere così, insieme a mio fratello, per sempre senza che nulla cambi, nulla degeneri, nulla marcisca». La contraddizione – dicevamo – come ha intuito un medico dell’anima: «ciò che è naturale è il risultato finale dell’artificio, del tormento della coscienza e della volontà.»4 E ancor prima lo Svevo, romanziere della coscienza: «La vita è una malattia della materia».
Così, pure nel secondo racconto del libro – “Quando la farfalla si sbriciolò” – a un mondo di fuori si contrappone un mondo di dentro: quando è costretta a portare la nonna in un ospizio per vecchi, una “scatola bianca” piena di buone intenzioni chiamata Nuovo Mondo, la ragazza Nanako si sente murata viva nel piccolo appartamento che per anni ha diviso con lei e comincia a chiedersi quale sia, ora, il suo mondo e se ci sia una realtà oltre quella che le sta “crescendo dentro”.
Yoko Ogawa sembra possedere il segreto di una scrittura singolare: affilata, liscia, trasparente, ma dotata di un potere devastante. La pericolosa Ogawa – è stato detto – ha inventato la scrittura-coltello: nel leggere le sue opere, intrise di sofferenza, si prova un piacere doloroso.
E torna alla memoria la sottile sensibilità di un Carlo Dossi: «Fra medicina e letteratura corre sempre amicizia. Esse hanno un significantissimo punto di congiunzione: la menzogna. E mentono entrambe, la prima per far del bene, la seconda per far del bello».

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«La malattia è un convento:
con le sue regole, la sua ascesi, i suoi silenzi
e le sue ispirazioni»
Albert Camus
L’Autore considerava “Les anneaux de Bicêtre” uno dei suoi romanzi fondamentali. Di esso appare in questi giorni un’edizione italiana: Georges Simenon. Le campane di Bicêtre. Traduzione di Laura Frausin Guarino. Pagine 260. Milano: Adelphi 2009. Euro 19,00. ISBN 978-88-459-2351-7. La dedica fotografa in quattro righe il cuore dell’opera: «A tutti coloro – professori, medici, infermieri e infermiere – che, negli ospedali e non solo, cercano di comprendere e di soccorrere l’essere più sconcertante al mondo: l’uomo ammalato.» E sono duecento e più pagine su e da un uomo malato. Pagine emozionanti, coinvolgenti, scritte da un grande maestro del narrare.



Quando comincia a riprendere conoscenza, in una delle due uniche camere singole dell’ospedale di Bicêtre, René Maugras, direttore del principale quotidiano parigino, di quanto è accaduto la sera precedente ricorda poco o nulla: sa che era a cena, come ogni primo martedì del mese, nella saletta privata del Grand Véfour (uno dei più antichi ristoranti della capitale, e anche uno dei più esclusivi) con un gruppo di amici i quali, come lui, possono considerarsi a giusto titolo, ciascuno nel proprio campo, personaggi molto importanti: uomini arrivati, come si dice. A un certo punto era andato alla toilette, e lì (come scoprirà più tardi) lo avevano trovato, privo di sensi, un quarto d’ora dopo. Sa quindi di essere vivo, e dai luminari convocati al suo capezzale si sente dire che guarirà, che ricomincerà a muovere il braccio destro, che potrà di nuovo parlare. Ma René Maugras sa anche un’altra cosa: che non gli importa. A poco a poco, attraverso il groviglio di pensieri e di ricordi che gli affollano la mente, si fa strada una domanda: «A che scopo?» A che scopo essere diventato un personaggio importante, a che scopo essersi dato tanto da fare; a che scopo vivere, in definitiva? Mentre tutti – i medici, le infermiere, i vecchi amici, la figlia, una vecchia amante e una giovane moglie – si chiedono che cosa gli passi per la testa, e se non sia tentato di abbandonare la partita, Maugras, con la lucidità di una solitudine interiore spogliata da ogni maschera, fa un bilancio impietoso della propria esistenza, interrogandosi sul senso di quanto hanno fatto lui e quelli come lui per diventare ciò che sono. «Non è la propria salute quel che interessa a Maugras per il momento. Sono gli altri, di cui sente il bisogno di raschiar via la superficie, convinto, se ci riesce, di arrivare a vedere più chiaro in se stesso.» (pag. 122)
Il romanzo di Simenon è del 1962. “La cognizione del dolore”, di Gadda, esce – dopo annosi travagli – nel 1963. Risulta difficile allontanare la tentazione di una comunanza di fondo. Ambedue propongono una riflessione sulla crisi del soggetto: la cui introversione autobiografica sull’io e sul mondo costituisce il passaggio esistenziale per una sofferta presa di coscienza. Infatti, «frantumando l’idea di una realtà riconducibile alla conoscenza, mostrando un senso più complesso e più difficile da decodificare, immergendo e confondendo il soggetto pensante e osservante nel magma dell’oggettività» 5, entrambi rafforzano una cognizione dolorosa del mondo.
