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Gli effetti a distanza della cura del cancro del bambino
Il cancro del bambino e dell’adolescente è evenienza assai rara. Studi recenti su ampie popolazioni negli USA e in Olanda riportano che ogni anno, su 100.000 individui sotto i 21 anni, in 16 viene diagnosticato un cancro. Di questi, più dell’ 80 % risulterebbe sopravvissuto a lungo termine, ma non tutti senza conseguenze: non solo per la ricomparsa di un secondo tumore, ma, soprattutto, per il manifestarsi di importanti patologie a carico di vari organi e apparati da ricollegarsi alle terapie messe in atto.
In tempi più lontani, nel giugno 1948, Sydney Farber e collaboratori riferivano di aver riportato una temporanea remissione in un bambino affetto da leucemia linfoblastica acuta grazie alla somministrazione di un farmaco, l’aminopterina. I medici dell’epoca si arrischiarono ad ammettere che con questa procedura terapeutica era possibile debellare la malattia. Nel 1970, De Vita e collaboratori affrontarono con una chemioterapia multipla, il cosiddetto regime MOPP, un altro tumore importante, il linfoma di Hodgkin in un adolescente, riferendone la remissione anche nella fase più avanzata. La terapia contro il cancro nel bambino poteva dunque considerarsi una battaglia vinta? Tuttavia vincere una battaglia non equivale a vincere la guerra. Dopo anni, talvolta dopo decenni, in quel bambino o in quell’ adolescente, ritenuto guarito, altre patologie si manifestavano, patologie da ricollegarsi alle terapie, non solo farmacologiche ma anche radianti, effettuate in giovane età. La natura faceva pagare al soggetto, in termini di tempo più o meno lunghi, il conto degli effetti collaterali della terapia.
È di pochi mesi orsono la pubblicazione di Endocrinopathy after childhood cancer treatment, a cura di WHB Wallace, CJH Kelner. Pagine X + 186, con 21 figure, 11 tabelle. Karger, Basel 2009. Dollari 179. ISBN 978-3-8055-2037-2, volume nel quale si pone l’accento sulle patologie endocrine conseguenti a distanza di anni al trattamento del cancro: chemioterapia, terapia radiante, chirurgia, neurochirurgia, trapianto di midollo. Gli otto capitoli sono redatti da esperti di vari settori: non solo endocrinologi, ma anche epidemiologi, studiosi dell’età evolutiva ed oncologi.



Il lettore, medico sia dell’età evolutiva sia del giovane adulto, può ampliare le proprie conoscenze sull’ipopituitarismo conseguente alla radioterapia dell’encefalo, sulle anomalie endocrine e temporali del percorso puberale, sull’incidenza di aborto, sui disordini metabolici, e, non ultime, sulle conseguenze a carico dell’apparato scheletrico. Di particolare interesse, inoltre, la possibile compromissione della fertilità del maschio e della femmina. Il tutto corredato dai più recenti dati epidemiologici su vasti campioni elaborati nel Regno Unito e negli USA, e documentato dalla correlazione delle patologie ai vari tipi d’intervento terapeutico. Il volume, pur coinciso, ha il pregio di richiamare l’attenzione e fare chiarezza su un tema che viene assumendo una crescente importanza.
Ci si attende che successivi volumi, sulla stessa linea, facciano luce, con altrettanto dovizia di dati, su altre patologie correlate a distanza alla terapia oncologica: patologie dell’apparato digerente (fegato compreso), dell’apparato respiratorio, di quello renale; e su quanto la terapia antitumorale possa incidere sulla comparsa di disturbi psichiatrici e comportamentali.
Sarebbe opportuno, a questo scopo, che nell’ambito del trattamento antitumorale, ove l’approccio sia prevalentemente chemioterapico, venga presa in considerazione la farmacogenetica, poiché molte complicanze a distanza, laddove il bambino abbia sofferto di un cancro, non possono prescindere dalla suscettibilità delle sue cel­lule metastatiche, tenuto conto che si tratta di un soggetto in evoluzione somatica, biochimica, immunologica e psichica.
Una considerazione finale, che non può essere posta in secondo piano, è che allo stato attuale, tranne qualche eccezione, una patologia neoplastica nel bambino, la cui terapia può fare affiorare a distanza problematiche non indifferenti, non può prescindere dal coinvolgimento di vari operatori; da una parte il pediatra, dall’altra il medico dell’adulto, con un continuum di sorveglianza che non si riduca al semplice passaggio del testimone.

