Recenti studi
sulla pancreatite autoimmunitaria



La pancreatite autoimmunitaria (PAI) è una rara forma di pancreatite diagnosticata con crescente frequenza negli ultimi anni, che si presenta con due distinti quadri istologici (
Gardner TB, Chari ST. Autoimmune pancreatitis. Gastroenterology 2008; 137: 439).
Il tipo 1, denominato pancreatite sclerosante linfoplasmacitica (LPSP, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “lymphoplasmacitic sclerosing pancreatitis”), è caratterizzato da infiltrato linfoplasmacellulare periduttale, fibrosi massiva e flebite obliterante. Questa forma di PAI è associata ad aumento nel siero di immunoglobuline G4 ed è ritenuta una manifestazione pancreatica di una condizione sistemica associata a IgG4, caratterizzata da infiltrato linfoplasmacitico ricco di IgG4 negli organi interessati (sialoadenite cronica sclerosante, colangite associata a IgG4, nefrite tubulo-interstiziale e fibrosi retroperitoneale).
Il tipo 2 di PAI è definito pancreatite idiopatica centro-duttale (IDCP: “idiopathic duct centric pancreatitis”), caratterizzato da lesioni epiteliali, che si possono presentare con danno epiteliale duttale ed anche con obliterazione duttale; questo tipo di PAI non sembra associarsi con malattie sistemiche (tranne che, nel 30% dei casi, con malattie infiammatorie intestinali). Le anomalie sierologiche (IgG4) e l’interessamento di altri organi, caratteristici del tipo 1, sono assenti nel tipo 2, rendendo difficile la diagnosi senza l’esame istologico; recentemente l’introduzione della biopsia perendoscopica sotto guida ecografica ha consentito la diagnosi senza necessità di resezione del pancreas.
Gli studi recenti hanno indicato la notevole frequenza di ricorrenza della PAI di tipo 1, mentre non vi sono dati su quella del tipo 2. Inoltre la risposta al trattamento corticosteroideo, che si verifica nel breve termine nei pazienti con PAI di tipo 1, non è nota in quelli con PAI tipo 2.
In un recente studio su 97 pazienti con PAI (78 di tipo 1 e 19 di tipo 2) questa condizione è stata esaminata al fine di confrontare i due tipi dal punto di vista di: 1) profilo clinico, 2) percentuali di ricorrenze e fattori predittivi e 3) sopravvivenza al lungo termine (Sah RP, Chari ST, Pannala R, et al. Differences in clinical profile and relapse rate of type 1 versus type 2 autoimmune pancreatitis. Gastroenterology 2010; 139: 140).
Nel riferire i risultati della loro indagine gli autori premettono che la PAI non comprende soltanto due sottotipi istologici distinti, ma anche due entità cliniche (Park DH, Kim MH, Chari ST. Recent advances in autoimmune pancreatitis. Gut 2009; 58: 1680).
Queste due entità possono essere diagnosticate come PAI per la loro simile presentazione clinica con ittero ostruttivo, il loro simile quadro istologico e fibrosi e con simile risposta ai corticosteroidi. Per la diagnosi definitiva raramente è disponibile il reperto istologico nei pazienti non resecati e a ciò consegue la mancata distinzione tra i due tipi di PAI trattati medicalmente.
Nella casistica degli autori il tipo 1 di PAI è risultato caratteristicamente associato con stenosi biliari prossimali, fibrosi retroperitoneale e lesioni renali e salivari, mentre nel tipo 2 è assente un interessamento sistemico. All’esame radiologico il tipo 1 è caratterizzato da diffuso ingrandimento del pancreas, mentre nel tipo 2 sono presenti lesioni focali. La necessità di intervento  chirurgico per ottenere la diagnosi è stata osservata più frequentemente nei pazienti con tipo 2. Negli stessi si è osservata frequentemente una spontanea risoluzione.