È come se in Maugras, Simenon abbia voluto proporci tutti e tre i modelli di malattia canonizzati dal Laplantine6: la rottura tra il soggetto e se stesso («non la smette di farsi domande e di cercare risposte…», pag. 141; «si sforza di capire, di avere finalmente un’opinione di se stesso…», pag. 143), quella tra la sua persona e il proprio ambiente sociale («preferisco stare solo…», pag. 202) e, infine, la malattia come senso; senso di chi vive il ciclo della sofferenza come ansia per un orizzonte nuovo ed il recupero di uno sguardo redento, lo stato limbico descritto nel memorabile passo woolfiano: «Quando siamo malati, ci lasciamo trascinare dalla corrente... ci ritroviamo confusi assieme alle foglie morte... forse in grado, per la prima volta, di guardarci intorno, in alto, di guardare, per esempio, il cielo...» 7. Maugras è capace, ora, di eludere l’errore di prospettiva dei più: ora vede la morte non solo davanti a sé; ha compreso che, invece, gran parte di essa è sempre alle nostre spalle, appartiene alla morte la vita passata. E ha “visto” che ci vuole tutta una vita non solo per imparare a vivere, ma anche per imparare a morire.

Cecilia Bruno
Nutrizione: la crescita e la terapia
«Homo est quod puer est.»

Fino a pochi decenni fa, il ruolo della nutrizione, considerata non autonoma ma complementare ad altre discipline, era confinato a stabilire il fabbisogno dei nutrienti: dalle proteine ai carboidrati, ai lipidi, ai più importanti micronutrienti, come ferro e vitamina D. Solo da pochi anni essa è emersa da questo ruolo ancillare assumendo dignità di disciplina a se stante, al pari dell’immunologia, dell’infettivologia, della cardiologia, con un proprio spazio ben definito sia nell’insegnamento che nella pratica clinica. Scienza e pratica della nutrizione sono ormai sussidî indispensabili per ogni branca della medicina. I risultati clinici di tale connubio emergono dall’evidenza quotidiana, laddove non ci si rinchiuda nel recinto della propria specialità. Dal paziente neonato a quello anziano, il medico non può prescindere dall’ausilio della nutrizione, sia essa preventiva o terapeutica. Questo nuovo indirizzo è entrato nella clinica, qualunque sia la patologia in atto, apportando sostanziali beneficî al decorso e alla prognosi. Ed anche alla medicina preventiva.
Il pediatra è particolarmente coinvolto in questa connessione, ma lo è sempre di più anche il medico dell’adulto e dell’anziano. Sono costoro, dunque, i destinatari di questo manuale: Berthold Kolectzko (a cura di). Pediatric nutrition in practice. Pagine 306. Basel: Karger 2008. Euro 114,50. ISBN 978-3-8055-8477-7.