Pier Luigi Giorgi


Nelle mie mani
«Fare un libro è men che niente,
se il libro fatto non rifà la gente»
Giuseppe Giusti
Come non essere attratti – non solo per curiosità contingente – da una lettura che reca come sottotitolo “Medicina, fede, etica e diritti”? In questa stagione che offre timori ed attese, tra i tanti aspetti della crisi un accento sufficientemente severo non si è ancora posto, o lo si è posto in modo subalterno, sul ristagno del rapporto attivo tra società e produzione di cultura: cultura nell’accezione più ampia vale a dire l’accesso alla condivisione di conoscenza. “I ducati d’Italia” – come li definì Volponi nel secolo scorso – nutrono e si alimentano di un sempre più preoccupante isolazionismo corporativo. In tale ambito vive e soffre la crisi della classe medica, della ricerca e della pratica per la salute. Fino a poco tempo fa, “il ducato” godeva di fiducia e rispetto, rispecchiava la saggezza dei gruppi rassicurati dalla certezza delle scienze neutrali e dei metodi dell’esperienza. Ma, oggi, non potrebbe, invece, essere l’esperienza, il nome che ciascuno dà ai propri errori? Non potrebbe essere solo quel che rimane dopo che si è perduto molto delle nostre sicurezze? Viviamo tempi problematici, gremiti di dubbi e interpellanze nuove, che mobilitano – o dovrebbero mobilitare – la creatività di ciascuno. Però la creatività non rassicura, non consola gli afflitti, perché non è misericordiosa; essa, piuttosto, affligge i consolati, perché rimette in discussione molti falsi traguardi, e spesso impone dissenso e suggerisce itinerari inesplorati. Vuole che ognuno riprenda un cammino non solitario, bensì un cammino con l’altro, affinché il rischio dell’incognito possa farsi progresso proprio nella misura in cui è condiviso. Ma occorre intraprenderla, questa strada, e parteciparla.
Questo vuol dirci, soprattutto, il libro Nelle tue mani, di Ignazio Marino. A cura di Alessandra Cattoi. Pagine 228. Einaudi, Torino 2009. Euro 18,00. ISBN 978-88-06-19812-1. Esso – come anticipa il sottotitolo – affronta numerosi e diversi argomenti: alcuni annosi, altri di recente e bruciante attualità. Ed è indirizzato – giova rimarcarlo – non solo agli operatori sanitari, bensì a tutti coloro che hanno a cuore l’avanzamento di valori fondanti, individuali e di comunità: ai cittadini consapevoli di un ruolo civile e sociale, laici o credenti, sani o malati. Scrive, infatti, l’Autore: «... serve l’impegno di tutti, in particolare dei medici e degli infermieri che debbono riappropriarsi di un ruolo centrale nella gestione della sanità» (p. 211);  ... [ma] la fiducia nella scienza e la prospettiva di individuare terapie sempre più efficaci non possono bastare, se interi continenti vengono esclusi dal cammino che porta ad un miglioramento delle condizioni di vita. Se non impareremo a ragionare in un’ottica di vasi comunicanti, il progresso porterà inevitabilmente con sé un divario sempre più ampio tra il Nord e il Sud del mondo, ma anche tra chi è ricco e chi non lo è all’interno di uno stesso paese, tra i privilegiati e gli ultimi della terra» (p. 220).
In tale ottica e a questi fini, Marino dibatte, e dice la sua opinione (da medico, da politico, da “credente laico”), su problematiche incandescenti: dagli interrogativi etici sui trapianti a quelli correlati alle situazioni di fine-vita, sino al testamento biologico; dalle diverse normative sull’impiego di cellule staminali a quelle sulla fecondazione medicalmente assistita; dall’accanimento terapeutico alla desistenza di cure; dalla cosiddetta «sindrome trialomaniaca» (la proliferazione di studi clinici controllati che rischia di inquinare l’imparzialità della ricerca a causa di inconfessati interessi industriali) alla incongrua iperfetazione della rete ospedaliera del nostro paese, che con più di 1200 ospedali, pubblici e privati con accreditamento, non consente l’auspicata riconversione in assai più utili residenze per anziani, centri per la salute mentale, hospice. Non mancano, non potevano mancare, pagine di dolente denuncia sulla sconfitta della meritocrazia nelle facoltà universitarie, su ritardi e diseguaglianze del SSN, sui rapporti tutt’altro che limpidi tra politica e sanità. In tal modo – si legge a p. 202 –: «La sanità pubblica non potrà che diventare sempre meno efficiente e sicura, sempre meno attraente per i medici migliori; non vi sarà alcuna modernizzazione e i problemi di oggi – le interminabili liste di attesa, gli sprechi, le truffe, i disservizi – non potranno che aumentare».