I due tipi di PAI differiscono nella percentuale di ricorrenze; infatti nessuno dei pazienti di tipo 2 (o resecati chirurgicamente o trattati con corticosteroidi) ha presentato ricorrenze, mentre 37 su 78 pazienti di tipo 1 ne hanno presentate richiedenti trattamento; in questi soggetti un diffuso ingrandimento del pancreas all’inizio dello studio e l’interessamento del coledoco prossimale hanno consentito di prevedere la ricorrenza. Gli autori ricordano che in alcuni studi è stata segnalata l’associazione di interessamento del coledoco prossimale con colangite-IgG4 e che nei pazienti di tipo 1 la pancreatoduodenectomia è stata associata a ridotto rischio di ricorrenze. Concludono ritenendo che i tipi 1 e 2 della PAI appaiono due distinte condizioni patologiche, sia dal punto di vista istologico che da quello clinico, e che siano necessari ulteriori studi sui meccanismi patogenetici della malattia.
Recenti prospettive di terapia del diabete di tipo 2
L’esperienza acquisita nel trattamento del diabete mellito di tipo 2 (DM2) ha indicato che, sebbene la metformina si sia dimostrata inizialmente efficace come monoterapia, la natura progressiva del DM2 molto spesso richiede l’aggiunta di altri farmaci. Negli ultimi anni le ricerche sono state indirizzate al controllo di meccanismi non direttamente insulino-dipendenti, come il co-trasportatore 2 di sodio-glucosio (SGLT2: “sodium-glucose cotransporter 2”), che è principalmente localizzato nel segmento S1 del tubulo prossimale del rene e che riassorbe gran parte del glucosio filtrato dal glomerulo ( Rahmoune H, Thompson PW, Ward JM, et al. Glucose transporter in human renal proximal tubular cells isolated from the urine of patients with non-insulin-dependent diabetes. Diabetes 2005; 54: 3427).
Recentemente è stato studiato l’effetto della dapagliflozin (D), un inibitore altamente selettivo di SGLT2; è stato osservato che il legame di D a SGLT2 inibisce il riassorbimento renale di glucosio, ne promuove l’escrezione urinaria con riduzione della glicemia, con meccanismo insulino-indipendente.



(
Bailey CJ, Gross JL, Pieters A, et al. Effect of dapagliflozin in patients with type 2 diabetes who have inadequate glycaemic control with metformin: a randomized double-blind, placebo-controlled trial. Lancet 2010; 375: 2223).
Sono stati studiati 534 pazienti con DM2 che presentavano un insufficiente controllo glicemico con il trattamento con metformina. La D è stata somministrata per via orale a dosi di 2,5 mg, 5 mg o 10 mg pro die, secondo una randomizzazione per gruppi di soggetti numericamente corrispondenti; i pazienti hanno continuato a ricevere 1500 mg di metformina pro die. Il  punto di riferimento primario è stato il cambiamento del livello di HbA1C alla 24a settimana di terapia. Sono stati considerati punti di riferimento secondari la glicemia a digiuno, le sue modificazioni alla 24a settimana e alla 1a settimana, le modificazioni del peso corporeo alla 24a settimana.
Dai risultati ottenuti gli autori ritengono di poter dedurre che la D offre un nuovo approccio insulino-indipendente alla riduzione dell’iperglicemia e al miglioramento del controllo metabolico dei pazienti con DM2 e che questo farmaco può avere applicazione lungo tutta la storia naturale della malattia. Una significativa riduzione del livello di HbA1C e della glicemia a digiuno è stata ottenuta dopo 24 settimane di terapia con D senza alcun aumento del rischio di ipoglicemia. All’inizio dello studio è stata notata una diminuzione del peso corporeo, ritenuta conseguenza di una diuresi osmotica di lieve entità dovuta alla D; tuttavia la graduale e progressiva riduzione del peso associata a riduzione della circonferenza alla cintola è stata ritenuta conseguenza di riduzione della massa grassa, attribuibile a perdita di energia in conseguenza dell’escrezione urinaria di glucosio con aumento del rapporto glucosio/creatinina urinario.