Il volume dedica le prime pagine alla valutazione antropometrica del bambino, da lattante fino al termine della pubertà, oltre che alla specifica richiesta, per età, di macro e micronutrienti, anche in base all’attività fisica. Si sottolinea che fattori nutrizionali e metabolici possono, già in età pediatrica, programmare gli effetti sulla salute, effetti proiettabili verso l’età adulta. Basti pensare all’allattamento al seno, alle sue correlazioni con il sistema immune e alle patologie correlate: dall’asma al diabete, sino alle patologie infiammatorie croniche intestinali. Inaltri termini: fino alla funzione preventiva verso patologie autoimmuni. Interessante, per gli ostetrici, il comportamento alimentare della gestante, con particolare attenzione a colei che pratica dieta vegetariana. Non mancano, poi, le indicazioni terapeutiche: tipiche quelle sulle modalità dell’alimentazione parenterale. Da sottolineare, è il capitolo, seppure succinto, dedicato al problema dell’obesità. A tal proposito ricordo di aver titolato un antico mio articolo (trenta anni or sono) «L’obesità nasce in culla». Con rammarico, debbo constatare che l’appello di allora è caduto nel vuoto!…
Altri temi interessanti: la diarrea acuta e cronica, le intolleranze alimentari, le malattie colestatiche del fegato e le ultime acquisizioni sulla celiachia, malattia che coinvolge bambini, adulti e anziani. Così come le problematiche del diabete mellito tipo 1, quelle degli errori metabolici congeniti, delle dislipidemie, dell’approccio nutrizionale nella fibrosi cistica e di altre malattie croniche come quelle renali. Anoressia e bulimia nervosa hanno un loro spazio, seppur limitato: ritenendo gli Autori che, per esse, debba prevalere l’aspetto psicoterapeutico.
Concludono il volume le tabelle di crescita, sia quelle dell’OMS (maggiormente diffuse), sia quelle europee, più pertinenti per noi. Le une e le altre vanno interpretate, a mio avviso, più che in termini assoluti, in termini relativi: per ogni singolo soggetto o gruppo etnico e per costituzione familiare, in un’ottica, ormai irrefutabile, di antropologia nutrizionale.
Il manuale sottolinea efficacemente come una inadeguata nutrizione possa essere causa di malattia, e nel contempo come una malattia (sia dell’età evolutiva che nell’adulto e nell’anziano) possa essere curata anche da un corretto apporto nutrizionale, sia quantitativo che qualitativo. È, quindi, un utile strumento culturale e pratico per il pediatra, ma può essere spunto di riflessione pure per il medico generalista.

Pier Luigi Giorgi

L’anatomia secondo Gray:
noi “siamo” un corpo
«Il mio sancta sanctorum è il corpo umano:
salute, intelligenza, ispirazione, amore e libertà...»
Anton Cˇ­­echov
“Gray’s Anatomy” – o, secondo il titolo più formale, “Anatomia descrittiva e chirurgica” – è uno dei pochi testi universitari che continua ad avere mercato da oltre un secolo e mezzo. Deve esserne riconosciuto merito non solo ad Henry Gray, autore dello scritto, ma anche ad un giovane studente di medicina, Henry Vandyke Carter, cui dobbiamo la mirabolante iconografia. I muscoli e le arterie da lui disegnati con inarrivabile precisione e finezza non sono perfettibili, costituiscono un punto fermo della descrizione anatomica: son quelli costruiti dalla mano del Creatore. Può ben dirsi che l’arte di Carter comprovi che Dio è nel dettaglio.