Che fare, dunque, a fronte di tale orizzonte di rischio?

Su ciascun tema, l’Autore svolge le sue considerazioni; espone, con garbo e rigore, critiche, suggerimenti e proposte: a volte radicali, ma, alla luce di un’importante e doviziosa esperienza personale, concretamente praticabili ed in massima parte condivisibili.

Tuttavia, a monte, vi presiedono due condizioni.

La prima è una promozione della “persona” del medico: più che ad un ruolo di “superb technician” egli dovrebbe aspirare a quello di coprotagonista in una alleanza terapeutica fondata su dottrina più affetto. «Fare il medico è certamente impegnativo dal punto di vista professionale ma essere medico è ciò che fa la differenza nel modo di concepire e condurre la propria vita [il corsivo è dell’Autore]. Quante volte un medico si sente dire: “Dottore, mi metto nelle sue mani”. E quante volte dovrebbe tenere presente proprio questo atto di massima fiducia nel momento in cui affronta l’impegno, e la sfida, di restituire la salute a un altro essere umano?» (pp. 19 e 20).
Il medico attraversa, oggi, una crisi di identità. Occorre aiutarlo a ritrovare una fisionomia più completa, libero da investiture missionarie e da caste corporative. Un nostro amico – ad esempio – ha cura scrupolosa di sfilarsi il camice ogni volta che scende al bar di fronte all’ospedale per prendere un caffè. Confondendo il camice con la veste del sacerdozio, egli stravolge la funzione nel rito, declassa il servizio a sequenza formale. Perciò il gesto non ci appare necessario (se non dal punto di vista igienico, ma questo è un discorso diverso…); ci sembra che il decoro del medico abbia poco a che fare con la veste. Come dice il proverbio, l’abito non fa il monaco. Diremmo, piuttosto, che ci par vero il contrario: è il monaco che fa l’abito.

Ma un’altra necessità non può essere elusa, se si vuol contribuire alla costruzione di una sanità più umana e civile: è la consapevolezza che ognuno di noi può e deve parteciparvi; in autonomia e assumendosene la responsabilità, correndo il proprio rischio insieme agli altri e dando testimonianza di essere co-artefice di uno status e di una società.
Così, il “mi metto nelle sue mani” rivolto dal malato al curante, dovrebbe divenire, anche e prima di tutto, un fiero e fiducioso “mi metto nelle mie mani”: nella convinzione che l’oggetto della speranza è la novità qualitativa, non il mero prolungamento del presente, e che tale futuro tocca all’uomo inventarlo, sulla misura delle proprie energie.
“Nelle mie mani” dovrebbe, cioè, essere l’espressione del rifiuto di una determinazione esterna e, della volontà di recuperare il nostro destino derivante dalla libertà relativa di ciascuno.
“Nelle mie mani” compendia, infine, l’esortazione di Antoine de Saint-Exupery, secondo cui «una civiltà si fonda su quello che gli uomini debbono dare e non su quello che viene loro concesso».

Alice Morgan