Il trattamento con D è stato nel complesso ben tollerato. Tuttavia è stata segnalata una frequenza di infezioni genitali non meglio specificate. Su questo aspetto della terapia con D si ritengono necessari ulteriori controlli.
In questo studio sono stati segnalati: 1) un modesto aumento dell’ematocrito in rapporto alla diuresi osmotica indotta dalla D, 2) una riduzione della pressione arteriosa, senza ipotensione ortostatica, in parte conseguenza dell’aumento della diuresi, 3) lieve aumento dell’azoto ureico e lieve diminuzione dell’uricemia, che per il momento gli autori non sanno spiegare.
La D consente di migliorare il controllo glicemico nei diabetici che non raggiungono un controllo metabolico con la metformina; questi effetti sono ottenuti indipendentemente dall’insulina e non comportano rischio di ipoglicemia.
Recenti studi sulla progressione della fibrillazione atriale
da parossistica a persistente
Nella pratica clinica la fibrillazione atriale (FA) viene distinta in due forme cliniche: FA parossistica, caratterizzata da episodi aritmici che terminano spontaneamente e FA persistente, quando gli episodi durano più di 7 giorni e non terminano spontaneamente. In un recente studio clinico sono stati valutati i fattori correlati alla progressione da FA parossistica a FA persistente, con un particolare riguardo alla prognosi e alla possibilità di prevedere il rischio di questa progressione (de Vos CB, Pisters R, Nieuwlaat R, et al. Progression from paroxysmal to persistens atrial fibrillation. Clinical correlates and prognosis. J Am Coll Cardiol 2010; 55: 725). Gli autori precisano di non avere considerato separate le forme di FA persistente da quelle che sono definite permanenti, poiché ritengono che questa ultima definizione dipenda dall’interpretazione del medico e non dalle caratteristiche fisiopatologiche e cliniche dell’aritmia, rendendo pertanto difficile la valutazione della progressione.
Sono stati inclusi nello studio 1219 pazienti di età media di 64±13 anni, che sono stati studiati nel corso di due anni; la progressione alla forma persistente si è verificata in 178 pazienti (15%) dopo 1 anno di osservazione. Per valutare il rischio di progressione è stato usato un punteggio definito con la sigla HATCH (“hypertension, age > 75, transient ischemic attack or stroke, chronic obstructive pulmonary disease, heart failure”); a questi fattori è stato dato un punteggio: ipertensione 1 punto, età > 75 1 punto, attacco ischemico transitorio o ictus 2 punti; broncopneumopatia cronica ostruttiva 1 punto e insufficienza cardiaca 2 punti.
È stato rilevato che la progressione della FA si è verificata nonostante gli sforzi di ottenere un ritmo sinusale; inoltre i pazienti di questo gruppo hanno presentato eventi cardiovascolari più gravi e più frequentemente sono stati ricoverati in ospedale. È stato inoltre rilevato che insufficienza cardiaca, precedente ictus o attacco ischemico transitorio, broncopneumopatia cronica ostruttiva, ipertensione ed età > 75 anni sono stati fattori indipendenti di rischio di progressione. Gli autori ritengono pertanto che, essendo i suddetti fattori associati a futuri eventi cardiovascolari, appare logico pensare che nella progressione della FA abbiano maggiore rilevanza rimodellamenti strutturali piuttosto che elettrici degli atri; infatti alterazioni anatomiche sottostanti causano stimolazione prolungata e dilatazione atriale con conseguente rimodellamento atriale costituito da ipertrofia cellulare, proliferazione dei fibroblasti e fibrosi, elementi tutti che contribuiscono alla persistenza della FA. Gli autori ritengono che il sistema di punteggio HATCH da loro proposto nella valutazione del rischio di progressione della FA possa essere utile nella decisione clinica; esso rende possibile monitorare più frequentemente i pazienti con più alto punteggio e inoltre potrebbe essere adoperato per una precoce selezione di pazienti per un controllo del ritmo.