Gray e Carter erano due giovanotti impazienti, tanto che completarono il monumentale trattato in soli tre anni: dal 1855 al 1858. Centro delle loro fatiche era il Saint George Hospital di Londra, un monumentale, grigio, edificio situato all’inizio di Knightsbridge, in Hyde Park Corner. Adiacente – in un’area occupata oggi da un albergo a 4 stelle – sorgeva, a quel tempo, un grande ossario, inquietante luogo di morte e di dissezioni, in linea con le tenebrose atmosfere dickensiane, atmosfere richiamate in un recente, agile volume che è tuttavia anche una puntuale ricerca storiografica: Ruth Richardson. The making of Mr. Gray’s Anatomy: bodies, books, fortune, fame. Pagine 288. Oxford-London-New York: Oxford University Press,  2008. Sterline 16,50. ISBN 978-0-19-955299-3.
Poco sappiamo della vita di Gray: egli morì giovanissimo, a 34 anni, soltanto tre anni dopo la pubblicazione della magnum opus, vittima di vaiolo (una delle tante vittime) per l’epidemia che ferì in quell’anno la città e il circondario. La sua morte non fece notizia. La Richardson osserva che fu come se, scrivendo quel formidabile libro, l’Autore avesse ad esso e alla sua durevole fama affidato il compito di celebrare la propria vita. Ciò che possiamo dire è che il Gray fu uomo di ferrea determinazione nello studio della chirurgia e che tutto sacrificò a tale finalità, da quando, ancora giovinetto (18 anni), cominciò a frequentare l’ospedale, sempre fedele al suo motto ispiratore: “vada a chi la merita la palma del vincitore”. E di palme ne ottenne, perché non poche furono le sue vittorie e i suoi successi, tanto che, a soli 25 anni, divenne membro della Royal Society of Surgery.
Diversa personalità era quella di Henry Vandyke Carter, l’illustratore (ed infatti, a differente destino egli andò incontro). Uomo devoto alla Chiesa, ma non conformista, incline a dubbi profondi, non di rado alle prese con crisi depressive; di carattere chiuso, al limite della misantropia (si confidava soltanto con il suo diario), quantunque solo 4 anni di età lo dividessero dal Gray, ebbe con lui scarsa confidenza. Gran lavoratore, di limitate ambizioni, con un regime di vita assai modesto ed interessi occasionali, seppe combinare al meglio il proprio duplice talento: quello dell’osservazione microscopica e quello del disegno millimetrico: a tal punto che, ad oggi, nessuno riesce ad eguagliare la qualità delle sue tavole anatomiche.

Ma – attenzione–  avverte Ruth Richardson: c’è un terzo autore che merita “il nome in ditta” nell’opera-monumento; questo terzo autore è «la materia prima» (definizione singolare!), cioè la carne e le ossa di centinaia di poveri corpi abbandonati nella sala settoria dell’ospedale: morti senza tetto, senza famiglia, senza amici, senza speranza di un rimpianto o di un nome sopra una lapide. Sono esse, queste misere spoglie da alcuno non reclamate e destinate ad anonimi roghi, le protagoniste dei disegni di Henry Carter. Il quale ha loro risarcito, diseredati derelitti – nel solo modo di cui disponeva – l’offeso diritto dell’ habeas corpus, la promessa che il re, nella Magna Charta, aveva fatto ad ogni uomo libero: «Non metteremo né faremo mettere mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari...». E dunque possono, queste stupefacenti tavole anatomiche – queste perfette riproduzioni di organi, tessuti, vene, muscoli, arterie – interpellarci, ancor oggi, sul radicale quesito a proposito di mezzi, fini, limiti della scienza (e della politica della scienza). Quali vilipendi biologici e biografici, quali espropri di corpi e di “persone” ne hanno nutrito la perfezione? Fin dove e a quali scopi, altri – pur a fini non vili – può intervenire nella gestione (brutto termine, ma consono ai tempi) del nostro ­corpo? Si profila, peraltro, ancor oggi, un rischioso ritorno a licenza d’esproprio di tale area più intima e segreta dell’esistenza (il corpo, il nostro corpo), area cui ci si dovrebbe invece accostare col più alto rispetto e prudenza, consapevoli sia d’un postulato pregiudiziale – noi non “abbiamo” un corpo, noi “siamo” un corpo – sia del dettato della constitutio civitatis: articoli 13 e 32 della nostra Carta Costituzionale.