Nel commentare questi risultati, Jahangir e Murarka osservano che il metodo di punteggio HATCH può essere utile nell’identificazione dei pazienti con FA a rischio di progressione e, secondo gli autori, può anche identificare i pazienti nei quali si debba procedere al controllo della frequenza oppure del ritmo (Jahangir A. Murarka S. Progression of paroxysmal to persistent atrial fibrillation. Factors promoting the HATCH score. J Am Coll Cardiol 2010; 55: 732). Gli autori sottolineano, peraltro, che questo schema di punteggio, per quanto utile, può rappresentare la sola determinante della decisione di iniziare una terapia antiaritmica, poiché il trattamento della FA necessita di essere individualizzato in base alla presenza di sintomi associati alle frequenti ricorrenze. I problemi sollevati dallo studio di Vos et al (loc cit) sui fattori di rischio di progressione della FA riguardano gli sforzi intesi a identificare i meccanismi comuni che collegano questi fattori al substrato molecolare che promuove lo sviluppo della FA e la sua progressione, al fine di sviluppare efficaci strategie per la prevenzione della FA e delle sue complicazioni.
Beta-bloccanti
nella broncopneumopatia
cronica ostruttiva
È nota l’utilità dei beta-bloccanti nel trattamento dell’insufficienza cardiaca congestizia e nelle sindromi coronariche ischemiche. Tuttavia spesso questa terapia è controindicata in pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) perché si teme che i beta-bloccanti provochino broncospasmo e conseguente insufficienza respiratoria. Contrariamente a questo concetto tradizionale, da alcuni anni va emergendo una teoria secondo la quale questi farmaci – e in particolare quelli cardioselettivi – sono innocui e ben tollerati nei pazienti con BPCO e anzi possono migliorarne il decorso, riducendo la frequenza delle complicanze ( Salpeter SR, Ormiston T, Salpeter EE. Cardioselective beta-blockers in patients with reactive airway disease: a meta-analysis. Ann Intern Med 2002; 137: 715).
A proposito dei rapporti tra BPCO e malattie cardiovascolari, è stato recentemente rilevato come sia difficile la diagnosi differenziale tra queste due condizioni. Infatti spesso cardiopatie ischemica e insufficienza cardiaca possono essere asintomatiche in pazienti con BPCO; in queste occasioni astenia, difficoltà respiratoria e a volte anche dolore precordiale da sforzo possono, erroneamente, essere interpretati come sintomi di BPCO (Rutten FH, Cramer MJ, Grobbee DE, et al. Unrecognized heart failure in elderly patients with stable chronic obstructive pulmonary disease. Eur Heart J 2005; 26: 1887).
È stato ipotizzato che i beta-bloccanti potrebbero attenuare l’aumentato tono simpatico e ridurre il sovraccarico ischemico ed è stato segnalato che quelli cardioselettivi sono ben tollerati da pazienti con BPCO e perfino in condizioni di iperreattività delle vie aeree.
In un recente studio è stato valutato se l’uso prolungato di beta-bloccanti migliora la sopravvivenza e riduce il rischio di riacutizzazioni in pazienti con BPCO, ivi compresi i soggetti senza cardiovasculopatie (Rutten FH, Zuithoff NPA, Hak E, et al. b-blockers may reduce mortality and risk of exacerbations in patients with chronic pulmonary obstructive disease. Arch Intern Med 2010; 170: 880).
In un periodo di 10 anni (1996-2006) sono stati studiati 2230 pazienti di età superiore ai 45 anni, con diagnosi di BPCO (53% di sesso maschile); la mortalità è stata del 30,8% mentre nel 47,3% dei soggetti si sono verificate riacutizzazioni. È stato osservato che i beta-bloccanti cardioselettivi offrono maggiori vantaggi rispetto ai non selettivi per quanto concerne la mortalità, mentre esplicano un effetto analogo nei riguardi delle riacutizzazioni della BPCO. Gli autori sottolineano, peraltro, che non è dimostrato un effetto dei beta-bloccanti sulla funzione polmonare che consenta di farli definire farmaci “cardiopolmonari”. In questa casistica l’indicazione dei beta-bloccanti, nei pazienti senza associate condizioni cardiovascolari clinicamente manifestate, è stata la presenza di ipertensione nella quale questi farmaci trovano indicazione. Per contro, la riduzione del rischio di riacutizzazioni della BPCO ad opera dei beta-bloccanti non può spiegarsi, secondo gli autori, soltanto con i loro effetti cardiovascolari. È stato osservato che in alcuni pazienti che hanno usato beta-bloccanti come unici farmaci cardiovascolari, si è verificato un miglioramento della sopravvivenza, ad indicare che probabilmente i beta-bloccanti presentano un effetto specifico di classe, indipendente da altri farmaci cardiovascolari.
Secondo gli autori, il benefico effetto osservato nella loro casistica con molteplici farmaci cardiovascolari in pazienti con BPCO induce a ritenere che il trattamento di comorbilità asintomatiche cardiovascolari esplichi un ruolo sul quadro complessivo della malattia. Inoltre, l’avere rilevato che oltre la metà dei loro pazienti con BPCO presenta fattori di rischio cardiovascolare giustifica ogni sforzo per identificare precocemente l’associazione con malattie cardiovascolari in tali pazienti. Pertanto appare necessario porre attenzione a sintomi toracici di “fastidi” non definiti ed a pressione arteriosa e frequenza cardiaca, con controlli elettrocardiografici e dei noti biomarcatori di danno cardiovascolare.
Gli autori richiamano inoltre l’attenzione sull’effetto esplicato dai beta-bloccanti sul sistema nervoso simpatico (v. sopra) che determina diminuzione della frequenza cardiaca e, di qui, un effetto positivo sugli effetti sistemici della BPCO.
Infine si soffermano sull’effetto, definito “inaspettato” prodotto dai beta-bloccanti nella sopravvivenza dei pazienti che usano b2-simpaticomimetici per inalazione, ricordando gli studi sperimentali su animali che hanno indicato che i beta-bloccanti possono sovraregolare i b2-recettori del polmone e migliorare la risposta broncodilatatoria.



Lo studio conclude
che i beta-bloccanti possono ridurre la mortalità e il rischio di riacutizzazioni della BPCO in un gran numero dei pazienti che presentano ipertensione e malattie cardiovascolari e che su questi problemi saranno necessari ulteriori ricerche.

Nel commentare questi risultati, Sin (Sin DD. A curious case of b-blockers in chronic obstructive pulmonary disease. Arch Intern Med 2010; 170: 849) osserva che essi inducono a consigliare un più ampio uso di beta-bloccanti al fine di ridurre il peso delle comorbilità cardiovascolari nella BPCO che attualmente sono responsabili di circa il 50% dei ricoveri ospedalieri. Tuttavia ritiene sia necessario tenere presenti alcuni “caveat” prima di seguire questi nuovi concetti. In primis è possibile che dal trattamento con beta-bloccanti siano stati esclusi nella casistica di Rutten et al (loc cit) i pazienti in condizioni cliniche generali più gravi, poiché essi potrebbero non tollerare questi farmaci. In secondo luogo il meccanismo per cui i beta-bloccanti riducono mortalità e riacutizzazioni nella BPCO non è perfettamente chiarito; infatti i beta-bloccanti, in particolar modo i non selettivi, peggiorano la funzione polmonare e promuovono crisi respiratorie durante le riacutizzazioni; tuttavia, come anche riportato da Rutten et al (loc cit), recenti dati sperimentali indicano che, sebbene i beta-bloccanti possano aggravare il broncospasmo in maniera acuta, il loro uso prolungato