Nell’excursus storico di Ruth Richardson è pur detto che, ai tempi di Gray e di Carter, era consuetudine, negli ospedali pubblici, accogliere coloro che, malati terminali indigenti e senza famiglia, esprimessero il desiderio di concludere lì il proprio calvario: una sorta (potremmo dire) di direttiva anticipata di fine-vita, se non fosse che tale consenso, piuttosto che “informato”, avrebbe potuto definirsi come una resa senza alternative (col conseguente impietoso seguito: i trafugatori di salme, il traffico di reperti ed altre miserie...). Eppure – da nessuna delle 360 e oltre tavole di Gray’s Anatomy – trapela un segno di corruzione, di guasto, di patologico: c’è – se mai – come il segno del rispetto, il riconoscimento della prima perfezione creaturale, nonostante gli insulti della storia e delle storie. La Richardson lo sottolinea con attualissima sensibilità: si rivela eccellente storiografa non soltanto di protagonisti, ma di società e culture. Da qui, anche l’accostamento – intrigante – tra la prosa aristocraticamente precisa – magistrale – di Gray e quella del romanzo vittoriano, del narratore onniscente, al centro del mondo e dell’immaginazione (né è da trascurare la contiguità, in quegli anni, del florido circolo di disegnatori umoristici, delle incisioni satiriche, il boom dell’arte caricaturale: ove il corpo si fa persona e viceversa).
Eppure, quando uscì, al libro non mancarono critiche: gli si rimproverarono citazioni non denunciate, interi brani non originali (oggi si direbbero accuse di “taglia e incolla”); Gray non modificò una riga, la stesura originale è quella che ammiriamo ai nostri giorni; e questo – possiamo concludere – è il segno della forza di un’opera: la capacità di resistere al tempo. Come ha scritto William Faulkner: «Scopo dell’artista è arrestare il movimento che è vita e tenerlo fermo; ma in modo tale che, cent’anni dopo, quando qualcuno lo guarderà, torni a muoversi: perché è vita».

Caterina Roghi
Da Marte all’Italia:
la medicina postmoderna
«Gli utopisti concepiscono gli uomini
non come sono, ma come vorrebbero
che fossero».
Spinoza
Quello di cui scriviamo è un manuale di oltre 400 pagine giunto alla sua terza edizione in soli dieci anni dalla sua prima pubblicazione. Il libro è il frutto dell’esperienza e delle riflessioni di JA Muir Gray, uno scozzese trapiantato a Oxford, vulcanico e visionario ma dotato di notevole esperienza in campo sanitario (di estrazione è un operatore della Sanità pubblica) e dirigenziale. Muir (l’origine di questo nome è un segreto paragonabile al numero di cellulare di Sua Maestà) è stato nominato cavaliere a vita (“Sir”, non baronetto, come insistono a equivocare i media nostrani) nel 2005 per i contributi resi al Servizio sanitario britannico nel campo della informazione e delle attività di screening.
Il testo è organizzato in dieci capitoli, che a loro volta sono strutturati in sottocapitoli, ciascuno con la propria bibliografia, conditi con esempi pratici (tratti principalmente da argomenti inerenti la gestione dei servizi sanitari di paesi anglosassoni), box, illustrazioni e utili algoritmi schematici “a lisca di pesce” che riassumono il filo logico del percorso (sir John Armstrong Muir Gray. Evidence-based healthcare and public health. How to make decisions about health services and public health. Pagine 426. Edinburgh: Churchill Livingstone/Elsevier 2009. ISBN 978-0-443-10123-6).