conduce, paradossalmente, a un miglioramento della risposta bronchiale, sovraregolando la densità degli adrenorecettori beta polmonari. Inoltre altri studi indicano che la somministrazione prolungata di beta-bloccanti riduce l’infiammazione polmonare e la secrezione di muco e ciò può essere utile nel ridurre i sintomi della BPCO ( Nguyen LP, Omoluabi O, Parra S, et al. Chronic exposure to beta-blockers attenuates inflammation and mucin content in a murine asthma model. Am J Respir Cell Mol Biol 2008; 38: 256). Altri meccanismi potrebbero riguardare l’effetto bradicardizzante dei beta-bloccanti, tenendo presente che la tachicardia è molto frequente nei pazienti con BPCO. Inoltre, migliorando la funzione cardiaca, i beta-bloccanti potrebbero essere utili in caso di ipertensione polmonare correlata a vari fattori, come ipossiemia, iperinflazione polmonare, infiammazione polmonare e rimodellamento vascolare. Infine è da tenere presente che la causa di circa il 50% delle riacutizzazioni della BPCO non è nota ed è possibile che molti episodi siano di natura non infettiva, ma rappresentino eventi di natura cardiovascolare, quali insufficienza cardiaca e ischemia miocardica, che danno luogo a sintomi, come dispnea e tosse, simili a quelli delle riacutizzazioni infettive. Secondo Sin i dati forniti da Rutten et al dovrebbero indurre a usare i beta-bloccanti, anche non cardioselettivi come il carvedilol, con cautela nei pazienti con BPCO che hanno condizioni cardiovascolari associate.
Disfunzione renale
e ipertensione arteriosa acuta grave
Studi epidemiologici e clinici hanno dimostrato l’influenza dell’ipertensione sulla funzione renale; tuttavia non è stata ancora pienamente studiata l’influenza sulla funzione renale dell’ipertensione acuta grave, pur essendo riconosciuto che la conoscenza di come la presenza di nefropatia cronica (NPC) o di danno renale acuto (DRA) influenzi il decorso dell’ipertensione acuta grave e possa essere utile per identificare pazienti ad alto rischio e induca ad un’attenta sorveglianza clinica.
Un recente studio clinico è stato condotto per definire, in pazienti con ipertensione acuta grave, il rischio di aggravamento delle condizioni cardiovascolari determinato dalla presenza di NPC o DRA (Szczech LA, Granger CB, Dasta JF, et al, for the Studying the Treatment of Acute Hypertension Investigators. Acute kidney injury and cardiovascular outcomes in acute severe hypertension. Circulation 2010; 121: 2183).
Sono stati studiati 1566 pazienti ricoverati in ospedale per un episodio di ipertensione arteriosa acuta grave, nei quali la presenza di NPC o di DRA ha comportato un aggravamento del decorso. È stato notato che, anche tenendo presente una situazione di disfunzione renale evidente già all’inizio del ricovero, un aggravamento di tale disfunzione è apparso associato a morbilità e mortalità aumentate. Inoltre è stato rilevato che questo aumento di rischio è iniziato anche quando si è verificato un modesto declino della funzione renale ed è ulteriormente aumentato progressivamente con l’aggravarsi del danno renale. Gli autori sottolineano che, ove si eccettui un aumento della creatininemia al momento del ricovero, sono stati rilevati ben pochi elementi clinici atti a identificare aspetti validi a distinguere questi pazienti da quelli con segni di danno renale di minore entità o assente.
Secondo gli autori, nei pazienti con ipertensione acuta che presentano, al momento del ricovero, una ridotta frazione di filtrazione glomerulare (GFR: “glomerular filtration rate”) quale indice di ridotto numero di nefroni funzionanti residui, probabilmente esiste un deficit del meccanismo di compenso della filtrazione, con conseguente danno renale acuto che si manifesta con aumento della creatininemia e riduzione del GFR. A questo proposito è necessario individuare nuovi marcatori di DRA che siano rivelatori specifici di danno renovascolare, glomerulare e tubulare, prima che aumenti nel sangue il livello delle proteine filtrate. Tali nuovi marcatori potrebbero essere utili per indirizzare nuove possibilità terapeutiche.