La tesi di sir Muir è che la medicina moderna era una medicina basata sulle prove scientifiche e sulla ricerca condotta da medici e/o ricercatori; la fase in cui oggi ci troviamo (la medicina postmoderna) è caratterizzata da una maggiore attenzione ai bisogni dei consumatori, alla sicurezza e alla condivisione delle scelte con gli utenti. Il servizio sanitario postmoderno, insomma, è quello costruito intorno al consumatore. Il fondamento, comunque, è, e rimane, la ricerca intesa come fornitrice di prove scientifiche sulla base delle quali dobbiamo prendere decisioni di politica e gestione sanitaria.
Per essere buoni operatori sanitari postmoderni, Muir propone un processo articolato in quattro fasi: 1) formulare le domande giuste; 2) trovare e valutare le prove; 3) sviluppare la capacità delle organizzazioni e dei singoli a usare i risultati della ricerca; 4) saper gestire le problematiche legate alla loro implementazione.




Questi quattro punti sono anche le sezioni logiche del libro, che seguono a due capitoli introduttivi. Una creazione di sir Muir è la funzione di “knowledge broker” (“agente della conoscenza”), una figura che egli ha introdotto nel SSN britannico e che ha lo scopo di facilitare la traslazione della conoscenza basata sulla ricerca nella pratica quotidiana. Attenzione, cari lettori, questa è una funzione, non un posto stabile. Muir consiglia che a ricoprirla sia un sanitario pubblico (il direttore di Sanità pubblica delle ASL britanniche, figura che in Italia non esiste). Come mi ha fatto notare giustamente un attento lettore di “Attenti alle bufale”, l’EBM si proponeva ab initio l’abolizione delle figure riconducibili al cosiddetto “esperto professionale”: strano che uno dei sansepolcristi oxfordiani reintroduca un simil-esperto dalla finestra, dopo averlo cacciato dalla porta. Riflettiamoci bene.
Il libro è abbastanza facile da leggere per chi ha cognizioni anche solo essenziali di epidemiologia clinica o di medicina basata sulle prove scientifiche; a me sembra che i sottocapitoli (utili se si usa il tomo come libro di riferimento) producano una frammentazione abbastanza fastidiosa (vi è una predilezione per un approccio molto schematico nell’introdurre i concetti) per chi lo legga tutto d’un fiato. Il sottocapitolo sulla teoria e l’applicazione dei test diagnostici è un modello di chiarezza e onestà che raccomanderei come lettura obbligatoria a tutti i nostri aficionados dello screening a oltranza, i quali insistono a volere introdurre i test più improbabili, dannosi e insufficientemente valutati, possibili e immaginabili. Inoltre, il succo ( primum non nocere) viene articolato da un personaggio che ha credenziali assolutamente inappuntabili.
La visione di sir Muir è originale ed è giusto che nessuno la metta in discussione perché l’autore pratica e vive ciò che predica. Ho solo alcuni dubbi sulla applicabilità delle sue ricette in un contesto italiano.
Vivo in un paese e in un sistema nel quale i direttori generali degli ospedali sono scelti dai politici e molti non hanno mai visto un paziente in vita loro; difatti, la maggior parte di quelli che ho incontrato non ha nemmeno una pur minima formazione o visione sanitaria. È un sistema, quello italiano, nel quale i direttori amministrativi decidono l’acquisto di pinze per biopsia endoscopica di plastica “made in China” perché costano meno, anche se si spezzano sulla mucosa gastrica con più facilità di quelle un po’ più costose; un paese dove i direttori sanitari badano ai rapporti di forza, politici e non; dove i direttori di dipartimento seguono le indicazioni mediatiche di “opinionisti ed esperti” prezzolati; dove il collega della porta accanto organizza congressi sponsorizzati, a Miami, per convincere i partecipanti a introdurre un nuovo strumento diagnostico che non è mai stato valutato scientificamente; dove cattedratici producono sedicenti documenti di “health technology assessment” finanziati dalla ditta che produce la tecnologia stessa; dove i componenti di un Consiglio di Amministrazione sono nominati su base clientelare.